Ragazzi Di Malavita - Giovanni Bianconi - PDFCOFFEE.COM (2024)

Giovanni Bianconi RAGAZZI DI MALAVITA Fatti e misfatti della banda della Magliana. Milano 2004.

"Le ultime azioni da uomo libero del Duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere furono quelle di salire sulla sua BMW 320 grigia metallizzata, accendere il motore e percorrere qualche centinaio di metri. Era buio, le diciotto e trenta di lunedì 7 novembre 1977... La BMW 320 del duca era quasi arrivata all'incrocio di via della Marcigliana con via Salaria, quando un'Alfetta spuntò all'improvviso dal lato della strada, la strinse e obbligò il duca a fermarsi..." I sequestri di persona erano allora, per

così dire, di moda in Italia, tra quelli per terrorismo e quelli per lucro. Nel 1977 l'Anonima ne aveva già messi a segno sessantasei. A Roma "don Massimiliano" era l'ottavo ostaggio dall'inizio dell'anno, ma la banda che lo portò via la sera del 7 novembre non era composta da "professionisti" e quel sequestro significò un salto di qualità per Franco Giuseppucci e i suoi amici di Trastevere, di Testaccio e della Magliana. Il duca ci rimise la pelle, e il suo assassinio fu il primo atto di rilievo di quella

che è stata definita la banda della Magliana, ma in un certo senso non è mai stata una banda e, più che un'organizzazione, è stata un ambiente, una sorta di contenitore in cui hanno transitato e fatto affari i personaggi più diversi, e si sono consumate alleanze, tradimenti e vendette, senza capi e un progetto unitario che non fosse il controllo del malaffare, come principale e inesauribile fonte di ricchezza. Giovanni Bianconi ricostruisce, basandosi sullo studio

approfondito e appassionato degli atti processuali accumulatisi in anni d'inchieste giudiziarie, una sconvolgente storia di delinquenza collettiva che sta tra i traffici dei quaranta ladroni di Ali Babà ne "Le mille e una notte" e le stragi di gangster di "Raccolto rosso" di Dashiell Hammett, ma non è una favola antica o moderna, è un pezzo della nostra allarmante realtà. Proprio per l'assenza di organismi decisionali e di confini alle attività della banda che non è mai stata una banda,

le vicende della Magliana si intrecciano con tutte quelle dei personaggi di spicco della cronaca italiana, da Pippo Calò a Totò Riina, da Raffaele Cutolo a Licio Gelli, un groviglio di soprusi, atrocità e misteri. Il volontariato del male. ORESTE DEL BUONO Giovanni Bianconi, nato a Roma nel 1960, è inviato del "Corriere della Sera". Per Baldini Castoldi Dalai editore ha scritto "A mano armata. Vita violenta di Giusva Fioravanti" (1992) e con Gaetano Savatteri

"L'attentatuni. Storia di sbirri e di mafiosi" (1998). Nel 2003 ha pubblicato "Mi dichiaro prigioniero politico. Storie delle Brigate rosse" (Einaudi).

INDICE

Prefazione, Gennaro.

di

Gianni

RAGAZZI DI MALAVITA. Avvertenza dell'autore. 1. 2. 3. 4.

Nobili e borgatari. Napoletani a Roma. Fuoco sui «pesciaroli». Polvere.

De

5. Bulli, pupe e affari sporchi. 6. «Ciao, Nicolino». 7. Cosa Nostra e i misteri d'Italia. 8. Amici neri, Servizi e segreti. 9. La strage. 10. Pentimenti. I protagonisti. Note. ***

PREFAZIONE di Gianni De Gennaro.

Un cane lupo. Il cane di Libero Mancone. Un flash, un ricordo. Grazia Selis, alla disperata ricerca della verità sulla scomparsa di suo fratello Nicolino, non riesce a entrare in casa di Mancone per chiedergli notizie. Un gruppo di poliziotti intenti nell'ennesimo arresto di

Mancone sono ostacolati dallo stesso cane lupo, feroce custode della "privacy" del suo padrone. C'ero anch'io tra quei poliziotti: Mancone riuscì a fuggire e si diede alla latitanza. Per uno come me, cresciuto nella Squadra Mobile di Roma negli stessi anni in cui quella gente di malavita, che l'autore chiama con affettuosa ironia i «bravi ragazzi», cresceva a sua volta nei bar e nelle bische della Magliana, del Tufello, di Trastevere e di Testaccio, il libro di Giovanni Bianconi è un susseguirsi di ricordi.

Capita di rado a un poliziotto, perennemente distratto da una miriade di fatti e di episodi che si rincorrono disordinatamente nella sua memoria, di avere la possibilità di rileggerli nitidi, lineari, logicamente consequenziali. La banda della Magliana, questa misteriosa entità cui la fantasia popolare e una stampa talvolta disattenta hanno spesso attribuito ruoli e attività tendenti a circoscriverla quasi esclusivamente in un mondo lontano dai vicoli del centro e dalla periferia di una grande

città, torna, grazie all'opera di Bianconi, ad appartenere a quella malavita nostrana, violenta e senza regole, che ha imperversato a Roma per anni, intersecandosi, talora casualmente, talaltra intenzionalmente, con altri poteri criminali, che della capitale avevano fatto terra di conquista. Il libro di Bianconi dunque, al di là di quell'aspetto per me simpaticamente autobiografico, ha uno specifico valore per chi, curioso e attento lettore della cronaca, riesce finalmente a

capire cosa hanno rappresentato, per oltre un decennio, le miserevoli gesta dei «bravi ragazzi della Magliana». Droga, rapine, gioco d'azzardo, sequestri di persona, inutili omicidi, spavaldi e prepotenti inserimenti in realtà criminali più grandi di loro. Soldi, troppi soldi, futile potere, e poi la fine: tragica e apparentemente ingloriosa per chi ha condotto un'intera vita nel disprezzo degli altri e della legge. Lunghe confessioni davanti a un giudice istruttore e finalmente la verità, o

meglio, gran parte della verità. Quanti rapporti di polizia, quante indagini, quante istruttorie si erano ripetutamente avvicinate a definire la reale portata dei delitti di «Renatino», «er vòto», «accattone», «operaietto», «palle d'oro», «er cane», «er criminale», «er ciambellone» e di tanti altri «er» che hanno popolato per anni le cronache del «Messaggero» prima e di tutta la stampa nazionale poi. Soltanto le testimonianze dirette di Claudio Sicilia, di

Fulvio Lucidi, di Maurizio Abbatino, di Antonio Mancini, di Fabiola Moretti ci portano oggi a collegare tra loro e nella loro giusta valenza morti misteriose e complicati intrecci. Fabiola Moretti: una donna. Già, le donne dei «bravi ragazzi», così profondamente presenti nel loro delinquere e così apparentemente assenti dalla loro vita. Giovanni Bianconi ce le descrive con concretezza attraverso le crude e asettiche parole dei verbali di polizia, quando, soprattutto nei momenti più tragici, con un

rituale quasi studiato, ripetono tutte indistintamente, all'unisono, la loro completa estraneità alle amicizie e alle attività dei loro compagni che non mancano di ricordare o rimpiangere come «bravi ragazzi». Non era facile ricollegare tanti fatti e tanti personaggi, né spiegare quei misteriosi contatti con un mondo criminale più adulto di quello della banda della Magliana: la mafia siciliana, i Marsigliesi, la camorra e ancora più su, gli affari, la politica. A me sembra che lo sforzo di

intelligente ricostruzione che l'autore ha fatto, selezionando tra le migliaia e migliaia di pagine processuali, quelle più significative, sia stato premiato. E così, leggendo il libro di Bianconi, un vecchio poliziotto può riordinare i suoi ricordi nella memoria, un conoscitore della cronaca può rileggere compiutamente tanti fatti che in parte gli erano noti e anche un giovane, che nulla sa dei «bravi ragazzi», può avvicinarsi alle loro storie riuscendo a collocarle in una esatta dimensione.

***

RAGAZZI DI MALAVITA.

"Non c'era più orgoglio popolare, (...) alternativo (...). Anzi, le mille lire di più che il benessere aveva infilato nelle saccocce dei giovani proletari, avevano reso quei giovani proletari sciocchi, presuntuosi, vanitosi, cattivi". Pier Paolo Pasolini, "Petrolio"

***

La definizione più comune è «agenzia del crimine», un'altra usata spesso è «holding politico-criminale». Da ultimo un magistrato ha rinviato a giudizio i suoi componenti con l'accusa di associazione mafiosa. E' comunque il ruolo che le è stato attribuito di «braccio armato» di settori delle istituzioni «deviati» e dei vari «poteri occulti» ad aver reso famosa la banda della

Magliana, un'organizzazione che viene chiamata in causa con sempre maggiore insistenza in quasi tutti i misteri d'Italia, ogni volta che un delitto sembra nascondere qualcosa di oscuro o inconfessabile. Ciò che ormai appare accertato è che con la banda della Magliana, coi suoi uomini o almeno con alcuni spezzoni di essa, sono entrati in contatto e in affari, nel corso degli anni e a diversi livelli, la mafia siciliana e quella catanese, la 'ndrangheta calabrese, la

camorra, la loggia P2, i sempre presenti Servizi segreti «deviati», i terroristi neri, imprenditori d'assalto e riciclatori di denaro sporco. Il giudice Libero Mancuso ha definito la banda come «il luogo nel quale l'Antistato consuma tutto il suo potenziale eversivo e antagonista per diventare esso stesso, attraverso una serie di passaggi mediati, di apporti operativi e ideativi, "istituzione, sistema" che si arroga il diritto di eliminare tutte le sue variabili impazzite, di proteggere tutti coloro che

operano all'interno delle proprie finalità». Un ruolo per il quale, aggiunge il magistrato, «se vi è stata un'organizzazione criminale che abbia mai avuto protezioni, e che sia stata sottovalutata nonostante la profluvie di elementi di accusa raccolti inutilmente a suo carico, questa è la banda della Magliana». Ma se questo è l'aspetto più noto, quello che rende la «Magliana» un fenomeno di rilevanza nazionale e per certi versi politico, ce n'è anche un

altro, meno approfondito perché apparentemente meno dirompente, quasi mai valutato nel suo insieme ma abbandonato nel corso degli anni alle cronache nere dei quotidiani. E' la storia di quel gruppo di malavitosi di quartiere che piano piano si organizzano, affinano le loro capacità criminali diventando veri e propri gangster, intrecciano contatti e rapporti che li trasformano in boss, sbaragliano il campo dai banditi della generazione precedente fino a ottenere il controllo

quasi totale dei traffici illeciti a Roma - dai sequestri di persona al commercio della droga, dalle scommesse clandestine al «racket» dei videogiochi, dal traffico d'armi all'usura -, dando vita a quell'agglomerato chiamato convenzionalmente banda della Magliana. Una vicenda che diventa la storia criminale di Roma dalla fine degli anni Settanta a tutti gli anni Ottanta, o se si vuole di «Roma capitale del crimine», visto che questa città è stata anche a causa dell'attività della banda - il crocevia di azioni e

interessi della malavita organizzata nazionale. Questo libro cerca di fare luce soprattutto sul secondo aspetto della storia della banda, quello più «interno», nel tentativo di approfondire le dinamiche e l'evoluzione di quel pugno di criminali con pochi scrupoli e senza padroni, non organizzato gerarchicamente secondo rigide strutture ma nel quale di volta in volta prendono il sopravvento questo o quel personaggio, con fazioni interne che prima collaborano e

poi si annientano tra loro seminando decine di morti con una cadenza che nel disinteresse quasi generale - ha trasformato interi quartieri di Roma in qualcosa di molto simile alla Chicago degli anni Trenta. Decine di omicidi che presi singolarmente dicono poco o niente, ma che messi insieme e collegati l'uno all'altro, soprattutto attraverso le dichiarazioni dei «collaboratori di giustizia», sollevano il velo su quella «guerra di piccola mafia» che s'è combattuta nella

capitale mentre l'attenzione dell'opinione pubblica nazionale era rivolta quasi esclusivamente al terrorismo prima e a Cosa Nostra siciliana poi. Ne viene fuori una storia di sentenze di morte covate a lungo e omicidi maturati e consumati nel corso di una serata, anche per una banale lite; di esecuzioni compiute a freddo, magari dopo una cena tra la vittima e i suoi assassini, e di episodi di «lupara bianca» col seppellimento del cadavere sotto colate di cemento; una storia di «bravi ragazzi»

arricchiti dalla droga, che vivono tra bar, ippodromi e sale giochi, sniffando cocaina e correndo su auto di lusso e moto giapponesi, fino all'esaurimento suggellato prima dai morti e poi dai «pentimenti» di alcuni superstiti. Vista da questa angolazione la banda della Magliana appare un'organizzazione più che un «ambiente», una sorta di contenitore dove transitano e fanno affari i personaggi più diversi, dentro il quale si consumano alleanze,

tradimenti e vendette, senza capi e senza un «progetto» unitario che non sia quello di controllare il malaffare, principale e inesauribile fonte di ricchezza. Ma proprio per questo, proprio perché non ci sono capi né vertici, bensì individui disposti a tutto pur di accaparrarsi un guadagno, una protezione o un alleato per eliminare il nemico di turno, la banda diventa anche lo strumento che può essere utilizzato da «burattinai» di ogni tipo. Ecco allora che il

secondo aspetto della storia, quello «interno», si lega al primo, quello dell'«agenzia del crimine» e della «holding politico-criminale». Proprio per l'assenza di organismi decisionali e di confini alle attività della banda, la storia della «Magliana» si intreccia con quella di personaggi che hanno riempito le cronache dell'Italia criminale, da Pippo Calò a Totò Riina, da Raffaele Cutolo a Licio Gelli, passando per faccendieri, terroristi neri e trafficanti internazionali di armi e droga; ed ecco il

coinvolgimento in episodi tuttora misteriosi come l'omicidio Pecorelli, il ferimento dell'ex vicepresidente del Banco Ambrosiano Roberto Rosone, il depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna. Naturalmente si tratta di un tentativo, di una ricostruzione certamente parziale, nella quale alcune vicende sono state trattate solo per accenni oppure omesse perché avrebbero finito per diventare un altro libro e non questo, che non può e non vuole essere esauriente, ma solo contribuire

a far conoscere le storie di un gruppo di «ragazzi di malavita», che sono anche un pezzo di storia d'Italia. Questo lavoro si basa essenzialmente sullo studio degli atti processuali accumulatisi in anni di inchieste giudiziarie, fino a quella sfociata nel rinvio a giudizio di novantotto persone nell'agosto del 1994. Altre inchieste sono tuttora in corso da parte dell'autorità giudiziaria in diverse città d'Italia, ed è prevedibile che

nuovi sviluppi si avranno in seguito. La storia della banda della Magliana e dei personaggi che intorno a essa hanno gravitato, quindi, è in parte ancora al vaglio dell'autorità giudiziaria. E anche sui fatti per i quali ci sono state delle sentenze definitive, i racconti dei nuovi «pentiti» hanno fornito ulteriori particolari ed elementi di riscontro che mancavano al momento dei giudizi passati. Nelle vicende narrate ho cercato di tener conto, laddove è stato possibile ricostruirli, dei

pronunciamenti della magistratura, ma molti procedimenti penali sono stati interrotti prima che si giungesse a un giudizio definitivo, per morte sopravvenuta delle persone coinvolte. Oltre ai racconti dei «pentiti» contenuti negli atti, ho potuto contare su testimonianze, colloqui e consigli ricevuti da tante persone che a causa del loro lavoro o di altre circostanze hanno avuto a che fare con le vicende qui narrate. Elencarle

sarebbe troppo lungo, ma ringrazio ciascuna di loro. Indispensabile per le ricerche e la documentazione è stato ancora una volta Giuseppe Valdroni, segretario giudiziario della Procura della Repubblica di Roma. G. B. Roma, gennaio 1995 ***

1. NOBILI E BORGATARI

Le ultime azioni da uomo libero del duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere furono quelle di salire sulla sua BMW 320 grigia metallizzata, accendere il motore e percorrere qualche centinaio di metri. Era buio, le diciotto e trenta di lunedì 7 novembre 1977.

A quell'ora il duca lasciò la località Le Torrette, un allevamento di cavalli che passava a visitare quasi ogni sera. Doveva andare agli uffici dell'amministrazione della sua tenuta, e imboccò la strada in discesa, seguito dal fattore Luigi Nanni a bordo di una Fiat 126. Quella campagna che circondava la strada era tutto, ormai, per il duca Grazioli Lante: «don Massimiliano», lo chiamavano dipendenti e amici; i più intimi, invece, «Max». Era riuscito a ottenere quei 534 ettari di terreno a nord di Roma

coltivato a grano e pascolo dopo anni di liti e controversie legali con gli altri eredi di una famiglia che affondava le sue radici di nobiltà nella fine del Settecento. Finalmente era diventato amministratore della tenuta, una delle poche proprietà che gli erano rimaste insieme a un'ala di palazzo Grazioli in città - in via del Plebiscito, a due passi da piazza Venezia - e qualche altra cosa. Lasciato il lavoro che svolgeva al «Messaggero», il giornale che era stato della famiglia della moglie Isabella, il duca

s'era buttato anima e corpo nella sua campagna e adesso, a sessantasei anni, l'aveva trasformata in una tenuta modello. Gli ettari di terreno che in quel momento si intuivano soltanto nel buio seguito al tramonto, erano anche il suo orgoglio, un modo per prolungare la tradizione di una famiglia cresciuta e prosperata con l'agricoltura. I Grazioli, baroni dal 1823 per volontà di papa Gregorio Sedicesimo e diventati duchi nel 1851 per ordine di Ferdinando Secondo

re di Napoli, erano stati i mugnai del pontefice e grazie a quell'attività avevano accumulato decine di palazzi e una delle ricchezze più cospicue nella Roma papalina. E se a «don Massimiliano» era rimasto ben poco di quei beni, nello stemma della casata insieme all'aquila, alla colomba e al capretto - c'era ancora un fascio di spighe di grano. Lui, a oltre un secolo di distanza, voleva continuare a dare sostanza a quell'emblema. Il duca si recava ogni giorno alla tenuta della Marcigliana,

dalle parti di Settebagni, ed era più che metodico negli orari. Usciva al mattino da palazzo Grazioli con la sua BMW, trascorreva la giornata in campagna e non tornava a Roma che dopo il tramonto. Era il suo lavoro, la fonte dei suoi guadagni ancora alti anche se ultimamente, nelle casse di famiglia, erano entrati altri soldi freschi. La vendita del «Messaggero» da parte dei Perrone, infatti, aveva fruttato qualcosa alla moglie Isabella. E quella notizia era circolata pure tra gente con cui «don

Massimiliano» non aveva mai avuto a che fare. Fino a quella sera. La BMW 320 del duca era quasi arrivata all'incrocio di via della Marcigliana con via Salaria, quando un'Alfetta spuntò all'improvviso dal lato della strada, la strinse e obbligò il duca a fermarsi. La 126 del signor Nanni, che seguiva «il padrone», arrivò poco dopo e il fattore fece appena in tempo a vedere l'auto grigia ferma in mezzo alla via e due persone che trascinavano «don Massimiliano» fuori dalla BMW,

tenendolo per le braccia e per i piedi. Luigi Nanni pensò subito a un incidente, ma pochi attimi dopo si trovò la canna di un mitra puntata contro la spalla sinistra. Un uomo incappucciato ordinò a quello col mitra: «Tiralo fuori e tastalo». Mentre teneva le mani alzate e veniva perquisito, il fattore udì due spari, poi l'uomo col mitra gli gridò di buttarsi faccia a terra nel fossato che costeggiava la strada. «Se ti muovi ti faccio saltare la testa.» «Stai calmo, non mi muovo», balbettò Nanni, che con il viso nell'erba

sentì il rumore di due macchine che ripartivano sgommando. Il duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere era ormai un ostaggio dei suoi rapitori. In Italia andavano di moda i sequestri di persona, in quel periodo. Nel 1977 l'Anonima ne aveva già messi a segno sessantasei superando la cifra record stabilita nel '75, e alla fine dell'anno mancavano quasi due mesi. Il giorno dopo il rapimento Grazioli, a Lecce fu sequestrato Pietro Fiocchi, il «re delle cartucce», e a

Chiavari, sulla riviera ligure, il figlio del commerciante e impresario edile Livio Fontana sfuggì per puro caso ai suoi rapitori. Le preoccupazioni degli italiani, però, erano altre: la situazione politica, coi comunisti che si apprestavano a entrare per la prima volta nella maggioranza di governo, e il terrorismo che stava diventando qualcosa di più massiccio rispetto a quanto appariva all'inizio: anche il movimento degli studenti aveva impugnato le armi, e le

sedi di Autonomia Operaia venivano chiuse in base alle prime leggi speciali. A Roma, «don Massimiliano» era l'ottavo ostaggio preso dall'inizio dell'anno, ma la banda che l'aveva portato via la sera del 7 novembre non era composta da «professionisti». A ideare il sequestro fu un certo Franco Giuseppucci, trentenne segnalato più volte dalla polizia per rapine e detenzione di armi. A quel tempo i suoi amici di Trastevere, di Testaccio e della Magliana gli avevano già cambiato soprannome: prima

era «il fornaretto», poi era diventato «er negro» a causa del colorito scuro della pelle. Oltre a compiere rapine e a commerciare armi, Giuseppucci faceva il «buttafuori» in una sala corse dalle parti di Ostia, gestita da un certo Enrico, uno che frequentava i giovani fascisti figli della Roma bene, i «pariolini» con capelli corti e scarpe a punta, giacconi paramilitari e passione sfrenata per le armi. Attraverso il giro dei possessori di macchine fuoristrada, ancora ristretto nel 1977, Enrico aveva conosciuto

ed era diventato amico di Giulio Grazioli, figlio del duca Massimiliano. Le informazioni necessarie per il sequestro, dalle abitudini del futuro ostaggio alle sue possibilità economiche, venivano proprio da lì. Uno della banda messa insieme da Giuseppucci, Maurizio Abbatino, all'epoca ventritreenne, racconterà ai giudici: «Si trattava di un salto di qualità rispetto alle rapine che sino a quel momento costituivano la nostra principale attività. Ovviamente un

sequestro di persona richiedeva una maggiore organizzazione sia logistica che di impegno personale. Pertanto, mentre iniziavano i pedinamenti del sequestrando, prendemmo anche contatto, da un lato, con Giorgio Paradisi, il quale conosceva il Giuseppucci a ragione della comune passione per i cavalli e frequentazione di ippodromi, sale corse e bische, nonché con altra persona che faceva il ricettatore, conosciuta da Paradisi; dall'altro lato con una banda di Montespaccato, della quale ricordo facevano

parte Antonio Montegrande, siciliano, Stefano Tobia, tale Angelo detto anche 'faccia d'angelo' e un cognato di quest'ultimo». (1) Tra queste persone, la divisione dei compiti era precisa. Continua Abbatino: «Io, Giuseppucci, Piconi, Castelletti, Danesi, Enzo Mastropietro, Paradisi e 'Bobo' dovevamo curare e curammo le fasi preparatorie del sequestro, nel corso delle quali si unì a noi anche Marcello Colafigli, conosciuto dal Giuseppucci, che procurò il cloroformio utilizzato

per il rapimento. Il ricettatore amico di Paradisi doveva tenere, come in effetti tenne, i contatti con la famiglia del Grazioli. Quelli di Montespaccato dovevano custodire, come in effetti fecero, per qualche tempo l'ostaggio». (2) La prima telefonata a palazzo Grazioli arrivò meno di un'ora dopo il sequestro, alle diciannove e quindici del 7 novembre 1977. Una voce contraffatta disse soltanto poche parole: «Preparate dieci

miliardi». La richiesta del riscatto finì subito sui quotidiani, e un paio di giorni più tardi il telefonista della banda si rifece vivo. Parlò con il figlio del duca, Giulio, un ragazzo abituato agli agi e ai vizi tipici dei rampolli della nobiltà romana, ma anche alle regole rigide imposte dal sangue blu, che improvvisamente si ritrovava sbattuto in una vicenda di cronaca nera. Il telefonista si lamentò per le notizie uscite sui giornali, ribadì la cifra richiesta e specificò che doveva

essere consegnata in biglietti di piccolo taglio. Giulio voleva la prova che suo padre fosse vivo, e che quelli al telefono fossero davvero i suoi rapitori: «Chiedetegli e riferitemi quale fu la sua prima macchina». La risposta arrivò dopo quarantott'ore: «La macchina era una Lancia Augusta. Ma voi dovete sborsare dieci miliardi». «Non ce li abbiamo», disse Giulio, «adesso possiamo darvi duecentonove milioni.» Il rumore dell'ultimo gettone che cadeva interruppe la telefonata.

Passò mezz'ora e il rapitore era di nuovo dall'altra parte del filo: «Ascolta, duecentonove milioni non sono niente per noi. Chiedi i soldi a tuo zio e a tua madre». Anche i sequestratori sapevano della vendita del «Messaggero» da parte della famiglia Perrone, e volevano quei soldi. I telefoni di palazzo Grazioli, naturalmente, erano sotto controllo, ma i tecnici riuscirono a stabilire soltanto che le chiamate arrivavano dalla zona di Ladispoli, quaranta chilometri a nord di Roma, lungo il mare.

Passarono i giorni, le settimane, e con lo stile delle Brigate Rosse che di lì a poco sarebbe diventato famoso, i sequestratori del duca facevano arrivare di tanto in tanto messaggi e fotografie dell'ostaggio attraverso i giornali. Telefonavano alle redazioni: «C'è un'informazione importante nel cestino dell'immondizia vicino a Castel Sant'Angelo», «Correte in quella cabina telefonica», «Andate in quel bar». Le chiamate arrivavano quasi sempre da fuori Roma, con una

voce chiaramente falsata. «Il telefonista», confesserà uno dei sequestratori, «parlava con una pallina da ping-pong in bocca, per camuffare la voce.» Le lettere per la famiglia dell'ostaggio erano battute con una macchina da scrivere giocattolo, oppure composte con ritagli di giornale secondo il più consumato degli accorgimenti usati dai criminali. Da palazzo Grazioli continuavano a domandare particolari sulla vita privata del duca, sempre per verificare che fosse vivo: «Come si chiamava

la prima balia di Giulio? Chi era il falegname che fece i lavori a casa?» E scritte a lato dei messaggi dei rapitori, con calligrafia malferma, arrivavano le risposte del rapito. Qualche volta, sugli stessi fogli, c'erano le minacce dei sequestratori e le parole affettuose del duca. «Ricordati la fine di 'Pallino' fatta a Pisa», scrivevano i sequestratori a Giulio, riferendosi a un cavallo ammazzato prima di una corsa. Poco più in basso una frase dell'ostaggio alla moglie Isabella: «Ho saputo che non

sei stata tanto bene. Ti invio infiniti auguri. Tuo Max». Una notte, dal cortile di palazzo Grazioli sparì la macchina della duchessa. Accadde in un periodo in cui i contatti coi sequestratori sembravano interrotti, e il furto fece pensare a un'ulteriore minaccia di chi aveva in mano il duca: se volevano erano davvero in grado di fare ciò che dicevano. Il 14 febbraio 1978 giunse il messaggio che stabilì il contatto decisivo per il pagamento del riscatto. Le richieste dei

sequestratori erano scese di molto. Perché tutto andasse bene Giulio doveva far mettere un annuncio su un quotidiano, «Il Tempo»: «Gambero rosso tutte le specialità marinare, pranzo a prezzo fisso, Lit. 1500». Quel 1500 stava a significare un miliardo e mezzo, l'ultima cifra fissata per la vita del duca Grazioli. E lui, l'ostaggio, scrisse alla moglie una raccomandazione: «Collabora con questi signori nella fase del mio rilascio, perché è gente d'onore». Ma incassare il riscatto non

era facile. I carabinieri, oltre a intercettare tutte le telefonate, seguivano ogni passo di Giulio Grazioli, e c'era il rischio per i rapitori di essere catturati mentre ritiravano i soldi. Ad avvisarli era quell'Enrico, amico di Giuseppucci e di Giulio contemporaneamente, sul quale solo più tardi si addensò qualche sospetto, quando lui era già sparito dalla circolazione. Il gestore della sala corse avvisò Giuseppucci che «le guardie» stavano sempre dietro al figlio del duca, e che addirittura il tettuccio

della sua macchina era stato dipinto con una vernice speciale che lo rendeva visibile anche di notte. La consegna del denaro saltò in diverse occasioni, ogni volta si scopriva una macchina che non doveva esserci, probabilmente un'autocivetta dei carabinieri. Fu così che si decise di organizzare, nella sera stabilita, una specie di caccia al tesoro. E per l'occasione i rapitori rubarono un'auto, una Volkswagen Golf, con la quale Giulio si sarebbe dovuto muovere.

L'ultima telefonata a palazzo Grazioli arrivò la sera del 4 marzo 1978. Rispose Giulio, dall'altra parte una voce con accento romano: «Stai tranquillo, avrai la prova di tuo padre. Prendi la metropolitana fino alla stazione Magliana partendo da via Aventina». Clic. Giulio prese il miliardo e mezzo in banconote già pronte, e accompagnato da un amico uscì di casa per andare alla metropolitana. Arrivato alla stazione indicata, in un cestino della spazzatura trovò il primo

messaggio firmato dal nome in codice scelto dai rapitori: «Sali le scale di fronte a te, troverai una macchina tipo Golf Volkswagen di colore bianco, targata Roma R29185, e troverai altre istruzioni sopra il parasole. Leone Rosso». L'auto era quella rubata dai sequestratori, dentro c'erano le chiavi e il biglietto con le nuove indicazioni: «Dirigiti sulla via Cristoforo Colombo fino allo stabilimento Kursaal di Ostia, di fronte allo stesso stabilimento troverai una tabella dell'autobus con cestino

attaccato. Dentro troverai una busta di plastica con altre istruzioni. Leone Rosso». Alla terza tappa, «Leone Rosso» fece trovare una piantina disegnata a penna e nuove indicazioni: «Rimonta in macchina e avviati verso Ostia per prendere la via Ostiense in direzione Roma seguendo bene le frecce che indicano l'aeroporto. Dopo fatto un tratto dell'Ostiense che è a senso unico troverai l'indicazione Fiumicino aeroporto, gira e vai verso Roma e verso autostrada

Civitavecchia. Giunto al grande cartello che indica diritto per Roma, a seicento metri per Civitavecchia fermati che troverai altre indicazioni». Giulio e il suo amico fecero come gli era stato ordinato, e arrivarono al quarto messaggio: «Rimonta in macchina e prendi l'autostrada per Civitavecchia, oltrepassando il casello preparati, che al prossimo appuntamento troverai la foto di tuo padre. Una volta passato il casello assumerai una velocità di cinquanta chilometri

all'ora per arrivare al cartello numero 17 indicante CerveteriLadispoli chilometri 11, fermati posteggiando sulla tua destra, traversa e dietro troverai altre indicazioni. I messaggi li troverai attaccati in basso sul palo di sostegno». Stavolta la firma era diversa, «Giglio Rosso». Arrivati sull'autostrada, la caccia al tesoro non era ancora finita. Un altro messaggio di «Leone Rosso»: «Giulio, rimonta in macchina e avviati sempre alla stessa velocità verso il cartello numero 20

indicante allacciamento Aurelia, riposteggiati, ritraversa e prendi sempre nello stesso posto dove "ai" trovato il precedente, troverai altre informazioni». Il figlio del duca Grazioli fece ciò che era scritto su quel foglietto, risalì in macchina e proseguì fino al segnale stradale scelto dai rapitori. Lì c'era, insieme a una fotografia di suo padre, l'ultimo messaggio: «Giulio, sei arrivato alla fine della corsa. Proprio di fronte al cartello, e cioè dove "ai" posteggiato, c'è il parapetto di un ponte, affiancati e getta

di sotto la borsa con i soldi, rimonta in macchina e vai fino a Civitavecchia, esci dall'autostrada e prendi l'Aurelia, e torna a casa. Stai tranquillo intanto, perché hai in mano la foto recentissima. Se tutto andrà come noi vogliamo a distanza massima di ventiquattr'ore riceverai la telefonata di papà. Leone Rosso». Alla luce dei fari della macchina Giulio scrutò la foto di suo padre, il duca Grazioli, ritratto in piedi davanti alla porta di una stanza, la barba

lunga, in mano una copia de «Il Tempo» di quel giorno. Prese dall'auto la borsa coi soldi, si avvicinò al ponte indicato nell'ultimo messaggio e da sotto sentì delle voci che gridavano le parole d'ordine concordate nelle telefonate: «Forza, butta i soldi e vattene», aggiunsero. Giulio ebbe un attimo di esitazione, ma poi si convinse che lì sotto c'erano i rapitori di suo padre. Non si vedeva niente, il buio non lasciava nemmeno intuire la presenza di persone o automobili. Giulio gettò la

borsa dal ponte, risalì in macchina col suo amico e prese la strada per tornare a casa. Arrivato a palazzo Grazioli, cominciò l'attesa della telefonata di papà. Il duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere morì senza la sepoltura che si addice a un nobile romano, in un giorno non precisato del marzo 1978. La telefonata a palazzo Grazioli annunciata da «Leone Rosso» nel suo ultimo messaggio, non arrivò mai. Per un lungo periodo di tempo giunsero

chiamate di sciacalli che chiedevano altri soldi per la sua liberazione, ma né la famiglia né la polizia credettero mai a quelle voci così diverse dalle altre che avevano chiamato un tempo. La signora Isabella non smise mai di sperare che il suo «Max» un giorno sarebbe tornato a casa, si rivolse perfino a maghi e veggenti; morì, undici anni più tardi, senza averlo rivisto e senza aver avuto altre sue notizie. Durante il sequestro i rapitori avevano inviato alla

famiglia anche un'altra foto, nella quale l'ostaggio teneva in mano il quotidiano fiorentino «La Nazione», acquistato appositamente in Toscana per depistare le indagini e far credere che il duca fosse prigioniero da quelle parti. «Scegliemmo la Toscana perché in quel momento in quella regione operavano nel settore dei sequestri delle bande di sardi», ha spiegato Maurizio Abbatino. Invece Grazioli dopo un periodo trascorso in due diversi nascondigli a Roma, uno a Primavalle e l'altro

sull'Aurelia, nella casa in costruzione del cognato di uno dei rapitori - era stato portato in Campania. Per scattare quella foto Abbatino andò personalmente nel napoletano, e nello stesso giorno rientrò nella capitale per recapitare il messaggio. «La morte del duca», racconterà il bandito al magistrato, «avvenne successivamente al pagamento del riscatto. Il gruppo di Montespaccato ci informò del fatto che l'ostaggio aveva visto in faccia uno dei carcerieri, e

quindi ci fu detto che non si poteva fare a meno di ucciderlo. A questa decisione, che non fu nostra, non ci opponemmo in quanto l'individuazione dei complici poteva significare anche la nostra individuazione. Pertanto il Montegrande e i suoi complici diedero luogo all'esecuzione alla quale noi non partecipammo. Nulla sono in grado di riferire di preciso circa le modalità esecutive dell'omicidio. So soltanto che il fatto è avvenuto nel napoletano, dove l'ostaggio era

stato trasferito in una casa di campagna appartenente a familiari di persone del gruppo di Montespaccato, in quanto anche la seconda 'prigione' di Roma era diventata insicura per il protrarsi della durata del sequestro. So altresì che il cadavere venne sepolto, ma non sono in grado di dire dove.» (3) I soldi del riscatto furono equamente divisi tra i due gruppi che realizzarono e gestirono il sequestro. «Il denaro», dirà ancora Maurizio Abbatino, «era costituito da

banconote di grosso taglio, sicuramente da centomila lire e, ma di questo non conservo preciso ricordo, anche da cinquantamila. La somma venne ripartita in ragione del cinquanta per cento a quelli di Montespaccato, che avevano in custodia l'ostaggio, e del cinquanta per cento a noi: ognuno dei due gruppi doveva detrarre dalla propria parte la 'stecca', rispettivamente per il basista Enrico e per il telefonista. Le quote spettanti a ciascun gruppo si ridussero del dodici per cento, costo del

cambio delle banconote in franchi svizzeri effettuato da Salvatore Mirabella, milanese, amico di Montegrande. Il Mirabella, facendo parte della banda di Francis Turatello (4), inserito nel gruppo delle bische clandestine, aveva per tale ragione frequenti contatti con esponenti del mondo imprenditoriale milanese, e dunque notevole disponibilità di denaro, sicché era la persona più indicata per l'operazione di pulitura dei soldi provento del sequestro. Si trattava, peraltro, di un personaggio alquanto

pericoloso: girava sempre con una bomba a mano e la pistola in tasca. Debbo anche precisare che Enzo Mastropietro, il quale aveva partecipato alla preparazione del sequestro, non poté partecipare però all'esecuzione, in quanto poco prima era stato arrestato. Ciò nonostante venne a lui riservata una quota di lire venti milioni, e una quota di lire quindici milioni venne riservata a Enrico De Pedis, il quale era anch'egli detenuto, in considerazione dei suoi stretti rapporti con Franco

Giuseppucci. Tali ultime due quote gravarono su noi che avevamo eseguito il sequestro, e non su quelli di Montespaccato.» (5) Giulio Grazioli ha finito di pagare i debiti con le banche che gli prestarono i soldi solo da poco tempo. Le indagini di Carabinieri e Polizia rimasero ferme per anni, oppure imboccarono piste diverse, dai calabresi al terrorismo; i percorsi contorti del riciclaggio, infatti, avevano fatto arrivare alcune banconote del riscatto in un covo di Prima Linea a

Torino. In un rapporto dell'Arma del 1986 sulla criminalità a Roma si legge: «Grazioli Massimiliano, possidente, sequestrato in Roma il 7-11-1977 e non ancora liberato. Si presume che sia stato ucciso dai suoi sequestratori. Pagato il riscatto di oltre un miliardo di lire. Autori ignoti». Solo nell'ottobre del 1993, grazie alle rivelazioni di Maurizio Abbatino, sono stati emessi una decina di provvedimenti di cattura contro i presunti esecutori del sequestro. Qualcuno è stato

arrestato, altri erano già in carcere, uno è riuscito a fuggire. Quel miliardo e mezzo pagato dalla famiglia dei mugnai del papa, anche se diviso e sezionato in molte parti, fu davvero un salto di qualità per il gruppo di rapinatori che venivano dalla Magliana, dal Portuense e dal Trullo - periferie disastrate e abbandonate a se stesse -, e da quartieri popolari come Trastevere e Testaccio - che del romanticismo e della solidarietà

d'un tempo conservavano ben poco. Fino a quel momento erano andati avanti con le rapine e i furti, mai avevano guadagnato tanti soldi in una volta sola. Un paio di sequestri erano stati tentati in precedenza, ma s'erano risolti in altrettanti fallimenti. Adesso, quel colpo andato a segno aveva cementato i rapporti all'interno del nuovo gruppo che s'era formato, e apriva la strada ad altri «affari». Promotore delle iniziative e anima della banda che stava nascendo era Franco

Giuseppucci, «er negro» che da tempo si muoveva tra rapinatori e ricettatori della capitale, uno che intimidiva solo a guardarlo, occhi e sopracciglia spioventi, collo taurino. La prima denuncia a suo carico risaliva al 1974, per detenzione e porto illegale di pistola. Nel 1976 i carabinieri della compagnia Trastevere scoprirono una roulotte, appartenente a Giuseppucci e parcheggiata al Gianicolo, piena di armi. «Er negro» fu arrestato, ma dopo qualche

settimana uscì di galera: la roulotte aveva un vetro rotto e Giuseppucci sostenne che delle armi che c'erano dentro lui non sapeva niente, evidentemente ce le aveva messe qualcun altro, forse la persona che aveva rotto il vetro. Fu creduto e scarcerato. Un'altra storia di armi, poco tempo dopo, mise in contatto «er negro» con Abbatino e gli altri della Magliana che più tardi avrebbero sequestrato il duca Grazioli. Giuseppucci «lavorava» con Enrico De Pedis, chiamato «Renatino»,

uno di Testaccio che era già stato in carcere diverse volte per rapina. Mentre De Pedis si trovava in galera «er negro» doveva custodirgli i «ferri del mestiere», e dopo la scoperta della roulotte al Gianicolo teneva un borsone con pistole, fucili e munizioni nel suo «Maggiolone» Volkswagen. Un giorno si fermò al bar davanti al cinema Vittoria, a Testaccio, per bere qualcosa, e lasciò l'auto con le chiavi inserite. «Er negro» non era certo l'unico malvivente in giro per il quartiere, e un

malavitoso della zona, «Paperino», non si fece sfuggire l'occasione: adocchiata la Volkswagen con le chiavi nel quadro, salì a bordo e si dileguò. Appena si accorse del bottino che c'era su quella macchina «Paperino» provò a combinare quello che certamente sarebbe stato un affare, arrivò al Trullo e vendette le armi a un rapinatore che conosceva, al prezzo di due milioni. Giuseppucci non ci mise molto a sapere che fine aveva fatto la sua macchina, e il

giorno stesso si presentò dal rapinatore che aveva comprato pistole e fucili per riaverli indietro. Il nome di Enrico De Pedis, conosciuto anche al Trullo, fece sì che tutto si risolvesse senza incidenti, e che il «negro» si unisse al gruppo del rapinatore. Le deposizioni di Maurizio Abbatino, a quel tempo frequentatore dei rapinatori della Magliana, del Trullo e del Portuense, raccontano come nacque il nuovo sodalizio criminale: «Nel corso del tempo si erano cementati i rapporti

tra me, Giovanni Piconi, Renzo Danesi, Enzo Mastropietro ed Emilio Castelletti, ma non costituivamo quella in gergo viene chiamata 'batteria', cioè un nucleo legato da vincoli di esclusività e solidarietà. In altre parole non ci eravamo ancora imposti l'obbligo di operare esclusivamente tra noi, e di ripartire i proventi delle operazioni con chi non vi avesse partecipato. La 'batteria' si costituì tra noi quando ci unimmo a Franco Giuseppucci. Di qui ci imponemmo gli obblighi di esclusività e

solidarietà... L'aver costituito una 'batteria' (in un primo momento ci dedicavamo quasi esclusivamente alle rapine) comportò che ognuno di noi apportasse le armi di cui disponeva, che venivano custodite inizialmente da incensurati ai quali ci rivolgevamo per questioni di sicurezza e di fiducia, da familiari, o in appartamenti disabitati di cui alcuni di noi avevano la disponibilità. Nel frattempo la 'batteria' si trasformò in 'banda' e si allargò integrando altri partecipi, come

ad esempio Marcello Colafigli, Giorgio Paradisi, Claudio Sicilia, e altri gruppi, come quello di Acilia e dei 'testaccini', al punto che si rese necessario provvedere altrimenti alla custodia delle armi. «La differenza tra 'batteria' e 'banda', oltre che nel diverso numero dei partecipi, minore nella prima rispetto alla seconda, sta anche nel ventaglio più ampio di interessi criminosi della 'banda' rispetto alla 'batteria', la quale si dedica alla commissione di un unico tipo di reati, per esempio le

rapine. La 'banda', peraltro, comporta l'esistenza di vincoli più stretti tra i partecipi, vincoli che si traducono in obblighi maggiori di solidarietà tra gli associati, i quali sono pertanto maggiormente impegnati e tenuti a prendere in comune ogni decisione, senza possibilità di sottrarsi dal dare esecuzione alle stesse...» La «banda» determina dunque una sorta di responsabilità collettiva, ma anche un'attività di mutuo soccorso. «Le vendette e in generale tutti gli omicidi

riconducibili alla banda», continua Abbatino, «in quanto funzionali ad assicurarsi il rispetto da parte delle altre organizzazioni operanti su Roma e a imporre il predominio il più possibile incontrastato sul territorio, vennero di volta in volta decisi da tutti coloro che facevano parte della banda nel momento dell'esecuzione, affidata di volta in volta a chi aveva la maggiore capacità per assicurarne il successo con il minor rischio sia personale che collettivo. Questo comportava che tutti si era parimenti

compromessi, quindi tutti parimenti motivati ad aiutare chi fosse stato colto in flagranza o comunque arrestato o incriminato, a limitare i danni processuali, ad avere la tranquillità di assistenza per sé e per i propri familiari.» Il primo nucleo di quella che diventerà la famigerata banda della Magliana - dal nome della borgata-simbolo del disagio urbano prima e della criminalità metropolitana poi, dove abitavano gran parte dei malavitosi cresciuti lì o trasmigrati da Trastevere e da

Testaccio - nacque così. Ecco come viene descritta, questa zona a sud di Roma, in uno stradario del 1922: «Magliana (v. della) - Così viene chiamata la borgata a 8 chilometri da Porta Portese, nella quale sorge il casale omonimo, oggi chiamata a nuova vita dalla bonifica PinoLecce. Il più insigne dei casalicastelli della Campagna Romana è certamente quello della Magliana. Nel secolo quarto la località, dove ora sorge il casale, era detta "super

Philippi" ovvero "ad sextum Philippi" (Tommasetti). I fondi nel medioevo conservarono molti nomi degli antichi romani, come "Manlianus". Quando vi era memoria di un "praedium", si mantenne il nome in genere neutro (manlianum, della gens Manlia). Il neutro latino fu, dai possidenti e notai, spesso tradotto al femminile, supponendosi sottintesa la voce possessione, onde la denominazione Magliana. «In questa località, nel 1868, De Rossi scoprì, nel cimitero di Generosa, l'insigne

piccola basilica, che San Damaso edificò sul sepolcro dei martiri S.S. Simplicio e Faustino. Questi, durante la persecuzione di Diocleziano, furono affogati nel Tevere, che ivi formando un'ampia insenatura scorre vicinissimo a questo luogo, e donde i loro corpi furono ripescati dalla sorella Beatrice o Viatrise e da due preti, Crispo e Giovanni... «Sotto l'aspetto di paesaggio, questa contrada, fin d'allora soggetta alla malaria, presenta poche attrattive; solo la passione per la caccia può

spiegarci perché Girolamo Riaro, nipote di Sisto Quarto (1471-1483), vi facesse erigere un sontuoso castello, ampliato e abbellito poi da Innocenzo Ottavo (1484-1492), del quale ancora si legge il nome sulle finestre. Il castello venne circondato da splendida villa dal cardinal Alidosi, favorito di Giulio Secondo (1504-1512), il qual papa qui veniva a godersi i suoi faziosi ozi. L'epoca di maggior splendore per la Magliana fu sotto Leone Decimo, che, oltre a provvederla di acquedotto, fece

affrescare la cappella con disegni di Raffaello. Volle anche piantarvi una vigna, che rese un prodotto così buono da indurre il suo successore Paolo Terzo (1535-1549) di far servire alla mensa solo vino della Magliana. Leone Decimo vi si recava spesso, perché nella solitudine della silenziosa campagna egli viveva in piena libertà, circondato da una turba di cortigiani. Nel 1517 il papa, allontanandosi di poco dalla Magliana, cacciando, corse pericolo di essere fatto prigioniero dai corsari di Tunisi.

«Pio Quarto (1559-1565) animò la villa di splendide fontane. Nel 1576 fu visitata da Gregorio Tredicesimo e finalmente Sisto Quinto fu l'ultimo papa che l'abitò. D'allora cominciò la decadenza di questa splendida residenza, finché si ridusse al miserando stato attuale di masseria, le cui sale servono da magazzini pel grano (Pastor)». (8) Ed ecco la Magliana nel 1977, divenuta preda del degrado e della speculazione edilizia, raccontata con statistiche e cifre in uno studio

del comitato di quartiere: «Passata la crisi edilizia degli anni 1964 e 1965 e confermata dal Nuovo Piano Regolatore la destinazione residenziale intensiva prevista dal preesistente piano particolareggiato, saranno banche e imprese industriali a promuovere la realizzazione del quartiere della Magliana. Protagonista indiscusso dell'edificazione è, infatti, un gruppo di società immobiliari che fanno capo al gruppo Condotte. Nel giro di quattro anni (1965-1969), contando su

ingenti finanziamenti della Banca Nazionale del Lavoro, vengono ottenute licenze e realizzate costruzioni per circa due milioni e mezzo di metri cubi. «Innescata la speculazione con il sistema tradizionale, la costruzione di edilizia intensiva e popolare, tutti i 'palazzinari' operanti a Roma vengono attratti dall'operazione. Le colline che sovrastano il quartiere vengono ricoperte di palazzine. Nel 1975 il comprensorio è completamente edificato. In dieci anni sono

stati realizzati in 42 ettari oltre tre milioni di metri cubi, 7800 alloggi per oltre 30000 abitanti... «Al censimento del 20 ottobre 1971, la popolazione della Magliana era di 19068 abitanti, le stanze di abitazione occupate 16677, con un rapporto di 1,1 abitante per stanza. Alla fine del 1975, con tutte le abitazioni realizzabili ultimate e occupate, la popolazione è salita a 31671 abitanti, in parte per l'effetto dell'incremento del numero delle famiglie residenti

(+2307), in parte per l'incremento demografico... Il rapporto abitanti/stanze è salito a 1,3 contro una media per il resto della circoscrizione e per Roma rispettivamente di 1,06 e di 0,96. «A causa dell'alta densità, del tipo edilizio intensivo, con cortili interni, e delle maggiori altezze abusivamente realizzate, gran parte degli alloggi è totalmente priva di insolazione e di aerazione, costretta dall'unica vista dell'edificio prospiciente; circa il 58% degli alloggi non ha altro

sbocco che un cortile, largo in media quindici metri. Il 25% delle stanze di abitazione si affacciano sulle chiostrine interne. «Per dare un'idea dell'intensità di edificazione possiamo citare alcuni dati sull'utilizzazione delle aree del quartiere. Dei 42 ettari su cui si estende, il 63% (26 ettari) è destinato all'edificazione; il 32% (14 ettari) è occupato da strade e fasce di rispetto dei fabbricati; il 5% residuo (2 ettari) è occupato da un edificio scolastico e dalla chiesa. Sono

immaginabili le condizioni di vita in un quartiere con questa popolazione e con questi servizi pubblici. «Se si osserva la popolazione in età scolare (5800 secondo la media romana), le sessantacinque aule scolastiche esistenti, solo per la scuola dell'obbligo, soddisfanno meno di un 30% del fabbisogno. Si arriva così al triplo turno, nonostante l'utilizzazione di locali inadatti, di una palazzina di abitazione e di prefabbricati leggeri. La scuola materna, tre aule

funzionanti dall'inizio del 1976, dovrebbe bastare a 2800 bambini. L'asilo nido non esiste. Se è possibile, ancora più grave è la carenza di spazi pubblici attrezzati per il tempo libero; infatti mancano del tutto, come mancano del tutto il verde pubblico, i parcheggi, gli ambulatori, il mercato, eccetera. «Ma non sono solo le carenze dei servizi a rendere insopportabili le condizioni del quartiere. Sono gravissime, infatti, le condizioni igieniche, determinate dalla totale

assenza di fogne comunali. Gli scarichi degli edifici finiscono nelle fosse biologiche e in un fosso scoperto che scarica nel Tevere. La mancanza di reti di scarico provoca il ristagno permanente delle acque piovane e superficiali e l'umidità perenne del quartiere, già svantaggiato dalla posizione a ridosso dell'argine del Tevere. Che non si tratti di lievi disagi lo può suggerire il fatto che perfino nei mesi estivi si trova acqua stagnante nelle strade e umidità negli edifici, anche dopo quaranta giorni di

assoluta mancanza di piogge. Le conseguenze, poi, di questo particolare ordine di condizioni si sono rivelate pienamente nella salute di quasi tutti gli abitanti del quartiere...» (9) Mentre i «palazzinari» facevano scempio della borgata sorta sotto il livello del Tevere, dai litorali di Acilia e di Ostia più a sud della Magliana, una sorta di sbocco naturale verso il mare - era sbarcato a Roma un altro gruppo criminale. Le sue origini, e i nomi di maggiore spicco, si ritrovano nella

requisitoria di un pubblico ministero: «Nel 1975, giovane di circa ventun'anni, Lucidi Fulvio conosce Gianni Girlando, già all'epoca dotato di particolari doti delinquenziali e in contatto con Nicolino Selis, Urbani Gianfranco e altri elementi di rispetto della malavita. Preso dall'ammirazione per la personalità del Girlando, con il quale ha conservato un rapporto di amicizia anche dopo averlo accusato di gravi delitti, il Lucioli sale con lo stesso le scale del crimine fino ad

arrivare a posizioni di vertice». (10) Anche questi cominciarono coi furti e le rapine: alle tabaccherie, agli uffici postali, ai treni. «Si forma quasi immediatamente una organizzazione che si dedica per otto mesi, da gennaio all'agosto 76, al compimento di rapine a mano armata e reati connessi. Il Lucidi racconta che la stessa era composta da lui, Selis, Girlando, Urbani, Capogna Renato, Apolloni Franco, Simeoni Raffaele. Tale era l'associazione di base a cui

di volta in volta si sono aggiunti altri complici.» (11) Cominciarono con l'assalto al deposito della Superpila, nel gennaio di quell'anno. Racconterà Lucioli che un dipendente della fabbrica da «ripulire», cognato di Girlando detto «Gianni il roscio», fece da basista procurando le chiavi del deposito e avvertendo quando sarebbe stato pronto il camion con la refurtiva. Il giorno stabilito Lucioli, il «roscio» e un certo Mariolino entrarono nel deposito, trovarono il camion carico di calcolatrici e altra

merce di valore, provarono a metterlo in moto ma non riuscirono a farlo partire. Allora tolsero i sedili posteriori a un'Alfa 2000 trovata nel parcheggio e caricarono una parte della refurtiva. Poi tornarono col furgone di un loro amico fruttivendolo e portarono via il resto del carico. Quattro mesi più tardi, il 26 aprile, Fulvio Lucioli festeggiò il suo ventiduesimo compleanno a Fondi, in provincia di Latina, rapinando venti milioni insieme a Nicolino Selis nella filiale del Banco di Napoli. Selis entrò in

banca col camice nero da fruttivendolo, e puntando la pistola alla tempia di un cliente che stava depositando i suoi soldi prese il pacco con le banconote; Lucioli lo aspettava fuori a bordo di una Kawasaki 900, col casco in testa e la tuta blu da meccanico. Il 21 giugno il gruppo si spostò in Toscana, a Pontedera, per assaltare l'ufficio postale della stazione ferroviaria. Selis e Girlando entrarono armati, e con un calcio tra le gambe costrinsero l'impiegato di turno ad aprire l'armadio blindato

dov'erano custoditi venticinque milioni. Il 27 giugno, giorno di stipendi, toccò all'Esattoria consorziale di Palestrina. Quattro giovani armati di pistole e mitra, due a volto scoperto e due col passamontagna, rapinarono quasi cento milioni di lire, la paga mensile dei dipendenti dell'ospedale. L'azione fu guidata da Selis e Lucioli il quale aggiungerà che del gruppo di banditi faceva parte anche un certo Pasquale, camorrista napoletano.

Due settimane dopo, l'irruzione in un'altra stazione in Toscana, quella di Follonica: «Egidio Angiolini, dipendente della ditta appaltatrice dei trasporti postali, veniva affrontato da due individui a viso scoperto con spiccato accento romanesco, i quali gli puntavano una pistola alla nuca e si facevano consegnare due pacchi contenenti i valori e, dopo averlo legato con del filo di ferro, chiudevano la porta a chiave e si dileguavano». (12) I due individui erano Girlando e Selis, Lucioli aspettava

nell'appartamento che era servito da base. Bottino della rapina: ventitré milioni e 950 mila lire. Passarono otto giorni, e il 22 luglio venne presa di mira l'agenzia del Monte dei Paschi di Siena a Riva del Sole, frazione di Castiglion della Pescaia. Lucioli, Selis, Girlando e un altro bandito portarono via quattordici milioni e mezzo. Il 10 agosto di quell'estate vissuta all'insegna del «mordi e fuggi», il gruppo diede l'assalto al treno. Verso le diciotto, sul diretto che andava da Chiusi a

Siena, tre uomini armati e mascherati si presentarono nella vettura di coda, chiusero il controllore in uno scompartimento, tennero per qualche minuto i passeggeri sotto tiro, presero quattro sacchi postali pieni di raccomandate e assicurate e bloccarono il treno col freno d'emergenza all'altezza di un passaggio a livello. Scesi dal vagone, i rapinatori raggiunsero la Fiat 126 su cui li aspettava un complice e fuggirono verso l'Autostrada del Sole, dove entrarono tagliando

una delle reti di recinzione. Due ore più tardi, una pattuglia di polizia fermò una Porsche sulla via Prenestina: a bordo c'erano Giovanni Girlando, Fulvio Lucioli, una pistola calibro 38 con cinque pallottole nel tamburo, una Beretta calibro 19 completa di caricatore e cartucce, una Browning 7.65 col colpo in canna, due paia di guanti e due passamontagna. Addosso a Girlando un biglietto ferroviario valido per il treno Chiusi-Siena di quel giorno, timbrato dallo stesso controllore che era stato

rinchiuso nello scompartimento. I due furono arrestati, processati e condannati: cinque anni e dieci mesi di carcere a Girlando, due anni e otto mesi a Lucioli. Nella zona fra Acilia e Ostia, al seguito di Nicolino Selis - un «ragazzo del '52» arrestato la prima volta a vent'anni per «tentato omicidio plurimo, furto e altro», recitava il suo certificato penale - crescevano altri personaggi come Edoardo Toscano (evaso a ventidue anni dal carcere di Regina Coeli,

dove era finito per una rapina con tentato omicidio) e Libero Mancone, un ragazzone più grande degli altri per età e stazza, primo arresto nel 1970 per furto aggravato, uno talmente grosso che quando lo caricavano sulle macchine della polizia il secondo agente al suo fianco non riusciva a entrare. In carcere Selis parlava spesso di un certo Raffaele Cutolo e delle sue gesta criminali, e con Antonio Mancini, un giovane bandito arrestato da poco ma già ben inserito nel sottobosco della

malavita, faceva progetti per il futuro. «Intorno al 1975», ricorderà Mancini «mentre ero detenuto insieme a Nicolino Selis nel carcere di Regina Coeli, si parlava del fatto che a Napoli tal Raffaele Cutolo, che allora non era noto come lo sarebbe diventato in seguito, stava mettendo in piedi un'organizzazione criminale allo scopo di escludere dal territorio infiltrazioni di altre organizzazioni di diversa estrazione territoriale. Con Selis si decise di tentare su Roma la stessa operazione che

Cutolo stava tentando su Napoli.» Ciascuno fece i nomi degli amici che potevano tornare utili, e si parlò anche di Urbani, che nel frattempo aveva preso contatti con i calabresi. Con questo nuovo gruppo, nel 1978, Fulvio Lucioli avviò un commercio di droga, per passare dalle rapine a quello che si stava rivelando di gran lunga il settore più redditizio dell'economia criminale. «A Roma era già operante un gruppo comprendente tra gli altri Giuseppucci e Abbatino,

con i quali Toscano e Selis erano in rapporti di amicizia. Favorita da questi rapporti, vi fu una fusione tra il gruppo di Acilia e quello di Roma; Toscano, detenuto a Rebibbia, ne parlò con Lucioli, proponendogli di aderire alla nuova organizzazione che si occupava prevalentemente di rapine e traffico di stupefacenti, e riferendogli che, oltre a lui stesso, ne facevano già parte Giuseppucci e Selis come capi, e poi Abbatino, Colafigli, Mancone, Piconi, Danesi, Castelletti, Paradisi e

Mastropietro. Lucioli accettò la proposta di Toscano, e sino alla scarcerazione ricevette tra le duecento e le trecentomila lire alla settimana, che venivano consegnate a sua madre da Abbatino, Piconi e altri.» (14) La banda ormai s'era allargata, e aveva deciso di avere campo libero su Roma. In pochi anni nuovi criminali, tutti ragazzi tra i venti e i trent'anni, entravano in scena. Erano «i romani», pronti a soppiantare le organizzazioni venute da fuori, come per esempio quella dei Marsigliesi,

e a scendere in guerra contro chiunque si mettesse tra loro e il guadagno, il controllo del territorio e degli «affari», dalla droga alla gestione delle bische e delle scommesse clandestine. Uno dei soppiantati, Albert Bergamelli, gangster della generazione precedente ucciso nel carcere di Ascoli Piceno nell'agosto dell'83, membro del leggendario «clan delle 3 B» insieme a Jacques Berenguer e Maffeo Bellicini, li aveva bollati fin dalla loro apparizione con un certo disprezzo: «Sono solo dei borgatari, gente che agisce

senza alcuna razionalità, senza una mente direttiva». ***

2. NAPOLETANI A ROMA.

A Tor di Valle, alle Capannelle, ma anche ad Agnano e in altri ippodromi della Campania, lo conoscevano quasi tutti. Piccolo, tanto che da Franco era stato soprannominato Franchino, e con la fama da duro, guadagnata fuori e dentro la galera. «Franchino er

criminale», gli dicevano, mentre per l'anagrafe era Nicolini Franco di Ornello, nato a Roma il 26 gennaio 1935, ivi residente in piazza San Giovanni di Dio n. 23, quartiere Monteverde. Era qualche anno che Franchino batteva gli ippodromi, spendendo e guadagnando soldi nel mondo delle corse dopo essere diventato famoso nelle case e nelle bische dove si giocava a poker. I cavalli erano diventati la sua passione, oltre che il suo lavoro. Un lavoro poco pulito, si

intende, nel senso che era fatto di scommesse clandestine e gare truccate, ma pur sempre lavoro. Del resto, dopo essere diventato romano a tutti gli effetti salendo i gradini di Regina Coeli, come voleva il poeta, era difficile per chiunque tornare fuori e guadagnarsi da vivere legalmente. Figuriamoci per uno soprannominato «Franchino er criminale», già invischiato negli affari del «clan dei marsigliesi» e segnalato negli archivi di Polizia e Carabinieri con «pregiudizi a carico per rapina, svariati furti

aggravati, favoreggiamento reale, associazione per delinquere e altro». Al mondo dei cavalli Nicolini aveva iniziato anche la sua famiglia: un fratello, Salvatore, era allievo fantino alle Capannelle; un altro, Giovanni chiamato «er bebby» (proprio così, «baby» detto e scritto alla romana), lo seguiva quasi ogni giorno negli ippodromi, controllava i giochi e gli faceva da autista; alla figlia Stefania Franchino aveva intestato i cinque cavalli acquistati negli ultimi mesi. Quegli animali

erano il vero capitale di un uomo che a quarantatré anni non aveva altra occupazione che il gioco. Li teneva alle Capannelle ma all'improvviso, in quello scorcio di 1978, se ne era disfatto: Pierre Curie lo vendette a un fantino, Pacifica e Piavolo li regalò al fratello Salvatore, Oliviera fu ceduta a un ex fantino divenuto allenatore, un certo Brunone, mentre Filigudes morì. La moglie di Nicolini, Iolanda, infermiera al Policlinico Umberto Primo, accompagnava quasi sempre

Franchino alle corse. Ma di gare e di scommesse lei non si interessava: se ne andava nei bar e nei ristoranti, dove incontrava qualche amica e aspettava che il marito l'andasse a prendere, al termine delle gare e fatta l'ultima scommessa. Tutti quelli che conoscevano «Franchino er criminale» sapevano anche, e non solo per il soprannome che portava, che era un tipo focoso, suscettibile e pronto al litigio. Uno che si faceva rispettare, e che non esitava a menar le mani per far

valere le sue ragioni se c'erano di mezzo i soldi. Succedeva quando andava a giocare a poker, e succedeva negli ippodromi, quando c'era qualcosa che a suo giudizio non andava nella gestione delle scommesse clandestine. D'altra parte, nelle corse Franchino metteva molti soldi, quasi dieci milioni a sera: puntava all'incirca due milioni a corsa, e a ogni riunione scommetteva su quattro o cinque corse. Per lui avevano cominciato a lavorare diverse persone. «Dracula» e «Righetto», per

esempio, due che andavano ai picchetti, prendevano le quote e poi puntavano sui cavalli a nome di Nicolini. Tutto nel settore clandestino. Alla fine di ogni serata, se aveva vinto, Franchino dava qualche biglietto da centomila lire a «Dracula», il quale doveva dividerseli con «Righetto». Che truccasse le corse corrompendo i fantini lo sussurravano tutti, e la voce era arrivata fino alla polizia che lo sospettava anche per un incendio scoppiato qualche tempo prima a Tor di Valle. (1)

Chi si intrometteva od ostacolava l'attività del «criminale» rischiava grosso. Ne seppe qualcosa, una sera di luglio, un tale chiamato Albertone, venuto dal Tiburtino, conosciuto all'ippodromo perché si vedeva spesso e sempre vestito in modo elegante. Quella sera arrivò un po' tardi, ma in tempo per giocare sull'ultima corsa. Orecchiando tra allibratori e scommettitori venne a sapere che un cavallo di nome Herbert aveva buone possibilità di vincere.

Albertone, come tanti altri, puntò su Herbert, e le quote del cavallo scesero di molto, arrivando alla metà di quelle iniziali. Mentre discuteva di questo fatto con alcuni amici, l'uomo fu avvicinato da un paio di individui che senza dire una parola cominciarono a riempirlo di calci e pugni, nonostante Albertone avesse un braccio ingessato e non potesse difendersi. Lo lasciarono a terra, e a chi lo soccorse Albertone chiese subito chi fossero gli aggressori. «Due amici del 'criminale'», gli

risposero. Anche Franchino, infatti, aveva puntato su Herbert, e che altri avessero fatto lo stesso facendo abbassare le quote lo aveva disturbato. (2) Un'altra sera di quell'estate del 78 - sempre a Tor di Valle, davanti a decine di persone, ma tanto nessuno aveva il coraggio di intromettersi - Nicolini picchiò personalmente uno scommettitore, Salvatore Caruso, che veniva da Caserta e frequentava il giro dei napoletani, amico e collaboratore di «don Mimì»

Iodice, proprietario di una fabbrica di acqua minerale e notabile democristiano di Casoria, frequentatore di ippodromi e titolare di una scuderia. Alla stazione dei Carabinieri del suo paese «Iodice Domenico, in oggetto generalizzato», era conosciuto come persona «di cattiva condotta morale e civile, notoriamente legata alla malavita locale e dei paesi limitrofi», già denunciata per porto d'armi, lesioni, usura, minacce e tentato omicidio (3); ma questo non gli aveva

impedito di essere eletto, in rappresentanza della D.C., vicesindaco di Casoria. Nicolini era considerato un amico di «don Mimì», ma negli ultimi tempi i rapporti tra i due s'erano raffreddati. Un po' perché Nicolini s'era messo in testa di allontanare tutti i napoletani dagli ippodromi romani, in modo da restarne l'unico «padrone», e un po' perché Iodice, secondo Franchino, faceva il gioco sporco: tirava ad abbassare le quote dei cavalli su cui giocava lui, e quando doveva puntare

anche per conto suo non lo faceva, accampando stupide scuse. (4) Quella sera se la prese con un dipendente di «don Mimì», Caruso, che all'improvviso si trovò addosso il «criminale»: Nicolini lo aggredì con una testata, poi gli afferrò un orecchio e cominciò a strizzarglielo con forza, riempiendo di insulti «il napoletano»; un altro sferrò qualche pugno e quando Caruso cadde a terra gli arrivarono un bel po' di calci. Lo portarono al pronto soccorso

dell'ippodromo, poi all'ospedale. Franchino quella sera faceva il gradasso, e dopo aver pestato il suo rivale riprese e giocare. Rientrato a casa raccontò tutto alla moglie: «Ho dato due schiaffi a quello zozzo di Caruso, lui e Mimì Iodice fanno abbassare le quote dei cavalli che gioco io. Non mi piace». Aveva con sé anche un paio di occhiali da sole. «Sono di quel miserabile», disse a Iolanda, «non li buttare che glieli voglio ridare.» Franchino ne parlava con sufficienza, diceva che la sua

vittima era un infame, ma quell'aggressione fece scalpore a Tor di Valle. «Il criminale» si faceva rispettare, d'accordo, ma Caruso non era uno qualunque. «Sta nel giro della 'mala pesante'», commentavano allibratori e scommettitori, «questa storia non finisce così.» Se non fossero stati tutti troppo impegnati a puntare su cavalli e fantini, si sarebbero potute accettare scommesse su come e quando sarebbe arrivata la vendetta. Lasciato il carcere dopo aver

scontato quasi due anni per la rapina al treno, Fulvio Lucioli si era legato sempre più a un terzetto composto da Gianni «il roscio», Edoardo Toscano detto «operaietto» e Nicolino Selis, anche lui uscito di galera da poco tempo, il quale aveva reso più stabili i suoi contatti con i napoletani trapiantati a Roma. Sia Selis che Franco Giuseppucci, «er negro», frequentavano gli ippodromi. E a Tor di Valle avevano conosciuto Enzo Casillo, uno dei luogotenenti di «don» Raffaele Cutolo e della Nuova

Camorra Organizzata. Tutti insieme si erano resi conto che nel mondo dei cavalli si poteva guadagnare molto. Fu «er negro» a presentare Selis e i napoletani a quelli della Magliana. «La conoscenza di Nicolino Selis», ha raccontato ai giudici Maurizio Abbatino, «avvenne attraverso Franco Giuseppucci, il quale ce lo presentò. Contemporaneamente conoscemmo anche Raffaele Cutolo, il quale in quel periodo, secondo quanto ci disse Selis, era latitante a seguito di

un'evasione dall'ospedale psichiatrico giudiziario e avrebbe dovuto regolare dei conti. L'incontro con il Cutolo avvenne in un albergo all'ingresso di Fiuggi, dove questi disponeva di un intero piano, per sé e per i suoi guardaspalle.» Selis aveva conosciuto «don» Raffaele nel centro clinico del carcere napoletano di Poggioreale, poi s'erano rivisti al manicomio giudiziario di Aversa. Il boss di Ottaviano l'aveva preso a ben volere, tanto da arruolarlo nella

camorra. «Nicolino divenne subito mio amico», ha detto Cutolo al giudice. «Rispetto ai miei tanti amici, di lui mi fidavo ciecamente, allo stesso modo in cui mi fidavo di Enzo Casillo. Dopo il mio rumoroso allontanamento dall'ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa, avvenuto il 5 febbraio 1978, Nicolino Selis venne da me fatto contattare e invitato a raggiungermi ad Albanella, dove mi ero rifugiato in una masseria. Da quel momento Selis divenne il mio capozona su Roma.» (6)

Un giorno di luglio del '78 Marcello Colafigli, un venticinquenne coi suoi bravi precedenti penali conosciuto attraverso Selis e Toscano, chiese a Lucioli di rimediargli una macchina. Rimediare voleva dire rubare, e Lucioli non se lo fece dire due volte. Al quartiere dell'Alberone, davanti a una macelleria, vide una 132 rossa che faceva al caso suo, abbandonata in doppia fila dal proprietario con le chiavi attaccate al cruscotto. Impossessarsi di quell'auto fu uno scherzo. «Rubata la

macchina», confesserà Fulvio Lucioli nel 1983, cinque anni più tardi, «la consegnai al Colafigli. Intendo precisare che ignoravo del tutto che utilizzo dovesse essere fatto dell'auto...» (7) Lo capì qualche giorno dopo, leggendo i giornali. Il signor Bruno veniva da Capistrello, in provincia dell'Aquila, e faceva il ferroviere. Al mattino lavorava al deposito di San Lorenzo, la sera, per arrotondare lo stipendio, faceva il

posteggiatore a Tor di Valle. Sul piazzale davanti all'ippodromo c'era un grande parcheggio, il numero di posteggiatori variava di volta in volta, a seconda delle esigenze. La sera del 25 luglio 1978 ce n'erano due o tre, ma quello che vide meglio ciò che accadde fu il signor Bruno. Mezzanotte era passata già da un po', la riunione era terminata e la gente aveva cominciato a sfollare. Erano in tanti, perché nelle sere d'estate a Tor di Valle va anche chi cerca semplicemente un po' di

fresco e con i cavalli non ha niente a che fare. Tra coloro che tornavano alle macchine, il signor Bruno notò Franco Nicolini, che aveva parcheggiato la sua Mercedes nel pomeriggio, e gli andò incontro per farsi pagare. Franchino era conosciuto, almeno di vista, da tutti i posteggiatori dell'ippodromo. Bruno si fece dare i soldi, tolse il tagliando dal tergicristallo della Mercedes, salutò e tornò verso gli altri clienti che volevano ritirare le proprie macchine.

All'improvviso sentì dei colpi secchi, degli spari. Si voltò di scatto e vide che provenivano dal punto in cui si trovava lui qualche secondo prima. Intorno alla Mercedes di Franchino c'era un fuggi fuggi generale, persone che gridavano e che scappavano verso l'entrata dell'ippodromo. Dentro, nessuno s'era accorto di nulla, il megafono dello speaker aveva appena gracchiato una strana frase: «Angelo ammazza la morte telefoni a casa». Anche il signor Bruno cominciò a correre verso l'ingresso, poi si

voltò ancora e notò un'auto scura che procedeva a zig zag tra le macchine parcheggiate, sentì altri spari. A quel punto Bruno si bloccò, la macchina ormai se n'era andata dopo aver fatto un'ultima curva sgommando, e pensò che doveva tornare da dove era venuto: forse poteva aiutare qualcuno. Ma arrivato lì si rese conto che non c'era proprio niente da fare: Franco Nicolini era a terra in un lago di sangue, già morto. Ai poliziotti che lo portarono in Questura il posteggiatore

raccontò tutto questo, ma quando si trattò di essere più preciso sulle facce e le macchine che aveva visto rispose: «Non sono in grado di fornire alcuna indicazione circa il numero di targa né la provincia di appartenenza dell'auto che si allontanava dal luogo della sparatoria. Non ho sentito alcuno che avesse appuntato il numero di targa della citata auto. Non sono in grado di fornire alcuna altra indicazione sulla dinamica dei fatti avvenuti. Non ho udito nessuna voce né grida al

momento dell'esplosione dei colpi, né ho visto alcuno con armi in mano. Non conosco nessuna delle persone che accompagnavano il Nicolini nelle serate all'ippodromo...» Era sempre la solita storia, mai nessuno che ricordasse una targa, un nome, o desse un'indicazione che andasse oltre gli spari e il fuggi fuggi. Quel martedì sera la signora Iolanda Nicolini non aveva accompagnato il marito alle corse dei cavalli. Per questo Franchino era solo, sul piazzale dell'ippodromo. All'interno di

Tor di Valle aveva appena salutato suo fratello Giovanni, «il bebby», e altri amici: «il zanzara» e «il marinaretto». La figlia Stefania se n'era andata da un paio di minuti, in macchina col marito. Quando uscì fuori e vide Franchino disteso a terra, Giovanni Nicolini scoppiò a piangere, e chiese all'amico Serafino di andare a casa di Iolanda. Serafino andò, disse alla signora che Franco aveva avuto un incidente, e insieme a lei tornò a Tor di Valle in tempo per farle guardare il corpo di

suo marito rimasto dove l'avevano lasciato i suoi assassini. «Immobile», tenne a precisare un poliziotto nel rapporto. Gli uomini della Scientifica che fecero la perquisizione del cadavere gli trovarono addosso più di undici milioni in banconote da cinquanta e centomila lire, un Rolex e un braccialetto d'oro, cambiali per sette milioni firmate da Franco Nicolini, un «pagherò» del poker da settemila lire, qualche biglietto da visita, fatture d'albergo e una copia del

giornale «L'eco della pista - Tor di Valle». Niente armi. «Mio marito», spiegò la moglie in Questura, «non ha mai portato armi. Quando ha litigato lo ha sempre fatto a parole o con le mani.» Quanto alle liti più recenti, Iolanda Nicolini ricordò quella con «don Mimì» Iodice, che però, a quanto ne sapeva lei, si era risolta: «Infatti giovedì 20 corrente, stando al campo di Tor di Valle, ho visto che mio marito attraversava dal bar verso il campo in compagnia di Serafino e del 'Mimì'. A fine

corse ho chiesto a Franco se aveva fatto la pace con 'Mimì' e lui mi ha risposto affermativamente, dicendomi però che ognuno di loro, da quel momento, doveva pensare per sé». Il fratello del morto, «il bebby», che conosceva quasi tutto dell'attività di Franchino, non solo non collaborò con gli investigatori, ma fu sospettato addirittura di voler intorbidire le acque: dopo l'omicidio spostò la Mercedes di Nicolini e fece sparire qualcosa dall'interno della macchina. Finì arrestato

per falsa testimonianza, un'accusa che non avrebbe portato da nessuna parte e che si sarebbe risolta in un nulla di fatto. Un commissario della Squadra Mobile, cinque anni più tardi, scriverà in un rapporto a proposito dell'omicidio Nicolini: «Fin dalle prime indagini apparve ovvio che il movente doveva ricercarsi nell'ambiente degli scommettitori clandestini, attività che la vittima gestiva da anni con modalità autoritarie e irruenti. Le

investigazioni però naufragavano di fronte al muro di omertà presentato dalle numerose persone che, nel tempo, avevano avuto dispute con l'ucciso». Ad ammazzare Franco Nicolini, sul piazzale di Tor di Valle, erano andati in sette. L'ottavo del gruppo, Franco Giuseppucci, aspettava all'interno dell'ippodromo. Avevano due macchine, la 132 rossa rubata da Lucioli qualche giorno prima e una 131 scura, rubata anche quella.

Aspettarono «il criminale» al parcheggio, e appena si accorse di loro Franchino tentò di scappare. Partirono i primi colpi, e la fuga di Nicolini fu bloccata dalla 132 che gli si mise davanti. A quel punto i due killer gli scaricarono addosso le loro pistole. Il medico legale disse che era stato colpito da nove proiettili: uno gli trapassò la guancia, un altro l'emitorace destro e un altro ancora il braccio destro, due lo colpirono al torace e quattro alla testa. «E' morto quasi istantaneamente»,

sentenziò il referto. Nessun testimone lo disse, ma in quella pioggia di fuoco rimase ferito anche uno degli assassini, Nicolino Selis, colpito al piede, di striscio, da un proiettile. I suoi complici lo portarono a medicarsi al Sant'Eugenio, da un infermiere amico loro che non fece figurare nulla sui registri dell'ospedale. Quattordici anni più tardi, nel 1992, Maurizio Abbatino, che faceva parte del «commando» di Tor di Valle, ha confessato al giudice istruttore:

«I componenti del gruppo che commise l'omicidio erano: Renzo Danesi alla guida della Fiat 132, io alla guida della Fiat 131, Enzo Mastropietro, Giovanni Piconi, Edoardo Toscano, Marcello Colafigli, Nicolino Selis. A sparare furono Toscano e Piconi, le armi usate erano a canna corta e tutti, comunque, eravamo armati. All'interno dell'ippodromo si trovava, invece, il solo Franco Giuseppucci. Successivamente all'esecuzione dell'omicidio abbandonammo le auto e ci portammo tutti a casa mia,

dove in un secondo tempo ci raggiunse anche Giuseppucci. La mia abitazione in quel periodo era libera, poiché la mia famiglia aveva affittato una casa sul litorale di Fondi insieme a Renzo Danesi. Per commettere l'omicidio ci eravamo spostati, sia io che il Danesi, da Fondi a Roma, il che doveva rappresentare una specie di alibi». (8) Il gruppo che stava nascendo dalla fusione tra quello di Giuseppucci e quello di Selis aveva più di un motivo per eliminare Franco Nicolini.

Nicolino Selis lo cercava da qualche anno, da quando aveva litigato con Franchino a Regina Coeli. Era il '74 o il' 75, e nel vecchio carcere romano si respirava aria di rivolta. I detenuti godevano di molta libertà, in pratica erano loro a dettare legge, e per questo ogni volta che arrivavano ordini di trasferimento si barricavano nelle celle e impedivano agli agenti di custodia di entrare. Ma in un'occasione, una mano alle guardie la diede proprio Nicolini, che insieme a un altro detenuto si mise a girare per i

corridoi e convinse gli altri ad aprire le porte delle celle, costringendoli a uscire e a fare quello che dicevano gli agenti. Selis vide tutto e affrontò Franchino, gli disse che era «una guardia infame», che gli mancava solo il berretto. Volò anche qualche schiaffo, un affronto che per uno come Selis, considerato un capo a Regina Coeli, non poteva restare impunito. Tornati tutti e due in libertà, Selis decise di punire «il criminale», e chiese l'appoggio a quelli della Magliana anche

per saggiarne l'affidabilità sul piano operativo, visto che da allora in avanti avrebbero dovuto «lavorare insieme». Abbatino, Giuseppucci e compagni non erano stati a fare tante domande: sapevano che tra quei due c'era della ruggine e tanto bastava. Del resto anche a loro, decisi a conquistare la supremazia su Roma, non andava giù che Nicolini continuasse a fare «il capo». «La decisione di fargliela pagare», ha raccontato Antonio Mancini, «era già stata presa prima della sua scarcerazione,

si attendeva solo l'occasione propizia per ammazzarlo». (9) Ma a parte la vendetta, c'era qualche altro motivo per togliere di mezzo Franchino. Il controllo delle gare a Tor di Valle, per esempio. «Giuseppucci», ha spiegato Abbatino, «riusciva quasi sempre a condizionare l'andamento di qualche corsa e Nicolini, essendo un allibratore di un certo calibro e avendo un sostanzioso controllo dell'ippodromo, spesso intralciava i programmi del primo, ma anche quelli di altri

allibratori i quali operavano a Tor di Valle ed erano, a loro volta, legati a organizzazioni malavitose come la camorra... «L'organizzazione di Raffaele Cutolo, nell'ambiente delle corse, aveva come referenti Vincenzo Casillo e Giuseppe Rizzo, proprietario di cavalli e fantino. Ricordo che proprio dopo l'omicidio Nicolini facemmo una cena presso il ristorante Bastianelli di Fiumicino, e avemmo un altro incontro nella villa di un fantino sulla via Cristoforo Colombo con il Casillo, il Rizzo

e un altro napoletano che ricordo chiamarsi 'Mimì 'o pruovolo', già visti, in precedenza, con Nicolino Selis. Questi due incontri ai quali partecipammo io, il Selis e il Giuseppucci, avevano lo scopo di convincere il fantino del quale non ricordo il nome ma che godeva di un certo prestigio e aveva molti 'movimenti', ad accordarsi con il Rizzo per condizionare l'andamento delle corse a Tor di Valle, facendogli capire che l'accordo era possibile in quanto, a seguito della morte di

Franco Nicolini con il quale egli 'lavorava' in precedenza, ormai l'ippodromo era in mano nostra e dei napoletani.» (10) C'è da credere che il fantino si lasciò convincere piuttosto in fretta. Nicolino Selis era uno che alle vendette non rinunciava. A «Franchino er criminale» aveva fatto pagare uno sgarro subito in carcere, e un altro della banda raccontò che dopo l'omicidio di Tor di Valle, nonostante la ferita al piede, Nicolino faceva salti di gioia gridando: «Ce l'ho fatta, ce l'ho fatta!» Sergio Carrozzi, invece,

morì perché in galera, Selis, ce l'aveva mandato. Successe in una strada di Ostia, la sera del 29 agosto del '78, un mese dopo l'esecuzione di Franchino. Sergio Carrozzi, trentotto anni, non era uno stinco di santo: aveva precedenti penali per rissa, furti aggravati, lesioni, ingiurie, truffa e guida senza patente. A Ostia Lido aveva aperto una boutique, col nome e l'insegna un po' pacchiani, Sergio's. I «bravi ragazzi» di Ostia, guidati da Nicolino Selis e Gianni Girlando, «il roscio»,

l'avevano presa di mira, e a Carrozzi cominciarono a chiedere soldi. Telefonava proprio Selis: «Ci devi dare dieci milioni, altrimenti ci vai di mezzo tu, il tuo negozio e la tua famiglia». Sergio non cedette, e per tutta risposta denunciò gli estorsori facendoli arrestare, Selis compreso. Da quel momento le telefonate a casa sua non chiedevano più soldi, ma annunciavano vendetta contro quel «Giuda» che li aveva spediti dietro le sbarre. Se rispondeva lui, dall'altra parte del filo

restavano in silenzio, ma se andavano la moglie o la cugina, che lavoravano come commesse nel negozio, venivano riempite d'insulti: «Tu sei una troia e tuo marito un infame»; «Zoccola, lo prendi nel sedere». Una volta rispose il cugino Valentino, il telefonista pensò che fosse Sergio e si decise a parlare: «E' arrivata la tua ora, devi morire, è arrivato il tuo momento», disse. E se quelli dicevano una cosa, poi la facevano. La sera del 29 agosto Carrozzi stava

giocando a carte in strada, ai tavolini di un bar accanto alla boutique. Era con tre amici, andavano avanti da più di un'ora, una partita di tressette e una di briscola. All'improvviso dietro le spalle di Sergio comparve una persona, occhiali da sole, pantaloni chiari e camicia a strisce. Sparò tre colpi alla schiena e alla nuca di Carrozzi, senza dire una parola. Il rumore degli spari fu coperto dal rombo della moto guidata da un complice dell'assassino, sulla quale il killer salì di corsa. Era

un'Honda 500, e fu ritrovata un'ora e mezzo più tardi sotto un cavalcavia. Fulvio Lucioli era andato a prenderla sull'autostrada Roma-Napoli, qualche giorno prima. La stessa storia dell'omicidio Nicolini, lui rubava macchine o moto e poi, leggendo i giornali, veniva a sapere che servivano per gli omicidi. Oltre alla Honda, il «gruppo di fuoco» di Ostia aveva usato un paio di macchine e un'altra moto, una Kawasaki. A sparare fu l'«operaietto», Edoardo Toscano; in una macchina c'era

Maurizio Abbatino, che rivelerà tutti questi particolari nel 1992; sulla Kawasaki sedeva Fabrizio Selis, fratello di Nicolino. Quelli della Magliana non lo volevano portare, dicevano che era un tipo inaffidabile, ma siccome si trattava di vendicare il fratello lo fecero partecipare all'esecuzione: un fatto simbolico. Le cene da Bastianelli a Fiumicino e al ristorante di Tor di Valle tra Giuseppucci, Abbatino e i loro amici coi

napoletani legati a Raffaele Cutolo, divennero un'abitudine. Una volta all'ippodromo, in compagnia del «negro» arrivò pure Claudio Sicilia, uno di circa trent'anni nato a Giugliano, in provincia di Napoli, trapiantato a Roma e imparentato con la famiglia Maisto, la faccia da studente universitario, ma già coinvolto in un omicidio di camorra, la morte di un contrabbandiere diventato troppo potente. Nella capitale abitava dalle parti della Magliana, e frequentando gli stessi bar aveva conosciuto i

«bravi ragazzi», che poco dopo affibbiarono un soprannome anche a lui e presero a chiamarlo «il vesuviano». Il primo che incontrò Sicilia fu Marcello Colafigli, il quale un giorno gli disse che una persona importante, che aveva parlato bene di lui, lo voleva rivedere. Per questo, quella sera, Giuseppucci lo accompagnò a Tor di Valle. Ma all'appuntamento la «persona importante» non poté presentarsi: si trattava di Raffaele Cutolo, rimasto bloccato a Napoli perché

avevano rapito il figlio di un commerciante suo amico; il boss di Ottaviano voleva occuparsi da vicino, e con tutta la sua autorità, di quel sequestro. In assenza di Cutolo, a Tor di Valle Claudio Sicilia trovò altri esponenti della Nuova Camorra Organizzata, i quali gli confermarono la stima di «don» Raffaele nei suoi confronti. Allora Sicilia ricordò che tra il '67 e il '68, quando aveva appena compiuto diciott'anni, nel padiglione Avellino del carcere di Poggioreale dov'era

stato rinchiuso per l'omicidio di quel contrabbandiere, aveva conosciuto Raffaele Cutolo, il quale l'aveva preso a ben volere e aveva conservato di lui un buon ricordo, tanto da parlarne bene ai suoi soci in affari. I «padrini» sono fatti così, se decidono che uno è un bravo ragazzo se lo ricordano anche dopo dieci anni. E Claudio s'era comportato bene con «don» Raffaele e con altri boss come Bardellino, sia in galera che fuori. Una volta uscito, infatti, si preoccupò di spedire a

Poggioreale i pacchi con le cose che gli avevano chiesto quelli rimasti dentro: cartoline e francobolli, cioccolata e altra roba che rende meno dura la vita del carcere. Per questo il boss di Ottaviano gli era riconoscente, e per questo lo voleva riabbracciare. Prima che veri e propri affari, tra romani e napoletani ci furono scambi di favori. Accadde, per esempio, quando l'«operaietto» e Lucioli, su richiesta di Cutolo, erano dovuti andare fino a Ottaviano, per prelevare una BMW verde

metallizzata e portarla a Roma per farla distruggere da uno «sfasciacarrozze». Bisognava liberarsene perché lì dentro il boss in persona aveva ammazzato due uomini che poi erano stati buttati in mare, un costruttore che si era rifiutato di pagare una tangente e il suo segretario. L'auto era rimasta sporca di sangue e siccome era un modello vistoso e poco comune, dovevano sbarazzarsene. Nella zona di Napoli, però, qualcuno avrebbe potuto notarla, e quindi quelli della Magliana la presero in

consegna. Fu Giuseppucci, al quale venne affidata a Roma, a portare la Mercedes con le tracce del delitto dal demolitore giusto, uno che non avrebbe mai parlato. Col gruppo dei cutoliani, in un'altra occasione, Selis e i suoi amici fecero dei furti ai Tir che trasportavano tappeti persiani e sete cinesi. Il titolare della ditta di trasporti pensò di rivolgersi a Giuseppucci per tentare di recuperare la merce, senza sapere che era stato proprio il gruppo del «negro» a rubarla, con la complicità della

società di import-export di un camorrista, lo stesso che gestiva le operazioni internazionali del trasportatore. E quando un gruppo di fuoco della N.C.O., la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, si trasferì a Roma per tentare di eliminare il boss rivale Michele Zaza, chiese e ottenne l'appoggio della banda della Magliana. Abbatino e Toscano, diventati amici inseparabili, procurarono ai napoletani - tra cui Enzo Casillo, Giuseppe Puga detto «Giappone» e due ragazzi di Pozzuoli chiamati «i

puzzolani» - appoggi e armi. E li accompagnarono in giro per le vie di Roma, alla ricerca di Zaza, uno che alla Magliana era noto perché suo suocero gestiva i grandi magazzini della borgata. Michele Zaza detto «'o pazzo», un altro camorrista trafficante di droga trasferitosi a Roma e legato alla mafia siciliana tramite i corleonesi di Totò Riina, era dunque un nemico dei cutoliani. Ma quando quel Claudio Sicilia tanto caro a «don» Raffaele finì a Regina Coeli per una storia di

hashish e marijuana e se lo trovò davanti, i due divennero amici. Un'amicizia interessata, visto che essere protetto da uno come Zaza voleva dire, per esempio, poter frequentare altri detenuti anche se i magistrati avevano ordinato l'isolamento. In carcere «'o pazzo» faceva il bello e il cattivo tempo. Dall'esterno, rivelerà Sicilia, gli arrivava regolarmente la cocaina, perfino un sacerdote gli fece da inconsapevole corriere. Uno dei cappellani di Regina Coeli, infatti, portava dall'esterno

delle bottigliette di medicine. Zaza aveva raccontato al prete di averne bisogno perché, diceva, stava facendo lo sciopero dei medicinali per essere trasferito in ospedale, ma per non correre il rischio di aggravarsi troppo doveva prendere almeno quelle capsule. Il cappellano si era prestato, senza sapere che all'interno delle capsule era nascosta la cocaina. (11) Come tutte le amicizie più interessate che sincere, quella tra Michele «'o pazzo» e Sicilia rischiava sempre di rompersi

per un nonnulla. Successe una sera che un ragazzo rinchiuso nello stesso padiglione di Zaza mangiò dei granchi sottovuoto che appartenevano al camorrista, senza chiedere il permesso. Appena «'o pazzo» se ne accorse cominciò a picchiare il ragazzo, un tossicodipendente un po' malandato, e la cosa non piacque a Sicilia che si mise in mezzo e finì per dare due schiaffi a Zaza. Era un'umiliazione che il boss non poteva subire, afferrò una bottiglia e la ruppe contro il

muro, pronto a saltare addosso a Sicilia. Ma le guardie carcerarie fecero in tempo ad arrivare prima che la rissa degenerasse. Passata mezza giornata, Zaza decise di risolvere la questione, in un modo o nell'altro. Chiamò Sicilia e gli chiese se fosse sua intenzione ammazzarlo nel sonno. «No, non ci penso proprio», rispose «il vesuviano», e allora il camorrista-mafioso propose la riappacificazione. «Però c'è un problema», aggiunse «'o pazzo». «Dello scontro che

abbiamo avuto si verrà a sapere fuori, e per non fare brutta figura coi miei io ti devo uccidere, perché hai osato schiaffeggiarmi. Oppure ti devi imparentare con me.» Fu scelta la seconda strada, e si decise che la moglie di Zaza avrebbe fatto da madrina alla figlia di Sicilia. Da quel momento i rapporti tra i due divennero ottimi, e Michele Zaza cominciò a riempire di regali la moglie e la figlia del suo nuovo compare: bottiglie di profumo ordinate dal carcere e, in occasione di

un compleanno della signora Sicilia, centouno rose rosse. Testimone oculare dei traffici di droga tra romani e napoletani era spesso Claudio Sicilia, uno che è sempre rimasto a metà strada tra i due gruppi, amico di tutti e alla fine uomo solo, impegnato a guadagnare soldi col commercio di eroina e cocaina, ma anche a sperperarli con donne e champagne. E pronto a collaborare con la polizia quando capì che sulla piazza non c'era più posto per lui, e

che le prove raccolte a suo carico - per esempio il deposito d'armi trovato a casa di un suo amico orologiaio - non gli avrebbero lasciato scampo se non voleva più avere rapporti coi complici di un tempo. «Io già sapevo» ha raccontato Sicilia ai giudici, «dei contatti che avevano a Roma quelli della Nuova Camorra Organizzata, ma sono venuto a conoscenza di maggiori particolari quando ho cominciato a frequentare più assiduamente mio cugino Corrado Iacolare. Questi venne

a Roma quando non era ancora latitante, ma sapeva che a Napoli poteva essere nell'aria qualche provvedimento nei suoi confronti... Lo Iacolare andava spesso, anche in compagnia di Enzo Casillo, al bar di via Chiabrera; in particolare per prendere della cocaina che veniva acquistata in quantitativi di un chilo alla volta dai napoletani, che la pagavano quindici giorni dopo. La cocaina, come mi venne detto dallo Iacolare, dal Colafigli, da Abbatino, da Toscano e anche dal Mancini

Antonio detto 'l'accattone', veniva sostanzialmente venduta a prezzo di costo, era quasi una cortesia che i romani facevano ai napoletani. Questo commercio era già in atto prima della morte di Giuseppucci e proseguì fino all'arresto del Toscano e dell'Abbatino.» (12) Il luogo di consegna della «roba» era quasi sempre il bar di via Chiabrera, tra la Cristoforo Colombo e l'Ostiense, alle spalle della basilica di San Paolo: un piccolo esercizio, con una fila di

tavolini fuori, sul marciapiede, e una sala da biliardo sul retro dove i nuovi boss si ritrovavano e decidevano i loro affari tra stecche, tavoli verdi e luci al neon. Lì, a qualsiasi ora del giorno, c'era qualcuno della banda che stazionava. Da lì partivano le spedizioni e lì si tornava dopo aver fatto qualche «lavoro». Lì addirittura ci si faceva telefonare, proprio come nei film dove i baristi che la sanno lunga ma stanno sempre zitti rispondono e chiamano il gangster che sta giocando o bevendo a qualche

tavolo. Ma alla gente della strada i frequentatori del bar non davano fastidio; gli abitanti della zona e i negozianti lì intorno notavano quel viavai di uomini senza immaginare che razza di traffici combinassero. Tutt'al più poteva capitare che al fruttivendolo accanto al bar chiedessero una mela senza pagarla, e quello gliela dava e zitto; o che ogni tanto arrivasse una «pantera» della polizia per qualche controllo. Per il resto, non erano certo i «bravi ragazzi» a turbare la

tranquillità di quel pezzo di periferia già di per sé piuttosto grigio. A via Chiabrera si presentavano Casillo e Iacolare, Abbatino o Toscano andavano a prendere la polvere, quasi sempre dal cofano di una macchina - la nascondevano sotto il motore -, e gliela consegnavano. Non c'era bisogno di dire niente, se non qualche chiacchiera o un saluto da mandare a Nicolino Selis, l'amico dei napoletani che nel frattempo era finito in carcere. La confidenza e la

collaborazione era arrivata al punto che i napoletani si rivolgevano ai romani con il «tu» abbandonando il tradizionale «voi» che per gente abituata a risolvere le controversie con le armi era un segno di distacco più che di rispetto. Una volta però i cutoliani arrivarono al bar con delle facce niente affatto tranquille. Sicilia era seduto a un tavolino, lo chiamarono da una parte. «L'ultima partita di cocaina che ci hanno dato i tuoi amici non andava bene», gli disse

Iacolare, «era meno di quella che avevamo concordato. C'è ancora da fidarsi di quelli?» «E io che ne so? Voi li conoscete meglio di me, siete voi che ci fate gli affari», rispose Sicilia che aveva imparato a non immischiarsi nelle questioni che non lo riguardavano direttamente. Mentre ancora discutevano arrivarono i due amichetti, Abbatino e Toscano. Casillo e Iacolare quasi li aggredirono protestando per quella cocaina che pesava meno di quanto doveva, il clima davanti al bar

s'era già fatto molto, ma molto pesante. I due romani dissero di stare calmi, che probabilmente era stata l'umidità a far calare il peso della polvere bianca. E che comunque la cosa si poteva aggiustare subito. Salirono in macchina tutti e quattro, e andarono in un deposito lì vicino gestito da Toscano. L'«operaietto» aprì un pacco di vestiti nuovi, e cominciò a scavare tra la stoffa finché non trovò un sacchetto di plastica con dentro una busta fatta di carta di giornale. La scartò e

c'era un altro involucro, largo e piatto, chiuso da nastro adesivo. Toscano lo diede a Casillo, che l'aprì da un lato, ci infilò un dito, e quando lo tirò fuori se lo strofinò sulla lingua e sotto il naso. «Questa è abbastanza asciutta», sentenziò il napoletano, e si portò via quella partita di cocaina. L'incidente era stato evitato, tutto era tornato come prima, e alla consegna successiva Corrado Iacolare chiese ad Abbatino se poteva rimediargli, oltre alla cocaina, dei

passaporti e delle patenti di guida in bianco. Servivano per altri camorristi venuti a Roma a «trascorrere la latitanza», come fosse un periodo di ferie. Ferie lavorative, però, visto che anche nella capitale avevano continuato a gestire le loro attività. Il giudice Elisabetta Cesqui, nel 1981, era un giovane sostituto procuratore della Repubblica in servizio a Velletri, con una formazione umanistica e una carica di impegno sociale che

l'accompagnavano fin da ragazza. S'era dedicata con entusiasmo al lavoro di magistrato, dopo averlo preferito a quello universitario e all'avvocatura, ma per lo più, in una Procura come quella del piccolo centro laziale, si occupava di incidenti stradali. Di lì a pochi anni, trasferita a Roma, avrebbe avuto tra le mani alcune delle inchieste più scottanti della storia giudiziaria d'Italia, dalle trame neofasciste alla P2 di Licio Gelli, ma allora, in quell'estate calda e ricca di avvenimenti che turbavano il

Paese - dalla P2, appunto, appena scoperta, alle Brigate Rosse che avevano sequestrato e massacrato l'ingegner Taliercio e stavano per fare altrettanto con Roberto Peci, fratello del «pentito» Patrizio -, non pensava ancora a casi così delicati. Continuava a sbrigare l'ordinaria amministrazione di Velletri e dintorni quando all'improvviso la malavita le buttò tra i piedi un cadavere, il primo di un morto ammazzato nella sua carriera di magistrato: quello di Antonio Mottola, medico e perito

psichiatra del tribunale. La mattina di sabato 25 luglio il giudice Cesqui doveva andare al matrimonio di un suo collega, ma arrivò una segnalazione dei carabinieri che fece saltare tutti i piani della giornata: era stata trovata una macchina bruciata con dentro i resti di un uomo, in una strada sterrata lungo la via Casilina, dalle parti di Valmontone. Il magistrato arrivò che qualche pezzo d'auto bruciava ancora. La vittima di quello che apparve subito un omicidio non faceva nemmeno

troppa impressione per quanto il corpo era carbonizzato, un tizzone irriconoscibile; i periti chiamati sul posto non riuscivano neanche a capire se fosse di sesso maschile o femminile. Mentre faceva i primi rilievi, il medico del tribunale estrasse dalla carcassa dell'auto un ferro bruciato che fino a poche ore prima era stato uno stetoscopio e disse: «Dev'essere un collega». Era la prima, generica traccia a disposizione degli investigatori: il morto era un medico. Poco dopo, ecco

spuntare un secondo elemento, anche questo mezzo bruciacchiato: una vecchia rivoltella, più simile a un pezzo d'antiquariato che a un'arma in grado di sparare. A riconoscere il cadavere, se quello scheletro annerito si poteva definire tale, fu la moglie Vittoria che la domenica si presentò alla stazione dei carabinieri, e alla quale i militari fecero vedere gli altri oggetti recuperati nella macchina carbonizzata: una fede nuziale, una penna stilografica, l'orologio da polso

fermo sulle 5.15. «Sì», disse la signora Mottola, «sono di mio marito. E' scomparso dall'altra notte, tre persone sono venute a prenderlo verso le quattro. Stavamo dormendo e hanno suonato al citofono. Dissero che doveva andare con loro, c'era da visitare una persona, un caso urgente. Antonio li ha fatti salire, s'è vestito in fretta, ha preso la borsa dei ferri ed è andato con loro. Quando sono scesi mi sono affacciata alla finestra e li ho visti salire su una macchina targata Milano. Io non li conoscevo, dicevano

che li mandava un certo Ammaturo.» Ecco un altro indizio: Umberto Ammaturo, boss della Nuova Famiglia, l'organizzazione camorristica avversa a quella di Raffaele Cutolo. Nel frattempo il lavoro di periti e investigatori aveva stabilito due punti fermi: il dottor Mottola era stato ucciso da una revolverata alla gola, sul collo della vittima era stato rilevato del piombo; e la macchina carbonizzata, una Renault 20, era stata rubata qualche giorno prima a Milano.

Aveva avuto una vita e una carriera movimentata il dottor Antonio Mottola da Atripalda, provincia di Avellino. In Questura c'era un fascicolo intestato a suo nome, negli anni Sessanta aveva avuto qualche guaio con la giustizia, per «appropriazione indebita», presunte truffe e altro. Ma ne era uscito bene, e anni dopo riuscì a farsi nominare perito del tribunale. A Mottola vennero assegnate consulenze sulle infermità mentali anche in casi molto particolari: per esempio visitò alcuni esponenti

del clan dei Marsigliesi tra cui Jacques Berenguer; e aveva dichiarato la totale infermità di mente, consentendone la scarcerazione, di Alessandro D'Ortenzi, «lo zanzarone», rapinatore e ricettatore tormento della Squadra Mobile, legato alla banda della Magliana e protagonista di una rocambolesca fuga, in pigiama, dall'ospedale Forlanini. Dai familiari di Mottola, moglie e quattro figli che vivevano già per conto loro, il giudice Cesqui ottenne una collaborazione che le sembrò

solo apparente. A parte quella traccia su Ammaturo, che lì per lì non portò da nessuna parte, non seppero dire altro sull'attività del loro congiunto che potesse aiutare le indagini. Dalle risposte che davano, sembrava non si fossero mai interessati al lavoro del dottore. In casa furono sequestrate montagne di carte e di appunti, da cui non si cavò granché. Vennero fatti controlli sui conflitti a fuoco degli ultimi giorni, perché si pensava che il medico potesse essere stato chiamato per curare qualche

ferito che non poteva presentarsi all'ospedale; si cercarono collegamenti col sequestro di Giovanni Palombini, l'industriale del caffè rapito ad aprile e che sarebbe stato ritrovato cadavere, sempre dalle parti di Valmontone, alla fine di ottobre: i sequestratori potevano aver chiamato Mottola per curare l'ostaggio e poi aver deciso di sbarazzarsene perché magari aveva riconosciuto qualcuno. Ma non si arrivò a nulla. Un'altra pista poteva essere

quella della collaborazione tra il dottor Mottola e il criminologo Aldo Semerari, anche lui perito psichiatra, estremista di destra già inquisito, a quel tempo, per la bomba alla stazione di Bologna che il 2 agosto 1980 aveva ucciso ottantacinque persone, accusa da cui sarà in seguito prosciolto. Mottola e Semerari avevano lavorato insieme molte volte, erano diventati amici, ed era stato proprio Semerari, dopo che il marito non aveva dato notizie da ventiquattr'ore, a consigliare alla signora Vittoria di

rivolgersi ai carabinieri. Ma il professor Semerari, incredibilmente, non fu nemmeno interrogato. Ancora oggi il giudice Cesqui non sa spiegarsi il perché: «Fu una traccia che trascurammo inconsapevolmente e colpevolmente. Fu un fatto di inesperienza e forse di ingenuità da parte mia, probabilmente di scarsa attenzione da parte degli investigatori. A parte che quello era il mio primo morto ammazzato, non pensammo di indagare sul 'contesto' per

venire a capo del fatto. Ci concentrammo sulla ricerca di un episodio specifico, uno sgarro da pagare o un conto rimasto in sospeso. Provammo a ingrandire dei particolari senza cercare di avere la visione d'insieme sulla vittima, la sua attività e il suo ambiente». (13) Si tentò di lavorare sulle analogie con casi simili verificatisi in passato, per esempio l'omicidio di Antonio Sbriglione, pregiudicato catanese trasferito a Roma per commerciare droga,

ammazzato e bruciato in una macchina, proprio come Mottola, nell'agosto del '79. Per quel delitto la polizia era arrivata a sospettare del capo di una banda di sequestratori, ma a parte le stesse modalità d'esecuzione non c'erano elementi che potessero collegare quell'uomo al dottor Mottola. L'inchiesta finì per arenarsi senza che giudice e carabinieri riuscissero a prendere in mano il filo giusto, che invece avrebbero potuto trovare se avessero messo insieme i nomi

di Ammaturo e Semerari. A presentare il professor Semerari a quelli della banda della Magliana era stato «lo zanzarone», Alessandro D'Ortenzi. A quei ragazzi che sembravano disposti a tutto il criminologo «nero» propose un patto: lui li avrebbe assistiti con perizie di favore in caso di arresti, in cambio loro dovevano piazzare bombe in giro per Roma e sequestrare le persone che lui avrebbe indicato. Abbatino e Selis risposero che non se ne faceva

niente, ma con Semerari rimasero in contatto, al punto che divenne lo psichiatra di fiducia della banda. Fu a forza di frequentarlo che si resero conto di quanto il professore fosse un doppiogiochista e di come la sua vita fosse appesa a un filo. «Ci eravamo accorti», ha spiegato Maurizio Abbatino, «poiché egli non ne faceva mistero e anzi se ne vantava, che nell'ambiente della malavita organizzata giocava spavaldamente su più tavoli. In particolare, avendo appreso da

lui stesso che forniva prestazioni professionali tanto alla N.C.O. di Raffaele Cutolo quanto alla Nuova Famiglia di Umberto Ammaturo, commentammo più volte fra noi che lo stesso correva grossi rischi.» (14) Avevano visto giusto, quelli della Magliana, e nella trappola in cui rischiava di cadere Semerari era finito prima di lui il suo amico e collaboratore Antonio Mottola. Uno dei napoletani a Roma, Corrado Iacolare, ne raccontò i particolari a suo cugino

acquisito Claudio Sicilia, il quale li svelerà ai giudici cinque anni più tardi: «Iacolare mi disse che il Mottola curava delle perizie per Umberto Ammaturo, che era a capo della Nuova Famiglia e quindi in contrasto con Raffaele Cutolo. Poiché il Mottola era riuscito in base a delle perizie da lui redatte a far scarcerare l'Ammaturo, o comunque a rendere prossima la scarcerazione dello stesso, per semplice vendetta e per fare in modo di togliere all'Ammaturo futuri appoggi venne deciso, in

una riunione tenutasi a Roma in un negozio di mobili di proprietà di un certo Giorgi, di eliminare il Mottola. «Il Mottola», continua Sicilia, «un tempo era stato vicino a un altro medico legale, il professor Semerari. Quest'ultimo poi si avvicinò al clan di Cutolo. Iacolare mi disse che a compiere l'omicidio, oltre a lui stesso, erano stati Pasquale Scotti più altre persone. Sapendo che il Mottola avrebbe seguito senza fare alcuna difficoltà qualsiasi persona che si fosse presentata

a nome di Ammaturo, loro dissero così e Mottola fece entrare in casa senza difficoltà lo Iacolare e gli altri. Il Mottola iniziò a capire qualche cosa quando il gruppo era già sceso in strada o stava uscendo di casa. Uno del gruppo si era impossessato, dentro l'abitazione, di una pistola con relative munizioni, sottraendola da una collezione di armi del Mottola, o comunque da un posto dove questi teneva le armi: come venne sottolineato dallo Iacolare, il Mottola venne ucciso con la sua stessa

pistola.» (15) Il riavvicinamento a Cutolo dopo l'assassinio del suo amico Mottola, non servì a salvare Aldo Semerari. La sua testa, staccata di netto, fu trovata in una bacinella di plastica sul sedile anteriore di una Fiat 128 parcheggiata in una strada del centro di Ottaviano, il primo aprile 1982. Il corpo del criminologo, mani e piedi legati, era chiuso dentro il portabagagli. ***

3. FUOCO SUI «PESCIAROLI».

Un sabato sera, il 13 settembre 1980, Franco Giuseppucci si presentò all'ospedale Nuovo Regina Margherita con una pallottola in corpo. Era solo, aveva guidato la Renault 5 per qualche centinaio di metri, dal luogo in cui gli avevano sparato fino al pronto soccorso. Alle

20.05 entrò in sala operatoria. «Ferita d'arma da fuoco del torace, lateralmente a sinistra», scrisse il chirurgo di guardia sul foglio dell'ospedale, con l'aggiunta di «prognosi riservata». Il «negro» morì sotto i ferri mezz'ora più tardi. Addosso non aveva documenti, ma un milione e trecentomila lire in banconote, due milioni e mezzo in assegni, il Rolex d'oro, la catenina con la medaglietta, un anello con brillante e un mazzo di chiavi. Lo identificarono i poliziotti del commissariato

Trastevere chiamati dagli infermieri. Franco Giuseppucci, infatti, aveva incontrato il suo assassino in una piazza di Trastevere. Era con qualche amico e il fratello Augusto - di sette anni più giovane e di mestiere fornaio, lo stesso che Franco aveva fatto un tempo e che gli era valso il soprannome di «fornaretto» prima che cominciassero a chiamarlo «negro» - nella sala biliardo del bar Castelletti, a piazza San Cosimato. Stavano giocando dal pomeriggio, e ormai s'era fatta

sera quando Giuseppucci salutò la compagnia dicendo che doveva andare a Tor di Valle: voleva controllare come andavano le cose e fare qualche puntata. Uscì dal bar e raggiunse la Renault 5 di sua moglie; lui aveva una BMW, ma gliel'avevano sequestrata. Girò la chiave nello sportello, l'aprì e s'infilò nell'abitacolo. Mentre stava accendendo il motore comparve un uomo sul marciapiede, dal lato sinistro della macchina: era giovane e magro, con i capelli biondi e lunghi che sembravano di una

parrucca, un paio di occhiali scuri. Non si sa se Franco lo guardò in faccia mentre il ragazzo gli sparò il primo colpo fracassando il finestrino e colpendolo su un fianco; si sa invece che ebbe la prontezza di fare retromarcia, uscire dal parcheggio e partire a forte velocità. Il killer non fece in tempo a esplodere il secondo colpo, corse a piedi nella stessa direzione in cui era andata la sua vittima, e arrivato alla fine della piazza salì su una moto Honda guidata dal suo

complice. Provarono a inseguire la Renault 5 di Giuseppucci, ma quando questa si fermò davanti all'ospedale l'abbandonarono e proseguirono la loro fuga. L'esecuzione non era certo stata perfetta, ma il «negro» morì ugualmente, in sala operatoria anziché in strada. L'ispiratore della banda della Magliana, visto che non si poteva parlare di capi in quel piccolo esercito di criminali allergici a qualsiasi ordine, era stato fatto fuori. Aveva trentatré anni, l'ultimo compleanno l'aveva passato in

galera, dov'era finito con l'accusa di ricettazione. A gennaio dell'80, infatti, gli avevano trovato dei travellers' cheque rubati in una rapina alla Chase Manhattan Bank di Roma compiuta da un commando di neofascisti. Coi giovani terroristi neri Giuseppucci era in buoni rapporti, loro gli portavano i proventi di furti e rapine e lui glieli riciclava. Utilizzava quei ragazzi, di tanto in tanto, anche per fare qualche «lavoretto», l'avvertimento a qualcuno che non si decideva a

pagare i debiti di gioco o gli interessi sui soldi prestati «a strozzo», oppure l'eliminazione di chi non voleva piegarsi alle leggi dell'estorsione. Del resto lui, Franco Giuseppucci detto «er negro», era e si dichiarava un fascista: a casa aveva dei dischi con le registrazioni dei discorsi di Mussolini, medaglie e gagliardetti con le effigi del Ventennio. «Tuttavia questa sua infatuazione», ricorderà Abbatino, che gli fu amico fino all'ultimo, «non ne condizionava minimamente l'azione, né lo conduceva a

perdere di vista gli interessi e gli scopi della banda che erano tutt'altro che politici.» (1) Interrogare la moglie di un pregiudicato morto ammazzato, il più delle volte, serve solo a togliersi un pensiero. Bisogna farlo e si fa, si comincia sempre dai parenti stretti della vittima, ma quasi mai se ne cava qualcosa di utile. Di solito dicono che il marito era una persona tranquilla, che pensava solo alla famiglia e al lavoro. Oppure che i rapporti erano talmente rarefatti che

dell'attività del loro uomo non sanno niente. In entrambi i casi il risultato è lo stesso, e finisce per essere trascritto nelle ultime righe del verbale: «Non ho altro da aggiungere e non so chi possa aver ucciso mio marito, né chi aveva interesse a volerne la morte». Successe anche con la moglie di Franco Giuseppucci, Patrizia, di dodici anni più giovane del marito e madre di Maurizio, un bambino che aveva due anni quando il «negro», suo padre, morì assassinato da un killer dai

capelli biondi. Patrizia fu avvisata con una telefonata alle nove e mezza di quel sabato sera, le dissero di andare subito all'ospedale Nuovo Regina Margherita perché Franco aveva avuto un incidente. Si fece accompagnare dalla madre e dal cognato e lì, riferì al poliziotto che l'interrogò un'ora più tardi negli uffici della Questura, «ho appreso che mio marito era morto, in quanto gli avevano sparato.» Per il resto, spiegò che con Franco aveva ormai molto poco in comune. Si

vedevano di rado, lui rincasava sempre più tardi e addirittura «saltuariamente», una cosa che Patrizia non poteva più sopportare: litigavano quasi ogni volta si trovavano faccia a faccia. Da qualche mese s'erano trasferiti a vivere dalla madre di lei, sempre alla Magliana, e forse anche per questo lui in casa non voleva rimanere. Fatto sta che non ci rimaneva, e che cosa facesse fuori, lei, Patrizia, disse di non saperlo. «Suo marito che lavoro faceva?» chiese il poliziotto. E Patrizia, innocentemente: «A

quanto ne so lavorava presso il forno di suo padre». Il poliziotto insisté: «Ma come passava il tempo? Aveva degli amici? Chi erano? Si incontravano a casa vostra? Di che cosa parlavano?» Patrizia si tenne sul vago, chissà se per scelta o perché realmente non ne sapeva di più: «So che mio marito aveva molti amici, che io conosco soltanto di vista, non sono in grado di dire i nomi. Da loro riceveva spesso telefonate, oppure venivano a citofonargli sotto casa». Davanti a lei Franco non aveva

mai combinato affari né organizzato qualcosa di losco. «E delle corse di cavalli, delle scommesse all'ippodromo, non sa niente?» tentò ancora il poliziotto. «Mio marito era un frequentatore degli ippodromi della capitale», rispose telegrafica la signora Giuseppucci, ventun'anni, vedova da poco più di due ore, «presso i quali mi ha condotto alcune volte.» Provando a scandagliare nella vita domestica andò appena un po' meglio. Negli ultimi tre giorni - raccontò

Patrizia -, dopo l'ennesima lite, Franco era scomparso. Tornò a casa soltanto il venerdì sera, verso le nove e mezza. Cenò e andò a dormire. La mattina dopo uscì intorno alle dieci, e salutò la moglie dicendole che sarebbe passato a prenderla in serata, per portarla fuori. Invece le cose erano andate diversamente, e lei lo aveva rivisto cadavere all'ospedale. Anche coloro che erano stati con Giuseppucci al biliardo del bar Castelletti fino a pochi attimi prima che gli sparassero - tutti pregiudicati o con varie

denunce a carico - non furono di grande aiuto con le loro testimonianze. Augusto, il fratello del «negro», disse che con Franco non si incontrava spesso, «mi risulta che era un assiduo frequentatore e giocatore alle corse dei cavalli e per questo motivo era solito portare molto denaro liquido con sé, ma ignoro quale era la sua vera attività perché lui non mi ha mai riferito alcunché circa le sue amicizie.» Vide mentre gli sparavano, e riferì che dopo aver assistito all'agguato lui e i suoi tre amici

montarono in macchina e si gettarono all'inseguimento della moto col killer a bordo, le tennero dietro per un tratto di strada, ma poi la persero nel traffico. Gli altri amici, invece, dissero cose diverse. Uno raccontò che dopo lo sparo a Franco, visti andar via sia la vittima che il sicario, il gruppo decise che «per non avere noie con la polizia» era meglio cambiare aria: salirono sulla BMW di Augusto Giuseppucci, si fecero un giretto e tornarono in piazza mezz'ora dopo; lì trovarono i carabinieri che li

accompagnarono in caserma. Un altro, Giorgio Paradisi, negò addirittura di aver visto sparare a Giuseppucci. «Eravamo sulla BMW di Augusto», disse al carabiniere che l'interrogava, «e ci stavamo facendo una passeggiata in macchina, siamo arrivati a piazza San Cosimato e voi ci avete fermato.» «A noi risulta», lo interruppe l'ufficiale, «che tu e i tuoi amici eravate davanti al bar e avete visto sparare. E' vero?» «No, le cose stanno come le ho detto», rispose sicuro Paradisi,

proveniente pure lui dalla Magliana. «Ci risulta che dopo il colpo d'arma da fuoco siete partiti dalla piazza a forte velocità, e siete tornati dopo mezz'ora», provò a incalzare il carabiniere. «No», ribatté quello impassibile, «ho già detto che ci siamo fatti un giro per Roma. Guidavo io, e durante la passeggiata ho accelerato l'andatura perché a me piace guidare veloce.» «Conosci Franco Giuseppucci? Che rapporti c'erano tra voi?» «Lo conosco da molti anni, abbiamo commesso alcuni reati

insieme e sono stato anche arrestato con lui. L'ultima volta che l'ho visto è stata due giorni fa.» In Questura, saputo che il cadavere all'ospedale Nuovo Regina Margherita era di Franco Giuseppucci detto «er negro», decisero di cominciare le indagini dall'ippodromo di Tor di Valle. E verso le dieci e mezza di quel sabato sera ancora estivo il brigadiere di Pubblica Sicurezza Emilio Verrillo girava per le tribune e i bar in cerca di notizie sul morto

e di indizi sugli assassini. «Mentre mi trovavo all'interno dell'ippodromo», scriverà il brigadiere nella sua relazione di servizio, dalla prosa tipica quanto incerta, «notavo il noto pregiudicato Proietti Fernando parlare con alcuni giocatori clandestini e dopo poco si allontanava con fare sospetto, e cioè guardando a destra e a sinistra in mezzo alla folla dei giocatori. Nel mentre si allontanava lo scrivente non lo perdeva mai di vista e nel contempo chiedevo a un mio confidente che cosa

stava cercando il Proietti, il confidente mi faceva presente che stava cercando a una persona soprannominata 'Mimmo il biondo' amico intimo del Giuseppucci, non trovandolo stava andando via.» Il brigadiere Verrillo continuò a seguire Fernando Proietti, e vide che si avvicinava a una Giulietta col motore acceso. «Quella persona non c'è», disse Proietti al guidatore, e fece per salire in macchina. Verrillo, insieme ad altri due poliziotti, decise di bloccare

quei due tipi sospetti, e «all'alt intimato dal sottufficiale, il guidatore faceva la mossa di mettere la mano alla cintola dei pantaloni come per estrarre un pistola ma veniva prontamente immobilizzato... Entrambi gli individui venivano trovati in possesso di pistole automatiche con il colpo in canna, e dichiarati in arresto. Il giovane che era alla guida veniva identificato per il fratello del Proietti Fernando, Maurizio, anch'egli in oggetto indicato.» Li portarono in ufficio, dove gli archivi erano pieni di notizie

sul clan Proietti, «noti malavitosi della capitale legati al defunto Nicolini Franco». Era un gruppo di fratelli, cugini e affini venuti su dai banchi dei mercati rionali di Monteverde, a piazza San Giovanni di Dio e in via Donna Olimpia, «pesciaroli» e gestori di case da gioco, ben inseriti nel giro delle scommesse clandestine. Un gruppo simile per struttura a quelli della 'ndrangheta calabrese, dove sono quasi tutti parenti. Il capostipite Giovanni Proietti, classe 1909, titolare

del banco del pesce a San Giovanni di Dio, la piazza dove abitava «Franchino er criminale», aveva undici figli, tra cui Fernando, soprannominato «il pugile», Maurizio detto «il pescetto», Mario chiamato «palle d'oro», ed Enrico. Un altro Enrico Proietti, detto «er cane», era figlio di Mariano, fratello di Giovanni, e i suoi figli si chiamavano Orazio e Mariano, lo stesso nome del nonno. Secondo polizia e carabinieri erano tutti esponenti di un clan che dopo l'omicidio di Nicolini

contendeva il controllo delle scommesse clandestine negli ippodromi al gruppo di Franco Giuseppucci. Tra i figli di Giovanni Proietti, Fernando, Maurizio e Mario erano già stati denunciati per furto, ricettazione, oltraggio, lesioni e guida senza patente. Addosso a Fernando Proietti, in Questura, trovarono la chiave di una moto Honda. Lui disse che quella moto non ce l'aveva più da un anno. Sentì i poliziotti che parlavano della prova del guanto di paraffina, e allora, per mettere le mani

avanti, raccontò che mentre veniva in macchina da Ostia a Roma con suo fratello Maurizio, aveva sparato un paio di colpi di pistola, senza però spiegare dove e perché. Ma Maurizio, interrogato su questo punto e ignaro di quello che aveva detto Fernando, negò che suo fratello avesse sparato. Fernando era sposato da diciannove anni con Rosanna, dalla quale aveva avuto tre bambini. Rosanna, secondo copione, disse alla polizia che i rapporti col marito «negli ultimi tempi si erano un po'

raffreddati», e che «a seguito dell'incompatibilità di carattere lui in casa ci veniva raramente.» Lei l'aveva visto l'ultima volta sabato mattina, era uscito di casa dicendo che andava a Ostia, poi le telefonò all'ora di pranzo avvisandola che avrebbe mangiato dalla madre. «Non ho altro da aggiungere.» La moglie di Maurizio, Stefania, riferì invece che sabato 13 suo marito aveva pranzato a casa, poi s'era messo a letto e aveva dormito fino alle venti. La serata

l'avevano trascorsa a Ostia, a casa di papà Giovanni, e verso le dieci e mezza Fernando e Maurizio erano usciti senza dire dove andavano. Dagli informatori della Squadra Mobile, il giorno dopo l'omicidio Giuseppucci arrivò una «soffiata»: a sparare col silenziatore al «negro» era stato Fernando Proietti, «il pugile», mascherato con una parrucca bionda, mentre l'Honda era guidata da suo fratello Mario, «palle d'oro». La pistola l'avevano nascosta a Ostia, sotto terra. Dalla

perquisizione nel garage del «pugile», oltre a pistole, proiettili e passamontagna, saltarono fuori una moto Honda 500, una parrucca bionda «tipo capellone» e un paio di occhiali da sci, mentre a Ostia, accanto a una baracca vicina alla casa del Proietti, fu trovata una buca nella sabbia profonda circa trenta centimetri, «coi bordi ancora umidi, come se la stessa fosse stata scavata poco prima». Il 18 settembre, il vicedirigente della Squadra Mobile Luigi De Sena consegnò

al magistrato un rapporto giudiziario di denuncia contro Proietti Fernando, «detenuto», e Proietti Mario, «irreperibile», entrambi «gravemente indiziati, in concorso tra loro, di omicidio volontario in persona di Giuseppucci Franco.» Il piano dei due fratelli, secondo il rapporto, oltre all'eliminazione del «negro» prevedeva anche l'esecuzione di Domenico Zumpano, detto «Mimmo il biondo», «amico intimo e assiduo accompagnatore del Giuseppucci, in compagnia del quale era stato da ultimo

controllato nei pressi del bar di via Enrico Fermi, altro punto di riunione della malavita di San Paolo.» Fernando Proietti era andato a cercarlo a Tor di Valle per ammazzarlo, ma non l'aveva trovato. E' una storia quasi monotona, tutta scandita da piombo e sangue, quella della vendetta dei «bravi ragazzi» della Magliana contro il clan dei Proietti, colpevole di aver ammazzato uno dei leader della banda. Un programma di morte che sotto la parola d'ordine

«annientare i 'pesciaroli'» cementò l'unione tra gli ex complici di Giuseppucci e un altro gruppo di amici del «negro» guidato da Enrico «Renatino» De Pedis e Danilo Abbruciati, rapinatori e trafficanti già collaudati, provenienti dal Testaccio. Una vendetta portata avanti con puntiglio e senza scrupoli per due anni, che non ha risparmiato parenti, amici e anche persone che non c'entravano niente, del tutto ignare della faida che si stava consumando.

La rappresaglia cominciò proprio con un errore, uno scambio di persona, una settimana dopo l'omicidio di Giuseppucci. Il presunto killer del «negro», Fernando Proietti, stava in galera; suo fratello Mario - che più tardi sarebbe riuscito a provare la propria estraneità al delitto: la moto non era sua, disse, e la parrucca non proveniva dal guardaroba della moglie - si nascondeva chissà dove dalla polizia e dagli amici del morto; un altro dei fratelli Proietti, Enrico, era finito pure lui in

carcere. Quelli della banda Abbatino, Toscano, Colafigli e altri ancora - avevano allora deciso di prendersela con l'altro Enrico Proietti, «er cane», cugino di Fernando. Avevano saputo che frequentava una casa tra Ostia e Castelfusano; uno di loro aveva visto la sua macchina parcheggiata fuori dalla villa. La sera di venerdì 19 settembre 1980 si appostarono pronti a fare fuoco. «Intorno alle due di notte», racconterà Maurizio Abbatino, «vedemmo uscire una Fiat

Ritmo dalla villa. La inseguimmo e dopo duecento o trecento metri la superammo: eravamo muniti di un fucile a pompa, un mitra Mab e una pistola calibro 9 con silenziatore. Avevamo anche una bomba a mano. Il silenziatore della calibro 9, dopo due o tre colpi, si ruppe. Il conducente della Fiat Ritmo fece una rapidissima retromarcia, riportandosi davanti al cancello della villa, balzò fuori dall'auto e si gettò in un burrone, mentre l'altro passeggero, che non avevamo

capito si trattasse di una donna, restò 'accucciato' nella macchina. Io mi trovavo alla guida della nostra autovettura, gli altri spararono tutti: Colafigli col fucile a pompa sparò all'interno dell'abitacolo della Fiat Ritmo.» (2) Dentro quella macchina, invece di Enrico Proietti, c'erano l'avvocato Pierluigi Parente, ventotto anni, figlio di un industriale, e la fidanzata Nicoletta Marchesi, che nulla sapevano della banda della Magliana, del clan Proietti e della guerra tra i due gruppi. Il

ragazzo fece in tempo a scappare, ma Nicoletta rimase gravemente ferita. Fu uno sbaglio dei sicari, e ci vollero ventriquattr'ore d'indagini per capirlo. I giornali, il giorno dopo l'agguato, parlarono di un fallito sequestro di persona, e qualcuno ipotizzò addirittura una vendetta politica, anche se il giovane Parente insisteva a negare di essersi mai interessato di partiti e movimenti studenteschi. Passò un mese, e quelli della Magliana ci riprovarono. Stavolta agirono nel loro

territorio, dove abitava pure «er cane», e non sbagliarono obiettivo. Enrico Proietti era in strada con la moglie, vicino alla sua Mercedes parcheggiata davanti a un negozio di articoli sportivi. Stava per salire in macchina quando una Fiat 132 lo affiancò e partirono alcuni colpi di pistola e di fucile. Il «cane» capì al volo quello che stava succedendo: «Infami, con me ve la prendete!» gridò a chi gli stava sparando, e si buttò a terra per ripararsi dietro le macchine. Un pallettone gli trapassò un polmone, ma riuscì

a salvarsi. Uno dei sicari era Maurizio Abbatino: «Poiché Enzo Mastropietro non era stato tempestivo nell'esplodere i colpi di fucile, così da non colpire in pieno il Proietti, ricordo che mi arrabbiai per questo, anche perché essendo molto conosciuti nella zona non potevamo scendere dall'autovettura per finire il Proietti, come invece è avvenuto in altri casi, senza correre il rischio di essere riconosciuti dalle persone che si trovavano sul posto». (3)

Abbatino e i suoi sapevano che la loro vittima li aveva riconosciuti, ma un loro amico, infermiere dell'ospedale dove Proietti fu ricoverato, disse che potevano stare tranquilli, il «cane» si era trasformato in un pesce, e alla polizia non aveva detto niente. Qualche tempo dopo, sempre in ospedale, Enrico Proietti incontrò Claudio Sicilia, arrestato e piantonato dai poliziotti. I due non si conoscevano, ma ciascuno sapeva chi era l'altro. Una sera Proietti si presentò, guardò per un po' la televisione nella

stanza di Sicilia, poi cominciò a parlare. «Mi disse che aveva riconosciuto Abbatino, Toscano e Mastropietro», ricorderà Sicilia, «che non aveva fatto i loro nomi per paura e che non riteneva di meritare un trattamento del genere di quello subito, in quanto estraneo alle attività dei cugini. Il Proietti aveva molta paura, anche di uscire di casa, e mi chiese in sostanza di parlare con le persone che avevano attentato alla sua vita affinché lo lasciassero perdere.» Non disse niente sui suoi

aggressori nemmeno Mario Proietti, «palle d'oro», quello che secondo i confidenti della polizia guidava la moto quando fu ammazzato Giuseppucci. I vendicatori del «negro» riuscirono a individuarlo a dicembre, avevano saputo che frequentava una bisca dalle parti di Ponte Milvo. La notte del 12 dicembre, verso l'una e trenta, la sua Renault 5 fu tamponata sul lungotevere da un'auto, dalla quale partirono alcuni colpi di pistola. «Palle d'oro» riuscì a mantenere il controllo della sua macchina,

ma quelli continuavano a sparare e lui si buttò da un lato, infilandosi tra i cespugli e poi nascondendosi tra i rottami di uno «sfasciacarrozze». Rimase acquattato per un paio d'ore, poi si decise a venir fuori e a suonare al citofono di una casa lì vicino. Era ferito a una mano, gli abitanti lo fecero salire e chiamarono il 113. Ai poliziotti che lo portarono negli uffici del secondo distretto raccontò quello che era successo, e alla fine mentì: «Ignoro i motivi dell'insano gesto degli sconosciuti, anche

perché lavoro in proprio, ho un banco di vendita del pesce in piazza San Giovanni di Dio, non mi occupo di politica e né tantomeno ho nemici». Il vicequestore che l'interrogava non gli credette e «ritenuto che trattavasi di un regolamento di conti tra pregiudicati, e che il Proietti, pur conoscendoli, aveva tutto l'interesse che questi rimanessero sconosciuti», lo denunciò per favoreggiamento personale, oltre che per l'immancabile guida senza patente. Accuse che non dovettero

impressionare troppo un tipo come «palle d'oro», e che presto sarebbero svanite nel nulla. Era un venerdì pomeriggio come tanti altri, un po' freddo, il 23 gennaio 1981. Claudio Sicilia era sceso al bar di via Chiabrera per prendere un caffè dopo il pranzo, poi era risalito a casa. Intorno alle quattro suonò alla porta un amico, gli consegnò una borsa di plastica. «Tienila tu, ripassiamo a prenderla più tardi.» «Perché, che cosa c'è?»

«Niente, un giubbotto e qualche documento.» C'erano le carte d'identità di Maurizio Abbatino, Edoardo Toscano, Enrico De Pedis e qualche altro. «Ma che devono fare?» «Un servizio, vanno a trovare un amico dei Proietti.» A quell'ora Orazio Benedetti, per gli amici «Orazietto», trentotto anni e un lavoro saltuario da giornalaio all'edicola della moglie, pregiudicato dalle compagnie considerate pericolose, collo taurino e orecchie un po' a sventola, era già arrivato nella

sala corse di via Rubicone, al quartiere Salario. Lui era di un'altra zona, abitava dalle parti di Monteverde, ma in via Rubicone andava quasi tutti i pomeriggi. Era da un po' che non si faceva vedere negli ippodromi, preferiva le agenzie ippiche, meglio se lontane dal suo quartiere. Quella al Salario era una delle più accoglienti e attrezzate di Roma: al centro il bancone per le puntate, sospesi in aria alcuni televisori con le immagini delle piste, tutt'intorno quattro file di poltroncine rosse un po'

sporche e con qualche bruciatura di sigaretta. «Orazietto» era conosciuto nel mondo dei cavalli e delle scommesse clandestine. Era un «picchettaro», un tempo al servizio di Umberto Cappellari, assassinato nel '75, quaranta giorni dopo l'omicidio dell'altro boss delle bische clandestine, Ettore Tabarrani, suo rivale. Adesso sembrava essersi messo in proprio, e coi picchetti guadagnava bene, a giudicare da come vestiva e dalle macchine che guidava: tra cavalli e totonero, quello sulle

partite di calcio, gestiva un giro d'affari da cinque o sei milioni a settimana. Ma era «amico dei Proietti» - uno dei «pesciaroli» aveva perfino fatto il compare al battesimo di sua figlia - e il suo destino segnato. Quel venerdì Benedetti aveva puntato sulla «tris» di Tor di Valle, partenza prevista alle ore diciassette, fatturato delle scommesse «in nero» su quella corsa calcolato intorno ai due miliardi. Lui aveva fatto la sua giocata, chissà se era quella giusta, l'accoppiata vincente fu Withers-Spago: non

fece in tempo a sapere come gli era andata. «Orazietto» s'era appena sistemato su una delle poltroncine rosse, quando nella sala corse entrò un tipo sui trent'anni, impermeabile beige tipo Burberrys', occhiali scuri e uno «zuccotto» di lana calato sulla fronte. Cominciò a girare per la sala guardando in faccia le persone, si avvicinò a uno che da sotto l'impermeabile vide spuntare la canna di una pistola. Quello sbiancò in viso, il killer ebbe un attimo di esitazione, poi si girò e incrociò

il volto di «Orazietto», ancora seduto sulla sua poltroncina. L'uomo con lo «zuccotto» e gli occhiali scuri fece qualche passo verso di lui, gli si parò davanti e sparò quattro colpi, uno dietro l'altro. A ogni proiettile che lo colpiva il corpo di Benedetti sussultava come fosse un manichino di stracci, ma la vittima ebbe ugualmente la forza di alzarsi e rincorrere il suo assassino che aveva girato le spalle e stava scappando. Cadde a terra qualche metro più in là, stroncato dalle

pallottole che l'avevano colpito alla gamba, al torace, al collo e al mento. Lo portarono al Policlinico, morì due ore più tardi. Addosso al cadavere trovarono, tra l'altro, una bustina di polvere bianca, eroina o cocaina, e un lungo sigaro avana. Interrogata in Questura, la moglie Nadia ripeté il solito ritornello: «Mio marito non mi ha mai messo al corrente di quello che faceva e su che cosa scommettesse, in questo fatto egli era molto riservato. Sono a conoscenza che frequentava

amici ma non sono in grado di fare dei nomi... Non so proprio chi possa aver ucciso mio marito e non credo che lui avesse dei nemici. Egli fino a qualche tempo fa era piuttosto irascibile ma non aveva mai fatto discussioni con chicchessia...» La segnalazione che «Orazietto» si trovava nell'agenzia di via Rubicone era arrivata al bar di via Chiabrera, e il gruppo di fuoco era partito a bordo di una Kawasaki 1300: sopra c'erano «Renatino» De Pedis e Edoardo Toscano, il

killer con l'impermeabile che aveva una finta tasca da cui si poteva sparare senza estrarre la pistola. Fuori, a fare da palo su una Volkswagen Golf, il suo amico Abbatino. Quando tornarono al bar raccontarono agli amici, tra cui Sicilia, come era andata. «Toscano disse che ritornando verso l'uscita della sala corse, sulle scale, aveva incontrato una guardia giurata armata; lui gli aveva puntato contro la pistola e la guardia aveva subito alzato le mani.» (5) Due giorni dopo gli assassini

organizzarono un pranzo in onore dell'amico che aveva fatto la soffiata sul luogo dove avrebbero trovato «Orazietto». Via Donna Olimpia è la strada dove Pier Paolo Pasolini fece vivere alcuni dei suoi «Ragazzi di vita», ammassati con le loro famiglie - madri sempre in camicia da notte, padri ubriaconi e nidiate di figli vestiti di stracci - in casermoni occupati che sembravano altissimi, tanto che venivano chiamati «i Grattacieli». Era il dopoguerra, e quei palazzi alla

periferia di un quartiere di periferia apparivano «grandi come catene di montagne, con migliaia di finestre, in fila, in cerchi, in diagonali, sulle strade, sui cortili, sulle scalette, a nord, a sud, in pieno sole, in ombra, chiuse o spalancate, vuote o sventolanti di bucati, silenziose o piene della caciara delle donne o delle lagne dei ragazzini. Tutt'intorno si stendevano ancora prati abbondanti, pieni di gobbe o ponticelli, zeppi di creature che giocavano coi zinalini sporchi di moccio o mezzi nudi». (6)

Trent'anni e più dopo, la periferia era meno periferia ma i casermoni ancora gli stessi, solo assediati da altri ancora più alti e ancora più abitati, e anziché prati abbondanti, tutt'intorno si stendeva altro asfalto e altro cemento, con le macchine arrampicate fin sui marciapiedi e pochi alberi rimasti a combattere per un po' d'aria e di sole. In uno di quei casermoni costruiti in serie, in via Donna Olimpia 152, a poca distanza dal mercato dove avevano il loro banco di pesce e dalle case

degli altri parenti, si rifugiavano Maurizio e Mario Proietti, «il pescetto» e «palle d'oro». Da cinque mesi, dopo l'omicidio Giuseppucci e le prime vendette, avevano abbandonato le loro case e si nascondevano in quest'altro appartamento arredato solo con brande, un tavolo e qualche seggiola, fornelletti da campeggio per una cucina improvvisata. Maurizio era stato scarcerato da poco e Mario era sfuggito al primo agguato, quelli della Magliana

continuavano a cercarli. Girarono a vuoto finché un allibratore non li informò che i due Proietti erano rimasti a vivere a Monteverde. Cominciarono l'«inchiesta», facendo qualche appostamento in un bar vicino a via Donna Olimpia. Da lì erano riusciti a capire che proprio in quella strada i due fratelli comparivano spesso, frequentavano un palazzo che però non era chiaro quale fosse. Appostamenti e pedinamenti, infatti, si dovevano fare con

circospezione e a distanza, per non essere scoperti e dover ingaggiare un conflitto a fuoco impreparati e in «territorio nemico». La zona dove avrebbero dovuto colpire, comunque, era quella. Lunedì 16 marzo 1981 quando i giornali e la T.V. ricordavano ancora l'anniversario del rapimento di Aldo Moro a opera delle Brigate Rosse, avvenuto tre anni prima - Mario e Maurizio Proietti avevano deciso che la sera avrebbero portato nell'appartamento-rifugio

anche le loro famiglie, mogli e figli che solitamente facevano la spola tra le varie case. E la sera arrivò. Dal solito bar di via Chiabrera, una volta stabilito che quella era la data in cui i due «pesciaroli» dovevano morire, partirono in cinque, a bordo di due macchine. Passarono a ritirare le armi nel loro deposito, arrivarono a Monteverde e appena intercettati i Proietti con le loro donne si appostarono. Ormai era buio, all'incirca le otto, e in via Donna Olimpia, affollata di

gente che tornava a casa dopo la chiusura dei negozi, non era difficile seguire e controllare le vittime senza essere visti. Una macchina si sistemò all'imbocco di una strada laterale, un'altra nella traversa dalla parte opposta, in modo da bloccare possibili vie di fuga. I due sicari prescelti, «Marcellone» Colafigli e Antonio Mancini - uno di trentatré anni che chiamavano «l'accattone», faccia pasoliniana e un curriculum criminale di tutto rispetto, uscito da poco dal carcere e presentato alla banda da

Edoardo Toscano -, aspettavano sul marciapiede per vedere da quale parte sarebbero andati i due fratelli. Mario e Maurizio Proietti, seguiti dalle mogli Maria Laura e Stefania e dai figli Daniele, Alessio e Stefano, infilarono un portone, il numero 152. Velocissimi, «Marcellone» e «l'accattone» comparvero alle loro spalle, il volto coperto dai passamontagna, e cominciarono a sparare. Fu un inferno di fuoco e urla: degli assassini, delle vittime predestinate, delle mogli e dei

figli. Maurizio Proietti venne colpito, Mario anche, ma uno dei due ebbe il tempo di reagire e tirare fuori la rivoltella. Sparò, e in quello schizzare di pallottole rimasero feriti pure Colafigli e Stefania, la moglie di Maurizio che stava cercando di scappare con i bambini verso le scale. L'altra donna, Maria Laura, tentò invece di bloccare uno dei due sicari buttandoglisi addosso, ma ne guadagnò solo una ferita in testa provocata dal calcio di una pistola. Sentite le urla e gli spari,

qualcuno, nel palazzo o per la strada, chiamò il 113, ma intanto una Volante del commissariato Monteverde in servizio per le vie del quartiere era già arrivata. L'agente Luigi Mastroianni scese dall'auto e si trovò davanti gli assalitori, a dividerli solo il cancello di ferro e vetro ormai frantumato che non si apriva. L'agente sparò e ferì Mancini a una spalla, ma un proiettile colpì anche lui. I due fratelli Proietti erano a terra nell'androne del palazzo, feriti come le loro mogli, fuori c'era la polizia, i due killer non

trovarono di meglio che afferrare il più piccolo dei bambini - Daniele, figlio di Maurizio, quattro anni - per proteggersi la fuga e scappare lungo le scale del palazzo. Il bambino lo abbandonarono un paio di piani più su. Arrivarono le ambulanze che portarono via i feriti, Maurizio Proietti giunse all'ospedale che era già morto, nel suo portafoglio trovarono una foto ricordo di «Orazietto» Benedetti. Mario se la cavò ancora una volta con una ferita al braccio, le due mogli furono

dichiarate guaribili in pochi giorni, come l'agente. E mentre i medici si davano da fare per prestare le prime cure, il palazzo di via Donna Olimpia era stato circondato da poliziotti e carabinieri, con il turbinio delle luci blu a intermittenza e le cellule fotoelettriche che illuminavano a giorno, e centinaia di abitanti del quartiere ammassati contro le transenne e le auto: volevano avere tra le mani i due assassini asserragliati nello stabile. All'arrivo della polizia, i loro

complici che aspettavano in macchina se n'erano andati, e Mancini e Colafigli, sanguinanti per le ferite, erano saliti sul tetto del palazzo e, passando dalle terrazze, s'erano calati nell'edificio accanto, riuscendo a entrare in un appartamento. Da lì telefonarono al bar e parlarono con uno degli amici: «Siamo chiusi in una casa, chiamate qualche avvocato e fatelo venire qui, perché sennò ci ammazzano», disse Mancini. Gli amici avvisarono gli avvocati, e gli uomini della Squadra Mobile che fino a quel

momento avevano perquisito decine di appartamenti di via Donna Olimpia in cerca degli assassini - con caschi, giubbotti antiproiettile e mitra spianati, immagine e realtà di uno stato d'assedio - arrivarono alla casa dove si erano asserragliati. Stavano per buttare giù la porta quando i due killer si arresero: Mancini gettò la sua pistola a terra, a Colafigli dovettero strapparla di mano. Li portarono in strada per caricarli sulle macchine, e i poliziotti faticarono a trattenere la folla che li voleva

linciare. «Marcellone», con aria di sfida, chiese all'agente che gli sedeva accanto: «E' morto quell'infame che ha ammazzato Franco mio?» E quando seppe con certezza di aver ucciso Maurizio Proietti sorrise: «L'ho fatto secco l'infamone, l'ho fatto secco». Poi Colafigli spiegò che era stato Maurizio Proietti il primo a sparare: «Mi ha preso, e allora io gli ho scaricato addosso tutti i colpi che avevo». Un po' sembrava pieno di cocaina, e un po' si preparava a sostenere la parte

del pazzo. A Maurizio Abbatino, uno di quelli che l'aspettavano in macchina, «Marcellone» l'aveva confidato prima: «Se mi prendono comincio a dare di matto, dico che sento sempre la voce di un gatto che mi dice di vendicare Giuseppucci, e di sognarmi Maurizio Proietti sotto forma di un pesce». Ci riuscirà, e dall'accusa di omicidio sarà prosciolto per «totale infermità di mente». Nella strada del delitto, tra poliziotti e curiosi che commentavano che se c'erano di mezzo i Proietti voleva dire

che era «roba pesante, di mala grossa», c'era pure Giovanni, il vecchio padre. Lui stava seduto al bar quando cominciarono gli spari, e gli amici l'avevano trattenuto. Ma appena saputo della morte di Maurizio s'era lanciato tra la folla: «Datemeli, datemeli li vojo ammazzà!» S'era perfino aggrappato allo sportello aperto di una Volante per tentare di afferrare gli assassini di suo figlio. Riuscirono a portarlo via che si dimenava, bestemmiava e gridava vendetta. Il giorno dopo, ferito e

piantonato in ospedale, Antonio Mancini diede al fotografo di un giornale romano la sua spiegazione dell'omicidio, attribuendolo a questioni di gioco: «Io la gente dritta non la sopporto. Si vinceva ogni morte di papa e non pagava mai. Anche per mille lire non bisogna sgarrare. Mi voleva fregare, ero andato lì per parlare, però avevo la pistola sotto il cappotto. I Proietti? Non comandano nulla, contano solo perché sono molti». Poi, senza rinunciare alla spavalderia del killer-giustiziere, chiese al

fotografo che continuava a scattare: «Ma che foto vengono con quella macchina?» (8) Nell'elenco dei Proietti da eliminare ce n'era ancora uno, Fernando, «il pugile», che s'era salvato perché arrestato la sera stessa dell'omicidio Giuseppucci. Quelli della Magliana non l'avevano dimenticato. Anzi, tramite alcuni avvocati tentarono più volte di avere notizie sulla data di scarcerazione di «quell'infame». In galera c'era stato pure

qualche scontro tra «il pugile» e i componenti della banda. Una volta Proietti aveva picchiato un amico di «Renatino» De Pedis e Danilo Abbruciati. E in un'altra occasione, a Rebibbia, se l'era presa con l'assassino di suo fratello, Marcello Colafigli: gli si presentò davanti con un coltello, pronto a colpirlo, ma non fece in tempo perché fu bloccato da altre persone che avevano assistito alla scena. Erano episodi sufficienti, da soli, a decretare la morte di una persona, ma nel caso di

Fernando Proietti, sopravvissuto per quasi due anni al suo destino, si trattava solo di qualche altra goccia finita nel mare di odio che lo divideva dalla gang avversaria. E lui poteva già considerarsi un cadavere galleggiante in quel mare. «Il pugile» lasciò il carcere un giorno del 1982, e gli amici di Giuseppucci si misero subito a cercarlo. Lo scovò, dirà Abbatino, Giorgio Paradisi, quello che aveva assistito personalmente all'omicidio del «negro» a Trastevere,

nonostante ai carabinieri l'avesse negato. Era il 30 giugno, Paradisi vide Proietti a viale Marconi e corse ad avvisare gli amici che stavano lì vicino, al bar Fermi. Trovò Roberto Fittirillo, Edoardo Toscano e Maurizio Abbatino, il quale racconterà al magistrato come morì Fernando Proietti: «Dato che la notizia ci aveva colto di sorpresa, decidemmo di operare immediatamente, utilizzando la moto di Toscano, una Honda 750 rossa, alla cui guida si pose Roberto Fittirillo con il Toscano a bordo. Sul

luogo il Toscano si avvicinò a piedi al Proietti, contro il quale esplose dei colpi con una calibro 38, unica arma usata per l'occasione. Sul posto, oltre alla moto che restò in posizione defilata, sull'opposta carreggiata di viale Marconi, si trovava, a piedi, il Paradisi, mentre io ero rimasto ad attenderli al bar Fermi dove tornarono più tardi. Il Paradisi, tornato prima degli altri, mi informò che anche il Proietti era armato, ma non era riuscito a usare l'arma di cui disponeva».

Il conto di sangue tra la banda della Magliana e il clan dei «pesciaroli» s'era chiuso con cinque proiettili calibro 38/357 Magnum che avevano messo fine all'esistenza del «pugile». Ma c'era stato qualcun altro, in quel periodo, che se l'era presa coi Proietti, sparando sull'altro ramo della famiglia, quello di Enrico detto «er cane», ferito nella vendetta per l'omicidio di Giuseppucci ma poi abbandonato a se stesso e sopravvissuto alla carneficina.

I figli del «cane» erano rimasti invischiati in un traffico di droga che aveva i suoi terminali nelle bische clandestine di Ostia. Uno, Orazio, venne ferito pochi giorni prima del suo ventesimo compleanno, la sera del 31 ottobre 1980: gli spararono al Lido, lo colpirono a un braccio e si salvò. Qualche tempo dopo fu trovato morto per un'overdose di eroina. L'altro, Mariano, ventiquattro anni, lo ammazzarono a colpi di revolver in un circolo ricreativo di Ostia due anni più tardi, il 14

dicembre dell'82. Per polizia e carabinieri c'erano pochi dubbi, quelle due azioni rientravano nella rappresaglia scatenata contro i Proietti dagli amici di Franco Giuseppucci. Invece non era così, e il risultato di quelle due sparatorie fu un altro cadavere, trovato dentro un'auto sul lungotevere, dalle parti del cinodromo: il morto si chiamava Daniele Caruso, trentotto anni, nato a Torino e residente a Ostia Lido, sposato e padre di due figli, ex impiegato del catasto divenuto

trafficante di droga, precedenti penali per rapina e furto. Gli avevano tagliato la gola, finendolo con una dozzina di coltellate, condannato a morte perché colpevole dell'omicidio di Mariano Proietti. Ma per uno dei paradossi del crimine, a emettere il verdetto e giustiziarlo non furono quelli del clan Proietti, bensì i loro avversari e sterminatori: la banda della Magliana. L'omicidio del giovane Proietti, spiegherà Maurizio Abbatino dieci anni dopo, «ci disturbò alquanto, perché

avrebbe potuto essere ricollegato a noi in quanto già autori dell'attentato nei confronti del padre Enrico, e anche perché le caratteristiche fisiche dell'autore erano simili a quelle di Edoardo Toscano. Ci muovemmo per scoprire chi fosse l'autore, e attraverso informazioni che riuscimmo a raccogliere potemmo stabilire che il delitto era maturato nell'ambito del commercio di stupefacenti nella zona di Ostia, e che l'autore era stato appunto Caruso. Conseguentemente decidemmo

che quest'ultimo dovesse morire.» (10) La vittima fu portata al macello da un suo inconsapevole amico, al quale quelli della Magliana avevano proposto un incontro per trattare una partita di droga. I due arrivarono al bar di via Chiabrera la sera del 22 gennaio 1983, l'amico rimase a chiacchierare nel locale, Daniele Caruso invece fu invitato a fare un giro in macchina. Con lui salirono sulla Giulietta Edoardo Toscano e Claudio Sicilia, su una 127

rubata li seguirono Maurizio Abbatino e un altro della banda. Passò circa un'ora, e al bar tornarono, con la 127, soltanto Abbatino, Toscano e Sicilia; con loro avevano un fagotto, qualcosa che somigliava a un indumento sporco di sangue. Caruso non c'era e il suo amico, che senza saperlo l'aveva consegnato ai carnefici, chiese dove fosse finito. Per tutti rispose Edoardo Toscano, con un ghigno: «Se n'è ito», se n'è andato. L'amico insisteva, e Toscano provò a essere più chiaro: «L'abbiamo

parcheggiato». Prima avevano provato a strangolarlo, ma siccome quello si dimenava e non moriva, lo dovettero ammazzare a coltellate: avevano pensato a ogni evenienza, e s'erano portati un coltello da caccia, la lama lunga almeno venti centimetri. Non sarebbe stata un'esecuzione difficile visto che la vittima doveva essere attirata in una trappola, e non valeva la pena usare una pistola della quale poi avrebbero dovuto sbarazzarsi. Sarebbe stato uno spreco

inutile. L'esecuzione dell'ex impiegato del catasto precipitato nel gorgo della malavita è descritta nel racconto di Abbatino, reso ancora più gelido dal linguaggio dei verbali d'interrogatorio: «Giunti in una zona defilata, nei pressi del cinodromo, l'auto del Caruso si fermò, e Sicilia, munito di un filo elettrico o di una calza da donna, tentò lo strangolamento. Poiché si trattava di operazione difficile da eseguire stante la violenta reazione della vittima,

intervenne il Toscano, il quale finì il Caruso col coltello... Tornati al bar di via Chiabrera pensammo fosse il caso di distruggere la Fiat 127, pertanto incaricammo Claudio Sicilia e Gianfranco Sestili di incendiare la macchina». (11) «Delitto al cinodromo», titolò qualche giornale riportando la notizia della morte di Daniele Caruso. In realtà il cadavere era stato trovato a qualche centinaio di metri dalle piste per le corse dei cani, ma agli organizzatori delle gare cominciarono ad

arrivare telefonate allarmanti dei frequentatori. «Clienti abituali», si lamentò su un quotidiano il legale rappresentante del cinodromo, «telefonano chiedendoci se è il caso di frequentare ancora l'ambiente. Vorremmo ricordare che il cinodromo non ha niente a che fare con quel delitto, e che qui nulla è cambiato: i nostri cani, splendidi esemplari irlandesi, continuano a correre tre volte a settimana, nel pomeriggio.» (12) ***

4. POLVERE.

Il telegramma arrivò al braccio di G11 di Rebibbia, un giorno del 1980, indirizzato al detenuto Mohammed Kan, un arabo finito in carcere per traffico di droga. Era indirizzato a Kan, ma l'aspettavano in molti. Veniva dall'Olanda, era scritto in inglese: «Please, confirm if is only snow or even

the moth», pregasi confermare se è solo neve o anche fango. Una frase cifrata, evidentemente. Kan, con il telegramma in mano, andò dagli altri che lo aspettavano. «Vogliamo tutto, digli che mandi tutto», disse Nicolas Naja, venezuelano, un altro trafficante di droga finito in quella galera. O meglio, siccome quello era arabo e parlava solo arabo, Naja lo disse al detenuto-interprete, che lo riferì a Kan. Bisognava far partire il telegramma con la risposta,

destinazione Olanda, indirizzo: ambasciata del Pakistan presso i Paesi Bassi. Ci pensò l'interprete associato nell'affare, Pietro De Riz, in cella da qualche mese per una storia di passaporti e travellers' cheque falsi, una specie di mago della truffa e delle lingue, visto che ne parlava sei, arabo compreso. Scrisse il testo, «Serve sia la neve che il fango», e lo diede a Mario, un detenuto addetto alle cucine che lo consegnò all'agente di custodia giusto, quello di cui ci si poteva fidare perché era

stato «addomesticato». La corrispondenza cifrata andava e veniva così, senza problemi, in una delle galere più grandi d'Italia. Dall'ambasciata arrivò l'ultima conferma, e con essa il momento di far partire non più telegrammi ma persone per l'Olanda: c'era da ritirare la valigia con dentro mezzo chilo di eroina purissima, aveva assicurato Kan, duecentocinquanta grammi di "brown sugar", il «fango», e duecentocinquanta di polvere bianca, la «neve». Naja provò a

mandare la moglie, ma la donna si rifiutò. Serviva un'altra «corriera» - per questo genere di viaggi le donne funzionano sempre meglio degli uomini, pare che diano meno nell'occhio -, e la trovò il quarto detenuto venuto a conoscenza dell'operazione: Gianfranco Urbani, chiamato «er pantera» per l'aggressività che dimostrava, quello che fino a poco tempo prima organizzava le rapine agli uffici postali e ai treni insieme a Fulvio Lucidi e Nicolino Selis. Urbani risolse la questione

spedendo in Olanda una sua amica, una certa Maria Grazia, la quale partì per Amsterdam, si presentò al funzionario dell'ambasciata pakistana che era stato debitamente informato e ritirò la valigia. Kan aveva fornito al «pantera» anche la combinazione per aprire quel prezioso bagaglio, e tutto andò per il verso giusto. Tranne un piccolo particolare: al momento di aprire la valigia e tirar fuori la polvere dal doppiofondo, saltò fuori solo l'eroina bianca e non la "brown sugar", che costituiva l'aspetto

più allettante dell'affare. In carcere Urbani venne a saperlo, lo disse a Naja che, sempre tramite l'interprete De Riz, lo riferì a Kan. Il risultato fu che l'arabo - il quale aveva accettato di vendere la sua eroina sulla fiducia, senza anticipo perché gli avevano detto «prendere o lasciare, noi possiamo portare la roba in Italia e tu no», e lui non aveva nemmeno i soldi per l'avvocato - non venne pagato, mentre Urbani e Naja si tennero l'eroina. Kan provò a protestare ma non ottenne

nulla, e quando ci riprovò gli spiegarono che non solo mancava il «fango», ma la «neve» era pura solo al diciotto per cento, il resto era stricnina. Kan disse che non poteva essere, ma non era il caso di insistere troppo. Rimase senza una lira e con il dubbio che quei suoi «amici» lo avessero imbrogliato: del resto lui che ne sapeva? Tutte quelle cose le mandavano a dire quelli che stavano fuori, sia che mancava la "brown sugar" sia che era stata tagliata. Non potevano essersi inventati tutto per

fregarlo? Sì che potevano, ma lui non aveva modo di reagire. Solo più tardi, per farlo stare zitto e toglierselo dai piedi, all'arabo vennero dati mille dollari, a saldo dell'«operazione Pakistan», piccolo esempio di come si può gestire un traffico di droga da dietro le sbarre di un carcere. A raccontarla all'allora giudice istruttore Giovanni Falcone, nel 1983, fu il detenuto-interprete Pietro De Riz, che diventerà uno dei più importanti testimoni d'accusa al maxiprocesso di Palermo contro

Cosa Nostra. (1) In carcere Gianfranco Urbani detto «er pantera», nato a Roma nel 1938, era considerato da tutti come un padre. La sua cella era una sorta di ufficio del sindaco, lì arrivavano reclami e raccomandazioni, richieste e proposte e lui, «er pantera», cercava di accontentare tutti, di trovare sempre una soluzione. Tifosissimo della Roma, organizzava spesso tornei di calcio fra detenuti, un'attività che lo divertiva e gli serviva

per far incontrare le persone rinchiuse in bracci diversi e continuare a gestire i suoi affari. Perché a quelli, «er pantera» non aveva rinunciato. Giudici e investigatori lo conoscevano, oltre che come rapinatore, anche come amico dei calabresi arruolati della 'ndrangheta. Nel 1974 i carabinieri, messi sulle piste da alcune intercettazioni telefoniche, avevano interrotto a Roma una specie di «colazione di lavoro» che si stava svolgendo al ristorante Il Fungo dell'Eur, e identificarono

Gianfranco Urbani allo stesso tavolo con boss del calibro di Giuseppe Piromalli, Paolo De Stefano, Pasquale Condello. Insomma, era sospettato di essere uno degli «ambasciatori» della 'ndrangheta nella capitale. Sua sorella, Paola Urbani, era la convivente di quell'Antonio Sbriglione ucciso e bruciato in macchina nell'estate del 79, alla maniera del dottor Mottola. E per quell'omicidio «er pantera» meditava vendetta. «Mi disse che un gruppo di calabresi, e in

particolare la famiglia di Paolo De Stefano, gli aveva promesso di aiutarlo», riferirà ai giudici il suo amico Fulvio Lucioli. Dopo le rapine degli anni Settanta organizzate insieme a Lucioli e Selis, Urbani s'era avvicinato a quelli della banda della Magliana, i quali avevano capito quale gigantesco giro d'affari fosse il commercio di droga, e avevano deciso di prendere tutto quello che c'era da prendere, da tutti coloro che potevano offrire qualcosa. Anche in carcere. Fu Antonio Mancini a

proporre di arruolare «er pantera»: «Poiché a reggere le fila della costituenda organizzazione si riteneva necessario dovesse essere una persona di riconosciuto spessore criminale, ci si accordò nell'affidare tale ruolo a Gianfranco Urbani, su mio suggerimento. Da parte sua Urbani non volle assumere il ruolo che gli veniva proposto, ma piuttosto fu d'accordo nel dare la sua disponibilità per tutte quelle esigenze che potevano insorgere, quale ad esempio quella di risolvere

eventuali conflitti interni e quella di fungere da collegamento con le altre organizzazioni. Non fu un caso, pertanto, che allorché insorsero i contrasti tra la nostra organizzazione e Giuseppe Magliolo, dopo l'omicidio di Nicolino Selis, sia stato proprio Gianfranco a tentare, sia pure inutilmente, la mediazione. In altri termini, Gianfranco Urbani è più un uomo 'di parole' che 'di pistole'». (2) E Maurizio Abbatino spiegherà con grande chiarezza i motivi per cui l'organizzazione

che Selis stava mettendo in piedi si unì con il gruppo originario della Magliana: «Nicolino Selis, pur vantando considerevoli conoscenze nel mondo della malavita organizzata, disponeva tuttavia di una banda 'raccogliticcia'. Gianfranco Urbani, loro basista per le rapine e anche addentro al traffico degli stupefacenti, era all'epoca detenuto, così come Giovanni Girlando; Edoardo Toscano, al quale erano legati i fratelli Giuseppe e Vittorio Carnovale, suoi cognati, era stato scarcerato da

poco; Libero Mancone, tra una rapina e un'estorsione, insieme a Fulvio Lucidi e Roberto Frabetti, quest'ultimo titolare di una tintoria ad Acilia, provvedeva al sostentamento dei detenuti e delle loro famiglie così come Gianni Travaglini, il quale all'epoca gestiva una stentata attività di commercio d'auto. L'unione con la nostra banda, la quale era meglio organizzata ed efficiente, oltre che economicamente più solida, consentiva al Selis di sfruttare al meglio i canali che gli si

erano aperti durante le carcerazioni. D'altra parte gli stessi canali erano funzionali allo sviluppo della nostra banda, sicché non fu difficile trovare un accordo operativo per il traffico e il commercio degli stupefacenti su Roma». (3) Quando Pietro De Riz entrò a Rebibbia - ufficialmente faceva il direttore d'albergo, ma oltre alle truffe per cui era finito dentro aveva già alle spalle una condanna e un'evasione in Belgio, dove era stato arrestato con due chili di

cocaina -, gli unici a conoscerlo erano due boss delle cosche calabresi, Papalia e Trichilo, che lui aveva incontrato a Reggio Calabria. E Papalia aveva parlato di De Riz a Gianfranco Urbani. Radiocarcere diffuse la voce che era arrivato un nuovo detenuto «con buone referenze», soprattutto perché parlava un sacco di lingue, e dopo una decina di giorni nella cella di De Riz arrivò la visita del «pantera». Bastò un primo contatto per far avere al nuovo arrivato una cella singola - con

lui c'era prima un detenuto di colore, che venne fatto sloggiare -, il lavoro alla contabilità e l'opportunità di fare alcune commissioni nella cucina del carcere. La futura collaborazione con Urbani e poi con Nicolino Selis, che faceva avanti e indietro tra Rebibbia e i manicomi giudiziari, nacque così, con una visita in cella. Da quel giorno Pietro De Riz ebbe molto lavoro. Il libanese Jousef Hallak Ibrahim era arrivato a Rebibbia

da poco, e l'avevano messo in cella con Enrico Proietti, «er cane». Era finito «a bottega» per un traffico di droga, e quelli di Rebibbia vollero sapere che cosa trattava e che cosa poteva offrire. Nicolino Selis mandò De Riz in missione, e l'occasione per agganciare il trafficante la offrì il normale corso della giustizia. Hallak doveva essere interrogato dal sostituto procuratore Francesco Nitto Palma, e serviva un interprete dall'arabo. Di ufficiali non ce n'erano, e così venne chiamato De Riz, il quale nella saletta

degli interrogatori, prima che arrivasse il magistrato, parlò con il libanese e venne a sapere che aveva a disposizione quindici chili di eroina siriana. Per conto dei suoi mandanti De Riz disse che era interessato all'acquisto, ma che lui non doveva far sapere nulla al suo compagno di cella, il «nemico» Proietti. Poi arrivò il giudice, il colloquio tra i due detenuti si interruppe e De Riz spiegò che lui l'interprete non l'avrebbe fatto, perché non voleva collaborare nell'incolpare

qualcuno attraverso la partecipazione a un interrogatorio. Tanto quello che doveva sapere, ormai, l'aveva saputo. Dopo il primo contatto le trattative con Hallak proseguirono, i romani concordarono con il libanese il prezzo di quarantacinque milioni per ogni chilo di eroina. Dalla Siria, la «roba» veniva portata in Italia dalla moglie di Hallak, dal fratello e da altri corrieri, e consegnata a un emissario di Nicolino Selis, un certo Bruno di Primavalle, da

poco uscito di galera. Bruno, a sua volta, la consegnava a Lucioli e a Gianni «il roscio». Prendevano appuntamenti per la mattina presto, prima delle nove perché a quell'ora si sapeva che sarebbero cominciati i controlli di polizia e carabinieri sugli spacciatori; si incontravano in luoghi affollati, dove non avrebbero dato nell'occhio: per esempio ad Acilia, alle fermate delle corriere che trasportano i pendolari a Roma. Andarono avanti per un po', ma anche con Hallak ci furono problemi e

lamentele perché qualche partita venne giudicata poco genuina, il rischio che arrivasse eroina troppo tagliata c'era sempre. Il libanese continuò a lavorare nel traffico di droga, e negli anni a seguire è stato scoperto il suo coinvolgimento in altri scambi di eroina gestiti dalla camorra, dalla 'ndrangheta e dalla mafia. S'era trasferito a vivere dalle parti dell'aeroporto di Fiumicino, e da lì gestiva il traffico di polvere bianca controllando gli arrivi - tramite

il narcotrafficante turco Gopuroglu Halil e gli smistamenti agli emissari napoletani di Raffaele Cutolo, ai calabresi della cosca Rositano-Pesce e ai siciliani del clan Spadaro. Pietro De Riz parlava tante lingue, ma per scrivere in inglese aveva bisogno di aiuto. Stava ancora collaborando alla gestione del traffico di eroina messo in piedi con Hallak, quando chiese una consulenza su sintassi e ortografia proprio a un inglese finito anche lui a

Rebibbia per illeciti commerci, Alan Thomas. Doveva mandare una lettera per tranquillizzare gli amici del libanese, i quali si lamentavano perché i soldi non arrivavano. Lettera in codice, naturalmente. «Mi meraviglio», era il tono della lettera, «che la tua signora non abbia ricevuto il regalo che le è stato fatto. Se hai già avuto quarantacinque chili di grano, che ti importa di quindici grammi? Aspetta il prossimo raccolto, sarà più proficuo.» Quando la vide, Thomas capì

di che cosa si trattava, e chiese di entrare anche lui nel giro, visto che fuori dal carcere aveva conoscenze che potevano tornare utili a tutti. De Riz riferì a chi di dovere, e Urbani gli disse di stringere i contatti. Nel frattempo venne utilizzato come interprete per trattare con Thomas anche da un altro trafficante romano rinchiuso a Rebibbia, Roberto Masciarelli, e in questo modo l'inglese, dalla sua cella, si mise a gestire un doppio traffico di droga. La «roba» veniva comprata

e venduta fuori, ma finiva per entrare anche in carcere, per lo più con la compiacenza o la collaborazione diretta di guardie, assistenti sociali e una volta addirittura di un cappellano. Questo, al «pantera», non piaceva. Non voleva che nelle «sue» celle girassero eroina e cocaina, e siccome Nicolas Naja, in barba al divieto, ne distribuiva eccome, finì per cadere in disgrazia. Una volta poi la fece davvero grossa: non solo ricevette una partita di ben cinquanta grammi di cocaina,

ma pensò bene di non dividerla con gli altri. O meglio, decise di tagliarla e mettere in giro quella non più pura. Le lamentele arrivarono all'orecchio del «pantera», e si decise che quella Naja l'avrebbe pagata. Accadde un giorno che sembrava come tutti gli altri. Un gruppetto di detenuti consumò il pranzo nella cella di Urbani, come al solito, ma all'improvviso, mentre stavano lavando i piatti, uno ruppe una bottiglia, si avvicinò al venezuelano e con un pezzo di

vetro lo sfregiò sulla faccia. Nicolas Naja gridò e si ribellò, ma c'era poco da protestare. E quando le guardie gli chiesero che cosa era successo, lui «fu uomo», e non denunciò nessuno: disse che scivolando a terra era caduto su un pezzo di vetro. Una versione non solo falsa ma anche inverosimile, che però accontentò tutti e servì a evitare altri guai all'interno del carcere. Il giro dei trafficanti di droga è come una catena che non finisce mai: da un anello si

passa all'altro e poi all'altro ancora. Ognuno ne conosce di nuovi, li mette in contatto con i suoi acquirenti e la catena si allunga. In carcere Alan Thomas rivelò di poter agganciare un trafficante di Singapore, un certo Koh Bak Kin, piccolo di statura e con la passione per la pittura e per l'alcol, arrestato la prima volta a Fiumicino mentre tentava di far entrare in Italia venti chili di eroina, pressata e nascosta nelle cornici dei quadri che portava con sé. Thomas l'aveva conosciuto nel carcere di

Sulmona, ma poi Kin era stato liberato, e da Rebibbia l'inglese gli scrisse una lettera parlandogli di quei romani che aveva conosciuto in galera, disposti ad acquistare grossi quantitativi di polvere bianca: Urbani, Masciarelli, e l'«interprete» De Riz. Passò qualche mese e tutti questi personaggi si ritrovarono fuori di prigione, liberi: chi per scadenza dei termini di carcerazione preventiva, chi per la concessione della semilibertà, chi per riduzioni di pena. E fuori, passato un po' di

tempo, tutti cominciarono a cercare colui che un po' per le lingue che parlava e un po' per le conoscenze che aveva tra i falsari, era diventato il crocevia di ogni traffico: Pietro De Riz. Il primo a farsi vivo fu Thomas, che doveva tornare in Inghilterra e aveva bisogno di un passaporto. De Riz gliene procurò uno falso, e l'inglese gli confidò di essere rimasto in contatto con Masciarelli per alcune forniture di eroina. Poi telefonò «er pantera», e quello che successe De Riz lo raccontò al giudice Falcone: «Prima che

il Thomas partisse per l'Inghilterra, ricevetti a casa mia una telefonata di Gianfranco Urbani, il quale mi chiese di farlo mettere in contatto con Thomas stesso per una fornitura di eroina. Pur malvolentieri fui costretto ad accettare per evitare conseguenze a carico mio e della mia famiglia, ma non mancai di far presente al Thomas che era molto pericoloso fornire eroina a due acquirenti diversi sulla stessa piazza. Il Thomas mi disse che egli avrebbe mantenuto

contatti con Masciarelli, mentre io avrei avuto il compito di porre in contatto diretto Koh Bak Kin con Gianfranco Urbani. Durante questo periodo ebbi modo di vedere che Thomas e Masciarelli si incontrarono, in mia presenza, all'hotel Barberini di Roma. Si discusse la fornitura di ingenti quantitativi di droga e il Masciarelli disse che era disposto ad acquistare qualsiasi quantità, tanto che fu convenuto il prezzo di sessanta milioni al chilo. Egli avrebbe venduto la droga a centoventi

milioni al chilo, e il guadagno sarebbe stato diviso in parti uguali fra lui stesso e il Thomas. Quest'ultimo partì per l'Inghilterra e da lì mi telefonò a casa dicendomi di andare a prendere alla stazione Termini Koh Bak Kin, del quale mi descrisse le fattezze fisiche». (4) I due si incontrarono, il «cinese» aveva portato con sé dei quadri a olio dipinti da lui, e ne regalò qualcuno a De Riz: una specie di biglietto da visita, un omaggio e un augurio di buoni affari. L'«interprete» lo

accompagnò nella villa del «pantera» a Rocca Priora, sulle colline dei Castelli romani, e lì furono gettate le basi per i futuri traffici, nei quali sarebbero entrati anche quelli della banda della Magliana. Urbani, come Masciarelli, disse che lui e i suoi amici erano disposti ad acquistare qualsiasi quantità di eroina, e venne fissato il prezzo di cinquantacinque milioni al chilo; a pagare e riscuotere sarebbe stato De Riz. Passò qualche settimana, e a casa dell'«interprete» arrivò la

telefonata di uno che disse di chiamarsi Tony. «Sono a Roma», disse, «vieni a trovarmi all'hotel Traiano.» De Riz andò e si trovò davanti a due cinesi, i quali gli consegnarono lo scontrino di deposito di una valigia lasciata alla stazione Termini: dentro c'era un chilo di eroina. De Riz telefonò a Urbani, fissò un appuntamento e gli consegnò lo scontrino, il giorno dopo la valigia fu ritirata. «Er pantera» richiamò l'«interprete»: «L'indomani, in mia presenza, l'Urbani e la

sorella consegnarono ai due corrieri la somma di lire sessanta milioni in contanti, in banconote da cinquantamila e centomila lire, e regalarono a essi un milione e uguale cifra a me. L'Urbani disse che avrebbe rivenduto l'eroina per la somma di centodieci milioni, e che avrebbe ripartito il guadagno in tre parti uguali: una per sé, una per Lucidi Fulvio e la terza per il Thomas». Andarono avanti per un po' con De Riz che continuava a fare da tramite per i rifornimenti destinati sia a

Urbani che alla banda di Masciarelli, in cambio di buoni guadagni - in gergo venivano chiamati «lo sgobbo» -, qualche apprensione e molti rischi. Teneva i contatti con Koh Bak Kin, si incontravano spesso per stabilire quantità di droga da importare, prezzi e modalità di consegna. Possibilmente in luoghi affollati. Avevano i loro ristoranti abituali - una sera si trovarono a cenare gomito a gomito con una tavolata di poliziotti che discutevano di un'operazione antidroga -, i loro locali. Quando potevano si

vedevano da Babington, a piazza di Spagna, fra turisti americani e giapponesi. Oppure nei night intorno a via Veneto, dove in una sera Kin era capace di scolarsi da solo una bottiglia di cognac, marca Napoléon, la sua preferita. Ma all'improvviso Kin sparì dalla circolazione, e Thomas dovette rientrare a Roma dall'Inghilterra per andarlo a cercare in Thailandia. L'inglese ritornò dopo poco tempo, portandosi dietro Koh Bak Kin, otto suoi amici cinesi e due chili di eroina: uno fu consegnato a

Masciarelli e l'altro a Urbani. Disse che c'erano altri dieci chili a disposizione a Copenaghen, ma nessuno dei due acquirenti romani fu disposto ad anticipare la cifra necessaria per la spedizione. Finì che Thomas, Kin ed Enzo, un amico di De Riz arruolato per le consegne di «roba», partirono per la Danimarca e tornarono con l'eroina. Del nuovo carico, il «cinese» ne destinò quasi tre chili al «pantera», il quale la fece ritirare da un certo Antonio Boccarusso, che presi i tre

pacchetti di polvere, li infilò nel tascapane e si recò all'appuntamento con i nuovi amici di Gianfranco Urbani ai quali doveva andare l'eroina: Edoardo Toscano e Maurizio Abbatino. Ma arrivò in ritardo, e fu intercettato da una pattuglia di carabinieri. Boccarusso tentò la fuga, cominciò una caccia all'uomo che si concluse con gli spari dei militari e la morte del trafficante. Gli «incidenti di percorso» e i ritardi nei pagamenti cominciarono a diventare

sempre più frequenti, e Koh Bak Kin se ne lamentò con i romani. Anche perché, contemporaneamente, aveva aperto un canale di approvvigionamento di eroina per i mafiosi siciliani che s'erano rivelati clienti molto più affidabili: ritiravano quantitativi più grossi e pagavano puntualmente la merce, in Svizzera, a prezzi più alti. In pochi mesi Kin aveva consegnato ai trafficanti di Cosa Nostra duecentottanta chili di droga. Così, verso la fine del 1982,

quando De Riz gli propose di mettersi nuovamente in contatto con Urbani che voleva comprare altra «roba», il «cinese» disse che avrebbe trattato personalmente con quelle persone. Koh Bak Kin e il «pantera» ebbero altri incontri nella villa di Rocca Priora, e una volta De Riz organizzò una riunione, ad Acilia, tra il «cinese», due suoi amici dalla pelle gialla e gli occhi a mandorla che dissero di chiamarsi Lam e Yueng, il «pantera» e gli altri della Magliana: Edoardo Toscano,

Maurizio Abbatino, Giovanni Girlando. «Tutti costoro», raccontò a Falcone l'«interprete», che nel frattempo era diventato un informatore della Squadra Narcotici della Questura di Roma, e aveva fatto fotografare gli incontri tra Kin e Urbani a Rocca Priora, «erano interessati alla fornitura di eroina da parte del Kin. Ho appreso che Kin aveva consegnato all'Urbani 1,800 chili di eroina. Preciso che aveva fatto venire dalla Thailandia due valigie, rispettivamente con chili 1,800

e 2,300, e che la seconda partita era destinata in Olanda. Tuttavia le due valigie erano state scambiate, per cui in Olanda era giunta una partita di chili 1,800 e non di chili 2,300. Urbani invece sostenne non solo di aver ricevuto chili 1,800 e non 2,300, ma che si trattava di una partita di pessima qualità, sforzandosi di far convincere personalmente il Kin con un'analisi davanti a lui, alla presenza mia e anche di Abbatino, Toscano, Girlando, Yueng e Lam. A questo punto Kin insistette perché l'Urbani si

tenesse l'eroina e pagasse un prezzo inferiore, ma l'Urbani, istigato dagli altri, si rimise al giudizio dei suoi soci che si rifiutarono di tenere la roba. Sono sicuro che si trattava di una manovra di Girlando Giovanni in combutta con Nicolas Naja, i quali in quel periodo lavoravano con un siriano a nome Gerek Mohammed, e in siffatta maniera intendevano estromettere dal traffico Gianfranco Urbani.» Il

primo canale

che

fece

arrivare l'eroina alla banda della Magliana, secondo la ricostruzione che farà Abbatino alla magistratura, fu quello aperto da due trafficanti siciliani, Angelo Nicolini e Giacinto Misuraca. Alla cocaina pensavano invece due cileni, Manuel Fuentes Cancino e Arturo Caceres, che lavoravano in società, giunti in Italia infiltrandosi tra gli esuli arrivati dopo il 1973, all'indomani del golpe del generale Pinochet. Poi c'era la «roba» procurata da Fulvio Lucioli tramite un certo Alessandro, occupazione

ufficiale coltivatore di noccioline a Soriano nel Cimino. Altri affari vennero fatti ancora con Nicolas Naja, il quale con i soldi del traffico s'era comprato una RollsRoyce, e che in una sola volta procurò ad Abbatino e soci cento chili di «fumo». Lo stesso Naja finì per mettersi in società con Fuentes Cancino, e insieme avviarono un rifornimento di eroina e cocaina dalla Francia: la droga arrivava a bordo di automobili su cui era stato costruito un apposito doppiofondo.

All'interno della banda c'era chi si doveva occupare di curare i vecchi canali e trovarne di nuovi e chi, invece, di piazzare la «roba» sul mercato. Maurizio Abbatino aveva questo compito: «Io, Toscano, Colafigli, Picone, Mastropietro, Giuseppucci, Castelletti, Danesi e lo stesso Paradisi, il quale si occupava pure della custodia e della commercializzazione, battevamo la piazza per imporre il nostro prodotto agli spacciatori, promettendo e garantendo loro la protezione

nei confronti dei precedenti fornitori. In altri termini mettevamo la concorrenza nelle condizioni di non poter più operare se non facendo capo a noi». (7) Dallo spaccio al minuto, invece, rimanevano fuori; lo controllavano, ma stando sempre attenti a non esserne coinvolti. I soldi avevano preso ormai l'aspetto della polvere bianca, s'erano aperte fonti di guadagno che sembravano non dovessero mai esaurirsi: «Via via che la nostra organizzazione si annetteva

sempre più vaste fette di mercato, la stessa si allargava a seguito delle scarcerazioni di Enrico De Pedis, amico sia mio che di Giuseppucci, e di Raffaele Pernasetti, i quali ne entrarono a far parte a pieno titolo, apportando nuovi canali di approvvigionamento che consentivano di soddisfare le esigenze di conservazione del mercato acquisito e di ulteriori ampliamenti di attività. Amico del De Pedis era Danilo Abbruciati, il quale consentì di prendere contatto con fornitori del calibro di Stefano Bontade e

Pippo Calò... «Nel gruppo che ho chiamato dei 'testaccini' (De Pedis e i suoi amici, N.d.A.) gravitava con un certo peso decisionale Ettore Maragnoli, il quale aveva anch'egli contatti operativi nel settore degli stupefacenti con gruppi pugliesi, in particolare baresi, aperti durante un periodo di comune detenzione con tal 'Ziffolino' o 'Zinfolino', nel carcere di Rebibbia... Gli appoggi per la commercializzazione venivano offerti ai 'testaccini' da Antonio

Ripini, il quale curava per loro conto la custodia e gli spostamenti dello stupefacente, e da Giuseppe Scimone, il quale aveva entrature nel mondo dello spettacolo, ambiente particolarmente interessato alla cocaina». (8) Nulla era lasciato al caso, ognuno aveva il suo spicchio di città da controllare. Dal bar di via Chiabrera, Claudio Sicilia vedeva e controllava tutto, ritagliandosi uno spazio anche per lui. E da trafficante pentito racconterà ai magistrati com'era suddivisa la fornitura

della droga a Roma all'inizio degli anni Ottanta, una vera e propria mappa della morte distribuita in polvere: «Abbatino e Colafigli controllavano la zona della Magliana e di San Paolo, e nell'81-'82 cominciarono a effettuare qualche vendita ai Ponti; Danesi e Mastropietro controllavano il Trullo; Castelletti la zona dei Colli Portuensi; De Angelis, Toscano, Carnovale e Fittirillo la zona Tufello-Val Melaina; Picone aveva una piccola attività di spaccio in viale Marconi e alla

Magliana; Sestili aiutava, ma non in maniera determinante, l'attività di Colafigli e di Abbatino. Il gruppo Giuseppucci, De Pedis, Pernasetti, Abbruciati, eccetera aveva la zona TestaccioOstiense, la Maranella e Ostia». (9) La suddivisione del territorio era molto rigida, e gli stessi organizzatori del traffico di droga dovevano fare attenzione a non sgarrare. A Fabiola Moretti, la principale figura femminile della banda, Abbruciati aveva assegnato la

zona di Trastevere, una delle più fertili per lo spaccio di eroina. «Una volta che io sconfinai effettuando una distribuzione alla Garbatella», ha rivelato la donna, «territorio assegnato a Manlio Vitale e altri, Danilo si arrabbiò molto con me. A suo dire lo avevo messo in grosse difficoltà avendo egli dovuto dare al Vitale, personaggio di notevole prestigio nell'ambiente malavitoso, spiegazioni circa lo sconfinamento; aveva faticato a convincerlo che era stata una cosa del tutto accidentale e non

il sintomo di una volontà di sottrarci al rispetto delle regole.» (10) «Roma è nelle nostre mani», si dicevano l'un l'altro i nuovi boss, spavaldi e col sorriso sulle labbra, interessati solo ad allargare il controllo sulla città e a entrare in nuovi affari, incuranti di chi ci fosse dietro. La droga poteva arrivare e andare indifferentemente a uomini della mafia, della camorra, della 'ndrangheta, dell'eversione nera, di organizzazioni mediorientali. Agli ex rapinatori cresciuti nelle

«batterie» di quartiere, passati al giro più grosso delle bische e delle scommesse clandestine e diventati in pochi anni impresari di morte attraverso il traffico di droga, non interessava servire ed essere serviti da questa o quella banda. L'unico obiettivo era sapere tutto, poter scegliere i canali di rifornimento più convenienti e guadagnare tanti soldi: gli utili - decine e decine di milioni che entravano in cassa ogni settimana - venivano distribuiti «a stecca para», cioè in parti

uguali anche con quelli che di tanto in tanto finivano in galera. Ma bisognava avere l'accortezza di evitare i cattivi affari e le fregature, sempre in agguato. Su questo terreno tentavano di giocare d'anticipo. Per provare la qualità di una partita di eroina, per esempio, di solito chiamavano un tossicodipendente della zona, rimediato al bar o da qualche altra parte, e gli consegnavano una dose da iniettarsi subito. Poi stavano a guardare che effetto faceva. Anche l'universo del livello

inferiore, quello degli spacciatori di strada, era sotto controllo. E se qualcuno «sgarrava» c'era pronto un gruppetto di persone addestrato a risolvere ogni controversia con la violenza; li chiamavano i «drizzatorti». Uno di questi, Antonio Mancini, ha spiegato che ottenere la «collaborazione» degli spacciatori era piuttosto semplice: «Si faceva loro una proposta che non potevano rifiutare, di prendere la droga da noi o tramite noi; accettando, entravano

automaticamente a far parte del nostro gruppo. Nessuno si rifiutò mai di accedere alle nostre proposte, in quanto se fosse accaduto il riluttante era un uomo morto». (11) Una volta i «testaccini» dovettero partire per una spedizione punitiva contro i Femia, una famiglia di calabresi trapiantati a Roma e che per la banda della Magliana costituiva uno dei tramite con i boss della 'ndrangheta legati ai clan di Mammoliti e Piromalli. Gestivano una pizzeria a

Primavalle, i Femia, e commerciavano droga con il gruppo di De Pedis e Abbruciati. Per poi spacciarla al minuto nelle strade della borgata. Capitò che i calabresi tentarono di imbrogliare i romani: una partita di droga ceduta dai Femia, anziché eroina, si rivelò un prodotto per la cura dei capelli. De Pedis e i suoi partirono immediatamente alla volta di Primavalle, ma il regolamento di conti fu rinviato a un incontro successivo, stavolta in una zona controllata dai loro amici, a viale Marconi.

Per salvarsi i calabresi dovevano consegnare subito l'eroina, ma quelli dissero che non potevano, il fornitore che aveva consegnato la merce ormai non era più rintracciabile. Insomma, fecero la parte di quelli che a loro volta erano stati truffati: se la cavarono con una scarica di botte. Anche a Ostia i «drizzatorti» avevano un bel daffare, perché in quella zona arrivavano spesso spacciatori che compravano la droga da altri fornitori e non ne volevano

sapere di sottomettersi a quelli della Magliana. Un certo Maurizio, uno che aveva una tintoria ma che guadagnava di più spacciando eroina, non solo si riforniva da altri, ma andava a dire in giro che la sua «roba» era migliore di quella procurata dalla gang della Magliana. Lo individuarono in pochi giorni, e quella sera di fine '82, sul lungomare, se la vide davvero brutta. Si presentarono a casa sua in tre: Gianni «il roscio» e i due amici inseparabili, Toscano e Abbatino. Presero Maurizio, lo trascinarono in macchina e

guidarono fino alla spiaggia. Erano tutti armati, ma Maurizio provò a far vedere che non aveva paura e si mise a insultarli. Quelli per tutta risposta lo picchiarono, poi lo fecero inginocchiare con le mani dietro la schiena, la faccia rivolta verso il mare e le spalle verso di loro. La scena era pronta per l'esecuzione, pochi secondi e sarebbe arrivato il colpo di pistola alla nuca. Invece fecero un'altra cosa: si sbottonarono i pantaloni e cominciarono a orinare su quello spacciatore che non

voleva comprare la loro droga. Risero mentre lo facevano e risero quando lo raccontarono agli amici; da allora quel «lavandaio» che spacciava droga fu soprannominato «il piscione». A Ostia e ad Acilia, un po' quartieri residenziali e un po' borgate del litorale che si riempiono d'estate ma in cui la criminalità fa affari anche d'inverno, uno dei principali fornitori di polvere era Fulvio Lucioli. Lo chiamavano «il sorcio», per la sua capacità di

rosicchiare dovunque ci fosse da prendere e da guadagnare qualcosa. Dopo qualche tempo Lucioli riuscì a organizzare le cose in modo da non incontrare quasi mai gli acquirenti che avrebbero spacciato la droga al minuto. Per ridurre i rischi al minimo aveva assoldato dei collaboratori, i quali andavano a ritirare i carichi di eroina o cocaina dai commercianti all'ingrosso, per esempio quell'Alessandro che coltivava noccioline nel viterbese; altri invece erano incaricati di sistemare la «roba» nei luoghi

dove gli spacciatori l'avrebbero presa in consegna. Lui si limitava a fissare gli appuntamenti e riscuotere i soldi. Anche per conservare la droga erano state assunte delle persone estranee al giro, quindi sconosciute a polizia e carabinieri e difficilmente individuabili. Fra gli altri, Lucioli aveva preso con sé due impiegati della Sip. Uno era scapolo e proprietario di una garçonnière a Ostia, l'altro si chiamava Mario. Giravano quasi sempre insieme, sul

furgoncino della società dei telefoni, e si occupavano delle riparazioni sul litorale, proprio tra Ostia e Acilia. Solo che oltre ai cavi telefonici e agli attrezzi per il loro lavoro, di tanto in tanto capitava che trasportassero su quel furgone anche eroina e cocaina. Lo scapolo custodiva la droga nella garçonnière, e quando gli arrivava qualche richiesta Lucioli lo avvisava: mai per telefono, sempre al primo incontro utile. Gli comunicava la quantità da consegnare e il grado di

intervento sulla polvere, nel senso che la droga custodita era pura, e bisognava tagliarla a seconda delle necessità e delle richieste. Lo scapolo provvedeva al peso e al taglio, poi la dava a Mario che con il furgoncino della Sip la portava sul luogo delle consegne: una stradina di campagna, non lontana dal loro ufficio. C'erano tre alberi, tagliati a circa due metri d'altezza, con il tronco scavato internamente. Le bustine di polvere venivano abbandonate lì, gli spacciatori dovevano solo passare a

ritirarle. Per questo lavoro i due impiegati della Sip ricevevano uno «stipendio» di un milione al mese; le cose erano organizzate in modo che tra loro e gli spacciatori non avvenisse mai alcun contatto. Ci fu anche chi si preoccupò di rivendere la droga all'estero. L'ha raccontato Claudio Sicilia, riportando le confidenze che gli fece Gianfranco Sestili, uno legato al gruppo di De Pedis e Abbruciati. Una storia semplice, ma che contiene in nuce metodi

e risvolti del grande traffico internazionale, oltre a sistemi di pagamento che ricordano, per esempio, quelli usati dai signori di Tangentopoli. «Sestili mi disse», ha rivelato Sicilia, «che era in atto già da qualche tempo un traffico di cocaina tra l'Italia e l'Inghilterra. Partecipanti a questa attività erano, oltre a Sestili, Corrado Sofia, destinatario dello stupefacente in Inghilterra, e tale Sellia Barreto Cherenco, che effettuava i trasporti dall'Italia all'Inghilterra. La Sellia

lavorava all'ambasciata del Brasile in Inghilterra, e successivamente fu trasferita all'ambasciata brasiliana a Roma, in piazza Navona. So che la Sellia era stata fidanzata in Inghilterra con un ragazzo che venne tratto in arresto per traffico di cocaina. In Italia la Sellia ebbe una relazione con Francesco Sestili, dal quale ebbe anche una figlia. «Il traffico si svolgeva in questa maniera: Sestili consegnava alla Sellia cocaina pura per un quantitativo di duecento grammi per volta; la

ragazza effettuava frequenti viaggi in Inghilterra trasportando lo stupefacente che occultava nelle parti intime; giunta in Inghilterra, lo consegnava personalmente a Sofia. I pagamenti avvenivano a mezzo rimessa bancaria, e a volte in denaro liquido; le rimesse bancarie, delle quali io ho visto una copia per una cifra di tremila dollari, venivano fatte da Sofia alla Sellia Barreto. La rimessa bancaria era domiciliata presso l'ambasciata brasiliana a Roma. Mi venne detto, inoltre, che i

soldi venivano poi trasferiti su un conto in Svizzera, dove abitava la madre della Barreto; conti intestati, in firma disgiunta, alla Barreto e a Sestili. «Il traffico è andato avanti fino alla fine del 1982. Sofia restò debitore, nei riguardi di Sestili, di quattro milioni di lire, in quanto Sofia aveva comperato per Sestili, con i soldi della cocaina, un complesso di videoregistratore e telecamera che venne rubato in Inghilterra.» (12)

***

5. BULLI, PUPE E AFFARI SPORCHI.

Prima andava in giro con una BMW 316, poi con una Golf G.T. di quelle decappottabili, dopo s'era comprato una Mercedes 200 rossa fiammante. Aveva anche due moto, due Kawasaki 1300, una rossa e l'altra nera, che gli aveva venduto Libero Mancone, motociclista esperto e

spericolato. E portava vestiti firmati, oltre al solito Rolex d'oro, braccialetti e catenine. Per sé, la moglie e i bambini s'era fatto costruire una villa all'Axa, un complesso residenziale dove si respira aria di mare, sul litorale a sud di Roma, dopo quello lussuoso di Casalpalocco e prima di Acilia, zona troppo popolare per chi vuole ostentare ricchezza e benessere. La polizia gli stava alle calcagna, ogni tanto lo interrogava, in seguito a controlli occasionali oppure con

iniziative mirate, per tentare di incastrarlo: si sapeva che era uno dei terminali del traffico di droga a Roma, ma le prove erano sempre troppo poche. Eppure, dal '79 in poi, Maurizio Abbatino - per qualche amico «crispino» a causa dei capelli scuri e crespi - entrava e usciva dal carcere con una certa frequenza. A Regina Coeli e Rebibbia ormai lo conoscevano bene, procedimenti penali su di lui e i suoi amici della Magliana venivano aperti in continuazione, ma non si riusciva mai a «stringere», e

quelli continuavano indisturbati nei loro affari. Pochi giorni prima che gli venisse notificato un nuovo mandato di cattura, nel maggio dell'83, un giudice provò a fargli dire qualcosa giocando la carta dei soldi. Com'era possibile che lui, Abbatino Maurizio, ventinove anni ancora da compiere, senza fissa occupazione, avesse tutti quei soldi, disponesse di case e macchine di lusso? Forse fu ingenuo il giudice a credere che quel ragazzo magro e dal viso già consumato avrebbe

confessato chissà che cosa, o forse, invece, si aspettava una bugia per risposta e voleva semplicemente vedere che cosa si sarebbe inventato. Fatto sta che «crispino», con la faccia un po' seria e un po' strafottente del gangster che si sente sicuro e si diverte a prendere in giro chi lo ascolta, rispose: «Signor giudice, in questi anni mi sono procurato da vivere con un'attività di vendita ambulante di oggetti religiosi». Un'invenzione perfino divertente, come dovette ammettere, un anno e mezzo

più tardi, anche il pubblico ministero: «Parole che se non fossero pronunciate da una persona che ha commesso omicidi e tentati omicidi farebbero quanto meno sorridere». Ma poi il magistrato concludeva amaro: «Parole che dimostrano come da anni Abbatino Maurizio e il suo gruppo siano abituati a prendere in giro la giustizia». (1) E non prendeva in giro solo la giustizia, Abbatino. Per arrotondare le entrate e crearsi un alibi finanziario (forse era

evidente anche a lui che la storia del venditore ambulante avrebbe retto poco), si fece gioco pure della burocrazia. Con la complicità di un paio di persone influenti nel giro delle cliniche, riuscì a raccogliere una falsa documentazione e certificati medici contraffatti che gli servirono a chiedere e ottenere il riconoscimento di totale invalidità civile: fu dichiarato malato mentale bisognoso di accompagnamento, e grazie a questo, ottenne una pensione dallo Stato.

Sui soldi, sui milioni e i beni di lusso che circolavano tra quelli della Magliana, del Testaccio e delle altre zone in cui la banda aveva prosperato, le giustificazioni che poliziotti e magistrati si sentivano ripetere erano quasi tutte del tipo di quella di Abbatino. Una volta successe che Enrico De Pedis, «Renatino», fu fermato casualmente mentre andava in giro con la sua Lancia Delta nera, per un normale controllo. Nella macchina i poliziotti trovarono svariati milioni. Chiesero a «Renatino» di chi

fossero e da dove venissero, lui farfugliò qualcosa, ma non diede una spiegazione credibile. Si beccò una denuncia a piede libero per «possesso ingiustificato di valori», e quando gli fu chiesto quali fossero le sue proprietà e di che cosa vivesse, lui, senza scomporsi neanche un po', rispose: «Sono nullatenente, e per il mio mantenimento usufruisco di saltuari aiuti economici da parte di mia madre, Proietti Eda». (2) Sempre la stessa storia, insomma, tutti che vivevano

alla giornata, con guadagni stentati e sporadici. Eppure davanti al bar di via Chiabrera c'era un viavai di macchine di lusso che faceva impressione, e che strideva in maniera evidente con quella strada periferica e non certo ricca, tra due ali di palazzi vecchi e altissimi, tutti uguali, tristi e con i muri scrostati, alveari di cemento colorati solo dai panni stesi alle finestre e dai fiori esposti su qualche balconcino. I «bravi ragazzi» arrivavano su auto di grossa cilindrata, esibendo il più classico degli

status symbol: della ricchezza, ma anche della potenza e della rispettabilità per chi vuole farsi strada nel mondo della malavita. A parte Abbatino e De Pedis, Danilo Abbruciati si presentava con una BMW 323 color marroncino metallizzato, che dopo un po' regalò a un trafficante di droga cileno; Franco Giuseppucci aveva anche lui una 323, però celeste, poi una BMW 320 nera e un'altra auto della stessa marca, che la polizia gli sequestrò pochi giorni prima

che venisse ammazzato. Dalla lista che Claudio Sicilia fece al magistrato sembra che ci fosse una generale preferenza per le BMW, ma c'era pure chi arrivava in Ferrari, su una Mercedes, con una Volvo o una Jaguar. E poi rombavano le moto, quasi sempre Kawasaki. «Tutte queste macchine», raccontò Sicilia, «so che venivano rifornite da un autosalone di Vitinia, di proprietà di Gianni Travaglini.» (3) Ma non di sole macchine era fatta la «bella vita» dei nuovi

gangster; come si addice al ruolo, c'erano anche le donne e i piaceri della carne da coltivare, il più delle volte conditi da abbondanti dosi di cocaina. Una volta Sicilia - che spendeva in «accompagnatrici» buona parte di ciò che guadagnava - arrivò in un appartamento di Acilia dove trovò Edoardo Toscano e altri due latitanti in compagnia di tre ragazze, una delle quali lavorava nello studio di un avvocato conosciuto da quelli della banda. «Mi resi conto che tutte le persone che stavano

all'interno dell'appartamento avevano fatto o stavano facendo uso di cocaina. Le ragazze erano nude, si era trattato di un festino.» (4) Per tirare la cocaina qualcuno utilizzava delle cannucce dorate che portava appese al collo, sempre pronte all'uso, le chiamavano «pippotti». E spesso venivano utilizzate in un ristorante alla moda di Trastevere, tra i più frequentati dai nuovi gangster. Lì si mangiava e si beveva, ma non si pagava mai: in cambio delle cene il proprietario,

cocainomane, riceveva la polvere bianca. E a volte si univa ai suoi ospiti, quando gli altri avventori se n'erano andati o dopo la chiusura del ristorante, tutti intorno allo stesso tavolo per un buon digestivo a base di cocaina. Era proprio la «neve» la fonte di quel livello di vita e di tutti i guadagni che venivano maldestramente giustificati con la vendita di oggetti religiosi o benevoli aiuti materni. E per difenderla, per garantirsi il controllo del mercato, i «bravi ragazzi» non si facevano

scrupoli: quando c'era da ammazzare, ammazzavano. Che dietro quella porta a vetri che dava direttamente sulla strada - al numero 9 di via Capraia, quartiere quasi borgata del Tufello - ci fosse un circolo ricreativo, lo diceva un cartello di cartone un po' ingiallito, dove era scritto «Dopolavoro Enal». Varcata la porta, c'era subito un altro avviso: «Ingresso riservato ai soli soci». Dentro, il bancone di un bar, un tavolo da biliardo, qualche flipper, sedie e tavolini

con ripiani di fòrmica e zampe di ferro. In un'altra stanza, separata dalla sala giochi e con tutt'altro genere di frequentatori, c'era la sede di un pretenzioso «Circolo Monarchico Nazionale». Era la sera del 23 febbraio 1982, martedì grasso. Ma nonostante il carnevale, al «Dopolavoro» non c'erano festoni, né un clima di particolare euforia. Alla spicciolata arrivarono i soliti frequentatori, signori anziani ma anche giovanotti del quartiere che passavano le

serate tra carte, amici e un po' di alcol. Poco dopo le diciotto giunse anche Claudio Vannicola, che tutti chiamavano «la scimmia» a causa del suo aspetto, trentatré anni e nessun impiego ufficiale, un certificato penale piuttosto nutrito di procedimenti pendenti, camicia di seta fatta su misura, scarpe di camoscio, sciarpa firmata da Yves SaintLaurent. La «scimmia» era conosciuto al circolo, abitava un paio di strade più in là e si presentava quasi tutte le sere per giocare a

poker. Ma era conosciuto anche dalla polizia e dalle guardie carcerarie, che l'avevano ospitato più di una volta. Nel corso degli anni gli erano piovute addosso molte accuse, dall'associazione per delinquere al favoreggiamento, ed era stato diffidato in quanto individuo «socialmente pericoloso». Adesso Vannicola era in libertà provvisoria, in attesa di un processo. Lo accusavano di aver preso parte al sequestro di Barbara Piattelli, una ragazza che aveva trascorso tutto il 1980 in mano

ai banditi, rapita il 10 gennaio a Roma e rilasciata il 17 dicembre in Calabria, dopo che la sua famiglia aveva pagato un miliardo di riscatto. E dicevano che in precedenza aveva collaborato con la banda dei Marsigliesi. Amico di Vannicola era stato Francis Turatello, il bandito milanese che da quasi un anno, ormai, era morto, squartato in carcere da un gruppo di camorristi. Un altro suo amico, Raffaele Di Chio, nome di spicco nella mala romana, era stato assassinato un paio di

anni prima. Da qualche tempo, secondo la polizia, la «scimmia» aveva cambiato «lavoro»: non si occupava più di sequestri, ma di traffico di droga. «Ciao Claudio.» «Ciao. Dove sono gli altri?» «Di là.» Vannicola, dopo aver salutato il barista e chiesto notizie dei suoi amici, superò alcuni pannelli di legno e andò nella «saletta riservata» del circolo, dove altre persone stavano chiacchierando e giocando. «Ciao Claudio.» «Ciao.» Ancora saluti, poi la «scimmia» e altri

tre si misero intorno a un tavolo e cominciarono a giocare a poker. Fuori dal locale, intorno alle diciotto e quarantacinque, si fermò una Giulia marrone. Scesero tre persone, una quarta rimase al volante. Tre figuri mascherati, dietro quelle facce di cartone rette da un elastico che si comprano in cartoleria. Uno aveva il volto di Paperino, altri due il pizzetto, le corna e il cappuccio da diavolo. Entrarono spediti nel locale, e chi stava giocando a flipper o bevendo qualcosa al

bar sorrise nel vedere quei tipi mascherati e stravaganti. Ma quelli non si fermarono a scherzare né a farsi ammirare, tirarono dritti oltre il séparé di compensato, e comparvero improvvisamente davanti a Vannicola e agli altri che stavano giocando a poker. Nelle mani di Paperino, da sotto il cappotto, saltò fuori un fucile a canne mozze, in quelle di uno dei due diavoli una pistola. Quello col fucile sparò un colpo solo, dalla pistola partirono tre proiettili: Claudio Vannicola fece in tempo ad

alzarsi, ma indietreggiando finì in un angolo, alzò le braccia come a voler fermare i suoi assassini, ma un attimo dopo si abbatté sul pavimento, ucciso da un colpo in faccia e uno al torace. I tre killer in maschera uscirono di corsa, s'infilarono nella Giulia e scomparvero. «La polizia ritiene che si tratti di un regolamento di conti negli ambienti della malavita romana», scrissero i quotidiani del giorno dopo. Quattro anni e mezzo più tardi Claudio Sicilia spiegò ai giudici che «la

scimmia» era stata uccisa da Edoardo Toscano e altri tre del «giro» della Magliana che gestivano lo spaccio di droga al Tufello e a Val Melaina: «Nella stessa zona operava il Vannicola, che disponeva tra l'altro di una eroina di qualità migliore di quella del gruppo ora indicato. Per questa ragione di 'concorrenza' venne decisa l'eliminazione del Vannicola... Mi venne riferito che gli autori dell'omicidio erano entrati nell'esercizio pubblico con il volto travisato forse da una maschera di carnevale». Ma

ammazzare Vannicola non era sufficiente. Per essere sicuri di aver spazzato via la concorrenza, bisognava eliminare anche un certo Fausto, socio della «scimmia» nel traffico di eroina. Toscano e gli altri organizzarono con lui un incontro al Gianicolo, lì l'avrebbero ucciso. Le cose, però, andarono diversamente da come avevano previsto quelli della Magliana. Fausto aveva sentito puzza di bruciato, e s'era presentato all'appuntamento sotto la statua di Garibaldi

accompagnato da alcuni amici, una decina di persone. Toscano, Danilo Abbruciati e gli altri rimasero interdetti, non potevano far fuori tutta quella gente né portare via la vittima designata sotto gli occhi di tanti testimoni. Così l'esecuzione venne sospesa, ci fu soltanto un colloquio tra «duri» nel quale, per vedere la reazione e capire le sue intenzioni, quelli della Magliana, cioè gli assassini di Vannicola, accusarono Fausto di aver ucciso il suo socio. Lui negò, ma probabilmente capì che per

rimanere vivo doveva perdere quella partita. «Sta di fatto», racconterà Sicilia, «che in un periodo successivo lasciò completamente libera la piazza del Tufello e di Val Melaina.» Scorreva sangue per la droga e i soldi, ma scorreva anche per delle liti occasionali, per piccoli «sgarri» o questioni di donne. Amleto Fabiani, trentadue anni, detto «er vòto» nel senso di vuoto, «pluripregiudicato per sequestri di persona, associazione per delinquere,

furti e altro» secondo un rapporto della Squadra Mobile, legato al boss del Casilino Tiberio Cason, fu trovato cadavere nella sua BMW nera, la sera del 15 aprile 1980, vicino a un deposito di autobus, alla borgata Finocchio. Era seduto al posto di guida, con quattro buchi alla testa e al braccio destro. Con Fabiani aveva un conto in sospeso Enrico De Pedis, per una lite avuta a Regina Coeli: «er vòto» si era permesso di dare uno schiaffo in pubblico a «Renatino». Ma una volta usciti

tutti e due dalla galera, De Pedis non s'era dato troppa pena di vendicarsi. La situazione precipitò dopo qualche tempo, quando Fabiani si ritrovò nel bar Settebello, alla Garbatella, insieme a Marcello Colafigli e altri. I due cominciarono con qualche frasetta minacciosa, poi presero a litigare sul serio finché non scoppiò una rissa vera e propria, durante la quale «Marcellone» prese una bottigliata in testa da Fabiani. Un amico del «vòto», soprannominato «gnappa», si

mise in mezzo ed evitò che la questione prendesse una piega più drammatica; Colafigli, con il volto sanguinante, salì in macchina e tornò dai suoi amici, al bar di via Chiabrera. Qui venne medicato, poi spuntarono tre revolver che vennero distribuiti a «Marcellone», a Maurizio Abbatino e a Edoardo Toscano. I tre salirono decisi sulla Mercedes di «crispino» e in pochi minuti furono al Settebello. Cercavano Fabiani, ma non lo trovarono. C'era ancora, invece, «gnappa», il

quale cercò di calmare i tre vendicatori proponendo una pacificazione con reciproche scuse. Quelli dissero che ci avrebbero pensato. Mentre se ne andavano, Colafigli si accorse che nella saletta c'era Franco, il cognato del «vòto», e lo picchiò, tanto per gradire. Passarono un paio di giorni e, su iniziativa di Franco, che a causa della lite al Settebello aveva già avuto la sua razione di guai, avvenne l'incontro pacificatore in un altro bar, nella zona di Testaccio. Del gruppo della Magliana

andarono in parecchi, ma non Abbatino. «Quando avvenivano incontri di questo tipo», spiegherà proprio «crispino» al magistrato, «non vi partecipavamo mai tutti, in quanto, se le cose fossero degenerate e i problemi non si fossero potuti risolvere pacificamente ma si fosse invece arrivati a soluzioni di forza, era opportuno che qualcuno di noi restasse fuori. Ciò, per un verso, costituiva garanzia per chi partecipava all'incontro, perché sapere che altri erano a conoscenza del

fatto e che, dunque, avrebbero potuto attuare una sicura vendetta, scoraggiava la controparte dall'assumere iniziative sconsiderate; per altro verso, il non presentarsi tutti insieme era anche un modo per scongiurare il rischio di un fin troppo facile coinvolgimento a livello giudiziario, qualora in seguito si fosse dovuto eliminare gli avversari.» Al ritorno dall'appuntamento, Colafigli raccontò tutto a Claudio Sicilia, ma gli parlò della «pace fatta»

con un tono ironico che non lasciava presagire niente di pacifico. Passò ancora qualche giorno, finché una mattina «Marcellone» si presentò a casa di Sicilia con la sorella e un altro amico. Era di buon umore, aveva portato delle mozzarelle al burro, si mise in cucina e preparò il pranzo per tutti. Poi, nel primo pomeriggio, invitò Claudio a fare un giretto in macchina. Sicilia prese con sé la sua bambina, Emy, e accompagnò Colafigli per le strade del quartiere, chiacchierando degli affari e di

un paio di «schifosi» da eliminare. Arrivati davanti ai campi da tennis della Magliana, «Marcellone» scese ed entrò nel complesso sportivo, lasciando nella BMW Sicilia con la bambina. Claudio gli chiese di fare in fretta perché Emy si era stancata, cominciava a piagnucolare, e lui voleva tornare a casa. Colafigli stette via un quarto d'ora, e quando tornò riaccompagnò «il vesuviano» al bar di via Chiabrera. Fu lì che Sicilia lo rivide, dopo un paio di giorni in cui

non lo aveva incontrato, la mattina del 16 aprile, mentre leggeva sul giornale della morte di Amleto Fabiani. Come erano andate le cose lo raccontò lo stesso Colafigli a Sicilia, la polizia lo venne a sapere poco dopo da qualche informatore, e lo confermerà, dodici anni più tardi, Maurizio Abbatino al giudice istruttore: «Con la scusa di un 'lavoro', che se ben ricordo doveva essere una rapina al deposito Atac, 'Renatino ' De Pedis convocò sul posto il Fabiani. All'appuntamento si recò il

'Renatino' stesso, in compagnia di Raffaele Pernasetti, che guidava la moto; giunto il Fabiani, il quale non sospettava nulla, a bordo della sua BMW nera, lo uccisero. Non so chi abbia materialmente sparato. Poiché l'omicidio era stato concordato insieme e io, Toscano, Marcello Colafigli e Franco Sestili potevamo essere sospettati stante la recente discussione, per procurarci un alibi ci recammo a giocare a tennis, su dei campi ubicati presso l'argine del Tevere alla Magliana». (8)

Erano i campi che Colafigli era andato a prenotare, tre giorni prima, durante la passeggiata con Sicilia. De Pedis, invece, era voluto andare, per potersi vendicare personalmente dello schiaffo ricevuto in carcere. La chiamata al capo della Sezione Omicidi della Squadra Mobile, il commissario Nicola Cavaliere, arrivò di mattina presto, poco dopo le sette del 18 gennaio 1982. Avevano trovato un cadavere mezzo carbonizzato dentro una

macchina, sotto un ponte della via Ostiense, vicino a un cantiere edile. A scoprirlo era stato un operaio, mentre si recava al lavoro. Addosso non aveva documenti, si intravedevano capelli e barba rossicci, doveva avere tra i trenta e i trentacinque anni, alto circa un metro e ottanta. Il commissario arrivò sul posto in pochi minuti. L'uomo nella macchina era stato ammazzato con due colpi di pistola in fronte e alla nuca, ma aveva dei segni intorno al collo e alle caviglie, come se fosse

stato legato con una corda o con il filo di ferro: forse l'avevano «incaprettato», alla maniera dei mafiosi. Ma non si riusciva a capire chi fosse, il fuoco aveva bruciato la pelle delle mani e non si potevano nemmeno rilevare le impronte digitali. Doveva trattarsi del tradizionale «regolamento di conti», su questo c'erano pochi dubbi. E siccome era il periodo in cui quelli del «clan Proietti» venivano colpiti in serie per vendicare la morte di Franco Giuseppucci, ci fu chi ipotizzò l'ennesima esecuzione di

qualcuno legato ai «pesciaroli». Il commissario Cavaliere, giunto a Roma da pochi mesi, chiese lumi al più vecchio funzionario della Questura, il quale si disse sicuro che quel morto fosse un piccolo criminale, non certo uno che contava nella malavita della capitale, perché lui quelli li conosceva tutti. Si sbagliava. Ci volle un giorno e mezzo per scoprire che il morto si chiamava Massimo Barbieri, trentun anni costellati da un buon numero di precedenti penali, uno che contava nella

malavita della capitale. La moglie ne aveva denunciato la scomparsa, poi riconobbe i vestiti. Barbieri aveva cominciato la sua carriera criminale nel 1974, coi furti e le rapine. Sospettato di traffico di droga, nel '75 era stato accusato di riciclare i soldi del «clan dei marsigliesi» con l'acquisto di immobili e appartamenti; nel '77 l'avevano mandato in carcere per il sequestro del duca Grazioli Lante della Rovere, ma poi era stato prosciolto per mancanza di indizi. Scoperto il nome della

vittima, adesso bisognava trovare un movente per l'omicidio e gli assassini. Cominciava un'altra indagine complicata. Qualcosa c'era già, negli archivi della Mobile e nelle «soffiate» degli informatori. Un giorno di due anni prima, Massimo Barbieri si era presentato al bar di via Chiabrera. Scese dalla sua Mini 90 e raggiunse Claudio Sicilia, che come sempre stava lì a chiacchierare con gli amici. «Sei tu Sicilia?» chiese. «Il vesuviano» rispose di sì,

Barbieri lo colpì con uno schiaffo e si mise a insultarlo davanti a tutti. Sicilia gli si avventò contro e cominciò a picchiarlo finché uno dei presenti non lo agguantò alle spalle per fermarlo, Barbieri sgusciò via e scappò continuando a urlare parolacce. «Ma chi è?» domandò Claudio, ricomponendosi, all'uomo che l'aveva fermato; quello gli spiegò chi era Barbieri e perché ce l'aveva con lui: credeva che Sicilia andasse a letto con la sua amante. La sera, in via Chiabrera, si

presentò «gnappa», quello che era stato amico di Fabiani, e disse a Sicilia che non doveva prendersela con Barbieri, un tipo strano, d'accordo, contro il quale non era il caso comunque di meditare vendette. «Gnappa» propose anche un incontro chiarificatore, ma Sicilia non volle saperne: «Non c'è niente da chiarire, io a quello neanche lo conosco». Il giorno dopo Sicilia stava di nuovo davanti al bar, appoggiato a una macchina. A un tratto sentì un colpo di pistola, si girò e vide un uomo

col cappello e gli occhiali da sole che gli stava sparando. Si gettò a terra tra le macchine, poi riconobbe Barbieri; era ferito di striscio a una gamba, ma decise di affrontarlo. Gli saltò addosso, e riuscì a togliergli la pistola di mano, a quel punto Barbieri pensò bene di fuggire, raggiunse la sua auto e filò via. Questa storia di quello che lo voleva ammazzare perché s'era messo in testa che lui se la facesse con la sua amante cominciava a preoccupare Claudio Sicilia. Chiese a

Giuseppucci di aiutarlo a difendersi, ma il «negro» gli consigliò di aspettare che uscisse dal carcere Marcello Colafigli, uno dei «drizzatorti» più affidabili della banda, in quel periodo detenuto. Altri «mediatori» si presentarono da Sicilia per scongiurare la vendetta, e dirgli che Barbieri avrebbe chiesto scusa, ma lui rispondeva sempre che non voleva scuse; «per me la questione è chiusa, basta che quello la smette.» Passarono i mesi, morì Giuseppucci, e un giorno Danilo

Abbruciati andò da Sicilia per proporgli di ammazzare insieme Barbieri: quello infatti se l'era presa anche con lui, sempre per una storia di donne. «So dove sta adesso, tu guidi la moto e io gli sparo», disse Abbruciati. «Il vesuviano» rifiutò. Più tardi Sicilia finì in galera per una storia di armi, e mentre si trovava in cella venne a sapere dell'omicidio di Massimo Barbieri. Quando uscì chiese a quelli della Magliana notizie su quell'esecuzione. Le trovò. Gli amici dissero che ad

ammazzare «quel pazzo» era stato Danilo Abbruciati insieme a qualche altro, e che in fondo lui poteva considerare l'assassinio «un regalo personale». «Ma perché? Sono passati due anni, come mai Danilo l'ha ucciso?» domandò Sicilia. Allora venne fuori la storia: non solo Abbruciati si voleva ancora vendicare, non solo Barbieri s'era messo a insidiare le mogli e le fidanzate di molte persone del «giro», ma era anche diventato assolutamente inaffidabile. «Prendeva talmente tanta

cocaina, che per controbilanciare gli effetti aveva cominciato a bucarsi con l'eroina. Ormai era una persona inutile», spiegarono a Sicilia. E gli raccontarono come morì Barbieri. Avevano organizzato una festa a casa di «gnappa», e con la scusa di andare a prendere un po' di droga, uno uscì con Massimo. Lo accompagnò fino a un capannone poco distante, dove ad aspettare c'erano Abbruciati e altre due persone. Appena vide Danilo, Barbieri capì che era finito in trappola,

tentò di scappare ma fu preso e «imbragato» con la corda, mani e piedi legati. Prima lo seviziarono, poi gli spararono due colpi alla testa. Caricarono il cadavere in macchina, lo portarono sull'Ostiense e diedero fuoco all'auto. Sicilia seppe anche che uno degli assassini di Barbieri era già l'amante della moglie della vittima, e dopo l'omicidio era andato a vivere con lei e con i bambini del morto. Al collo, adesso, portava un medaglione dove c'era su un lato la fotografia di Massimo, e

sull'altro una dedica. «Ma tu l'hai ammazzato, come fai ad andare in giro con questa e a stare con la moglie?» chiese Sicilia. E quello: «Era uno schifoso, se l'è meritato». A Sicilia raccontarono anche come aveva fatto Abbruciati a crearsi l'alibi per l'omicidio Barbieri, grazie a un passaporto falsificato che s'era procurato con la complicità del vero titolare e di un poliziotto. L'intestatario del documento ne aveva denunciato lo smarrimento, ma in Questura il

poliziotto compiacente aveva bloccato la pratica. Così, nei giorni in cui Abbruciati commetteva l'omicidio, il titolare del passaporto poté andare in Brasile facendo mettere sul documento i timbri di entrata e di uscita. Tornato in Italia, consegnò il passaporto a un falsario, che lo diede ad Abbruciati: adesso lì c'era una sua foto, e Danilo poteva sostenere che mentre qualcun altro ammazzava Massimo Barbieri lui si trovava al di là dell'Atlantico. Sette mesi prima di

quell'omicidio, Abbruciati aveva provato a uccidere Ferdinando Garofalo detto «er ciambellone», proprietario di un ristorante a Trastevere. Era il primo giugno 1981, e Garofalo si trovava da poco in libertà, uscito in «licenza di esperimento» dal carcere psichiatrico di Aversa. Secondo la polizia, che lo considerava l'anello di collegamento tra il vecchio «clan delle 3 B» e i calabresi, era coinvolto in alcuni sequestri di persona e nel traffico di droga, ma lui continuava a ripetere che non

c'entrava niente. Nel suo quartiere, comunque, lo conoscevano tutti come un boss. E lo conoscevano anche quelli della Magliana, in particolare i «testaccini», infastiditi dalla sua presenza «sul mercato». Abbruciati, poi, ce l'aveva col «ciambellone» perché diceva che gli aveva soffiato la donna mentre lui stava in galera. Alla gelateria di piazza in Piscinula, nel cuore di Trastevere, quel pomeriggio c'era un discreto movimento. Garofalo arrivò, trovò un

tavolino all'aperto libero, si mise a sedere. Forse aspettava qualcuno, forse voleva semplicemente starsene un po' al fresco. All'improvviso, il rombo di una moto coprì le chiacchiere dei presenti e un uomo bassino, col volto coperto e un fucile avvolto in un foglio di giornale, comparve dietro la siepe che delimitava lo spazio dei tavolini. A differenza di tutti gli altri presenti, «er ciambellone» capì al volo quello che stava per succedere, scattò in piedi e corse verso l'interno del bar: il colpo di fucile prese

la sedia rimasta vuota e finì su una signora che sedeva al tavolino accanto. Mentre il complice aspettava in moto e la vittima designata cercava riparo dentro il locale, il killer sparò ancora, stavolta all'interno del bar, ma mancò nuovamente il bersaglio. In compenso ferì il cassiere a un piede. Ormai non c'era più tempo, bisognava fuggire, la moto sparì per le stradine di Trastevere; Garofalo s'era salvato, e prima che arrivassero la polizia e le ambulanze anche lui si dileguò

tra i vicoli del quartiere. A qualcuno dei «bravi ragazzi» il cinema piaceva, a qualcun altro no, ma di certo le loro gesta richiamavano alla mente le scene di certi film, riadattate ai quartieri e ai personaggi della periferia romana di quegli anni. Come l'omicidio di un barbone avvenuto al Laurentino, riferito da uno degli assassini a Claudio Sicilia. Era un signore alto, vestito di stracci, la barba lunga e i capelli ridotti a tanti ciuffi

cementati dalla sporcizia. Chiedeva l'elemosina lungo i marciapiede del quartiere, davanti ai negozi, fermando la gente che passava. Dava fastidio soprattutto per il suo aspetto, e in particolare ai commercianti, i quali temevano che il barbone allontanasse i clienti dalle loro vetrine. Un gruppo di amici di Sicilia si trovava da quelle parti - uno era soprannominato «il gobbo», un altro «il ciociaro» -, e intimò all'uomo di andarsene. Quello obbedì, ma insultando e maledicendo chi lo stava

cacciando via. La sera, «il gobbo», «il ciociaro» e gli altri decisero di dare una lezione al vecchio. Salirono su una Volvo e su un'Alfasud, e si misero a girare in cerca del suo rifugio. Arrivati a una collinetta dietro i cantieri della Laurentina, lo trovarono che dormiva dentro una grotta, sopra un'incerata, coperto da giornali e un po' di stoffa. Volevano impaurirlo, dettero fuoco all'incerata. Ma le fiamme divamparono in un attimo, e il barbone morì bruciato. La cosa sarebbe finita lì se

non fosse che un guardiano dei cantieri disse in giro di aver notato la Volvo e l'Alfasud aggirarsi per la collinetta. Così uno degli assassini dovette avvicinarlo, e non ci mise molto a convincerlo che certe cose sarebbe stato meglio tenerle per sé. Ed ecco un altro omicidio «da film», così come l'ha raccontato Claudio Sicilia al magistrato: «Mi venne riferito dal Pernasetti che un tal 'Rufetto' era stato l'autore materiale di un omicidio avvenuto a Ostia. Non so chi

sia il morto, posso dire che a detta del Pernasetti il 'Rufetto' era entrato in un negozio di barbiere, aveva il volto travisato da una sciarpa e aveva sparato uccidendo un uomo che si trovava seduto sulla sedia del barbiere. Il fatto era conseguenza di una 'sòla' fatta dal morto al 'Rufetto': i due avevano compiuto unitamente ad altre persone una rapina a un portavalori, e la persona uccisa non aveva regolarmente diviso il provento della rapina. So di questo fatto in quanto ne parlarono in mia

presenza il Pernasetti e un tale 'Gallina', simpatizzante di destra... Il Pernasetti accusava il 'Gallina' dell'omicidio, e questi gli disse appunto che non era opera sua ma del 'Rufetto'. Successivamente ebbi modo di riparlare del fatto con il Pernasetti, il quale mi disse che il 'Rufetto' gli aveva confermato quanto dettogli dal 'Gallina'». (9) Ci fu persino chi si ricordò di un film del 1952, interpretato da Simone Signoret, quando vide Claudiana Bernacchia, e

gli venne in mente di chiamarla «casco d'oro». Come il titolo del film, appunto, perché diceva che per fascino e autorevolezza somigliava alla protagonista. Lei, Claudiana, giovane, minuta e carina, era diventata la donna di Claudio Sicilia, finendo per condividerne ogni traffico e ogni affare. Lui diceva di amarla, e l'aveva fatta entrare nel «giro», facendola sentire «la donna del capo» anche se Sicilia capo non era. Spediva Claudiana agli appuntamenti, come quella volta che la mandò, di notte, a

un incontro con un certo «capello» davanti al convento dei frati trappisti, per farle ritirare delle armi che «il vesuviano» doveva custodire per conto della banda. Oppure le faceva «tagliare» l'eroina da vendere. Era una di cui ci si poteva fidare, apprezzata da tutti. Quando Sicilia capì che qualcuno s'era messo in testa di ammazzarlo perché temeva un suo tradimento, venne a sapere che volevano far fuori pure Claudiana, «in quanto a detta di tutti la stessa voleva

farmi cambiare vita, cosa in effetti vera», dirà al giudice. Dunque «casco d'oro» cercava di convincere il suo uomo a farla finita con la droga e gli altri «affari sporchi». E dopo l'arresto di Sicilia, i suoi amici l'avevano cercata, con la scusa di volerla aiutare e offrirle assistenza, ma lei s'era spaventata ed era sparita dalla circolazione. Immaginava che volessero eliminarla, perché avrebbe potuto confermare molte delle cose che Sicilia avrebbe detto ai magistrati. Ma riuscì a salvarsi, e in

seguito si legò a un altro boss della Magliana. Secondo gli investigatori ha continuato a fare affari e a gestire col suo nuovo uomo i traffici della banda, tanto che nell'estate del 1993 l'hanno arrestata con l'accusa di associazione di stampo mafioso. Abitava in una bella villa sulla via dei Laghi, vicino ai Castelli, da sola perché il suo uomo era già in carcere. Anche la moglie di Maurizio Abbatino, la signora Carla, sapeva dei traffici del marito. Una volta, raccontò Sicilia, fu

interessata al ritiro di «due tocchi di cocaina», che dovevano servire per fare un regalo. E quando Maurizio si trovava in carcere, riusciva a farsi rispettare perché era pur sempre la «moglie del capo». Andava regolarmente a trovare Maurizio, riferiva quello che gli amici gli mandavano a dire e portava fuori le risposte. In assenza del «capo», era lei a incassare le quote di guadagni che spettavano al marito. Quella della riscossione, del resto, era un'attività che spesso veniva affidata alle donne dei

boss. Nicolino Selis, per esempio, gestiva tre bische clandestine, una a Pomezia e due a Roma, e quando stava in galera ci pensava la sua convivente, Maria Antonietta, a ritirare ogni settimana le ottocentomila lire che le bische fruttavano a Selis. Succedeva anche che le fidanzate passassero da un boss all'altro senza troppi problemi. Una ragazza che spacciava droga nella zona di Campo de' Fiori, Fabiola Moretti, e che si riforniva di «roba» al bar di via Chiabrera,

secondo il racconto di Claudio Sicilia passò dal «ciambellone» Garofalo, a Massimo Barbieri, a Danilo Abbruciati, fino a diventare - dopo la morte dell'ultimo amante - la donna di un altro emergente della Magliana, Antonio Mancini. Fabiola era giovane e carina, minuta e con dei grandi occhi neri. Figlia di genitori onesti e severi nell'educazione, a quattordici anni era scappata di casa, aveva trovato lavoro come commessa in una boutique e con un'amica di qualche anno più grande,

Chiara, aveva cominciato a frequentare bar e locali notturni, dove era inciampata nel fascino della bella vita ostentata dai malavitosi. Si innamorò di Abbruciati che non aveva ancora vent'anni. Lo conobbe nel ristorante del «ciambellone», lei una ragazzina, lui un boss già temuto da molti. Cominciò a desiderarlo in segreto, perché all'inizio Danilo non mostrava di avere occhi per quella moretta troppo giovane, finché non riuscì a conquistarlo, intessendo una storia d'amore

che un giorno avrebbe consegnato a un verbale d'interrogatorio: «Le frequentazioni con Danilo si fecero più regolari dopo il 1973, quando finii per avere con lui la relazione affettiva che avevo sempre desiderato. A quell'epoca Danilo si dedicava alle rapine e i suoi compagni erano Umbertino Cappellari, Amleto Fabiani detto 'er vòto', Paolo Frau e Marco Meschino». (11) Fabiola finì per «lavorare» con Abbruciati e gli altri «bravi ragazzi», ma il fatto di avere

legami sentimentali coi capi non faceva passare in subordine i rapporti d'affari e le leggi imposte dalla banda. Per cui, ha raccontato ancora Sicilia, la volta che lei si presentò da Abbruciati per protestare per la pessima qualità dell'eroina che le aveva dato da spacciare, l'uomo la rispedì bruscamente da dove era venuta, intimandole di piazzare quella «roba». Del resto Danilo non era un tenero, nemmeno con le «sue» donne; una volta, in Questura, dichiarò al poliziotto che lo

stava interrogando: «Io le avvicino solo per necessità fisiche». E Fabiola, molti anni dopo, rivelerà a un giudice la natura turbolenta del rapporto tra lei e Abbruciati: «L'ho amato come nel nostro ambiente si sa amare. Voglio dire che il fatto che noi ci amassimo non significa che in certi casi non si litigasse di brutto. Se si potesse riesumare il corpo del povero Danilo gli si troverebbero ancora i segni delle coltellate che gli ho infetto. Eppure l'ho amato, e lui mi ha amata...»

Un'altra amante e trafficante che circolava intorno alla banda era una certa Antonietta, del Trullo, moglie di un idraulico e amica di uno della Magliana prima e di suo fratello poi. Antonietta teneva la droga nel suo appartamento, il marito lo sapeva e collaborava a custodire la «roba». Quando serviva l'eroina, l'amico di Antonietta quello della Magliana fissava un appuntamento e lei si presentava con la quantità richiesta. C'erano le mogli e c'erano le

amanti. Le donne ufficiali dei boss - quasi tutti con doppia o tripla vita - il più delle volte sapevano, ma lasciavano fare, curandosi di mantenere un buon livello economico, le case e i bambini. «Mio marito», dicevano, «può anche prendersi degli spuntini fuori, ma poi torna a mangiare a casa.» Le amanti, invece, a volte si trasformavano in un'arma in mano ai poliziotti: successe con Maurizio Abbatino, che, nel maggio del 1983, fu arrestato proprio in seguito ai pedinamenti alla sua

amichetta, Roberta, giovanissima e di buona famiglia. La ragazza usciva di casa di buon'ora, e con l'autobus e il taxi arrivava al residence Prato Smeraldo, sulla Laurentina. Faceva un po' di spesa al supermercato, poi entrava nella palazzina numero 57, in un appartamento al piano terra. In quella casa si nascondeva «crispino», e in quella accanto il suo amico «operaietto», Edoardo Toscano. I poliziotti, una volta certi che Abbatino fosse dentro, fecero saltare la

serratura della porta con un colpo di fucile a pompa, irruppero nell'appartamento lussuosamente arredato e trovarono il ricercato. Subito dopo presero Toscano. Li arrestarono senza che muovessero un dito; nelle case protette da vetri blindati trovarono soldi in contanti e hashish, oltre ad «alcuni contenitori metallici con evidenti tracce di cocaina». (12) A Roberta, Abbatino aveva anche procurato un lavoro come commessa in un negozio,

e il proprietario che l'aveva assunta detraeva i soldi dello stipendio della ragazza da quanto doveva pagare per l'eroina e la cocaina di cui lo rifornivano quelli della Magliana. Maurizio aveva voluto quell'impiego per l'amante in modo che non avesse problemi a uscire di casa, e lui potesse incontrarla ogni volta che voleva. I soldi arrivavano con la droga, ma non solo. C'erano anche le case da gioco, i videopoker, le scommesse

clandestine e l'usura a riempire le casse della banda. Che poi aveva le sue spese, non soltanto per rifornirsi di eroina e cocaina, ma anche per pagare gli avvocati, i poliziotti e le guardie carcerarie da corrompere, il sostentamento ai detenuti e alle loro famiglie. Quando ancora c'era Franco Giuseppucci, la strada del gioco d'azzardo fu intrapresa affittando una villa dalle parti di Casal Lumbroso, a nord di Roma. La trovarono «er negro» e Libero Mancone, due esperti dello "chemin de fer", era la

residenza di un attore che lavorava nei film western. Le diedero un nome, My club, e invitando giocatori di un certo livello, riuscivano a incassare anche quaranta milioni a serata. «La villa», racconterà Abbatino, «venne affittata per due periodi di un mese, ma considerati i preparativi per l'allestimento di quello che potrebbe definirsi un casinò clandestino, si giocò ogni volta per non più di due settimane. Sebbene si trattasse di un affare lucroso, non ritenemmo

di dover andare avanti a lungo, sia perché eravamo impegnati in altre attività, sia per non correre il rischio di essere scoperti in considerazione della permeabilità dell'ambiente sociale che frequentava le 'partite', sia, infine, perché sul terreno organizzativo, per la gestione di quegli affari, erano meglio attrezzati in un primo tempo i milanesi della banda di Francis Turatello, e in un secondo tempo, dagli inizi degli anni Ottanta, i siciliani.» (13) Ma i «testaccini», il gruppo capeggiato da De Pedis e

Abbruciati, non volevano rinunciare al gioco d'azzardo, perché oltre alle consistenti entrate che garantiva, era anche un modo per riciclare e «lavare» il denaro sporco proveniente dal traffico di droga. Inoltre era un terreno fertile per coltivare il prestito dei soldi «a strozzo», con il circolo vizioso dei giocatori che perdevano, si indebitavano, chiedevano prestiti ai «cravattari» pronti a concederli, si indebitavano ancora di più e finivano completamente nelle mani degli

usurai, i quali alla fine avevano diritto di impadronirsi delle aziende o delle imprese dei debitori che non potevano pagare. Queste attività, ha poi spiegato Maurizio Abbatino, «per chi, come i 'testaccini', non voleva ricorrere, non avendone alcun bisogno, alla 'protezione' dei siciliani, comportavano la necessità di disporre di personale che fosse versato nel dirigere il gioco e che, soprattutto, provvedesse a recuperare i crediti, nonché a garantire lo svolgimento

dell'attività stessa in condizioni di sicurezza. A questo riguardo, la fama della nostra banda era di per sé garanzia che difficilmente i debitori si sarebbero sottratti ai pagamenti. D'altra parte doveva essere allargata la base dell'organizzazione, attraverso l'immissione in essa di persone che gestissero il gioco e svolgessero le necessarie operazioni di liquidazione degli incassi che non sempre avvenivano in denaro contante, ma specialmente in titoli di credito. Fu così che persone

con trascorsi malavitosi e versate in quel tipo di operazioni vennero man mano reclutate. «In particolare entrarono in tal modo nell'organizzazione personaggi come Giuseppe Scimone, il quale inizialmente si occupava soltanto di piazzare sostanze stupefacenti e che, successivamente, divenne uno dei perni della gestione dei circoli privati. Analogamente è da dirsi per tal Salvatore Nicitra, siciliano con trascorsi di rapinatore, già amico di Franco Giuseppucci e referente di

Enrico De Pedis per la commercializzazione della droga nella zona di Primavalle, il quale per la sua abilità di gestire il gioco venne anch'egli 'arruolato' nella banda per la conduzione dei circoli privati.» (14) Furono affittate altre ville per ospitare bische e case da gioco clandestine, cominciò l'attività di gestione dei videopoker (un settore che in passato Tiberio Cason aveva offerto alla banda, ma che quelli della Magliana avevano rifiutato per evitare di

scatenare contrasti con altri gruppi per il controllo del territorio), l'organizzazione del totonero. Siciliano di Palma di Montechiaro - provincia di Agrigento, patria di Tomasi di Lampedusa e di uno dei più feroci e temibili clan mafiosi dell'isola, quello dei Ribisi Salvatore Nicitra divenne ben presto, benché molto giovane, uno dei boss più autorevoli in questo genere di attività. Un rapporto dei carabinieri definisce lui e altri gestori di bische collegati a Nicitra

personaggi regolarmente impuniti e rispettati, «sia per la loro particolare scaltrezza nell'eludere le investigazioni della polizia, sia perché molte persone che hanno subito prepotenze, soprusi e violenze nonché ricatti di ogni tipo, preferiscono non denunciare le loro malefatte per paura di più gravi rappresaglie.» Di Salvatore Nicitra, classe 1957, il rapporto dice che è «capace di esercitare e godere notevole ascendente nei confronti dei consociati. Non ha disdegnato, in passato, di

ricorrere a minacce, intimidazioni e violenze nei confronti di quanti si siano opposti alla sua volontà, facendo anche leva sull'attestato 'vizio totale di mente' riconosciutogli in passate sentenze penali di cui egli stesso si fa vanto... Per conto dell'organizzazione ha gestito il gioco d'azzardo clandestino, seguendo personalmente l'attività dei circoli ricreativi dove erano installati i videopoker e riscuotendo le puntate del totonero presso le ricevitorie di

pertinenza.» (15) Le perizie psichiatriche compiacenti, così come i ricoveri facili e i certificati che permettevano ai detenuti il trasferimento nelle infermerie delle prigioni, gli arresti nelle cliniche o quelli domiciliari, erano le armi più utilizzate dai «bravi ragazzi» per contrastare il carcere e i guai giudiziari. Per «aggiustare i processi», insomma, come facevano i mafiosi. Il trucco più frequente era quello delle false cartelle

mediche da cui risultavano ricoveri mai avvenuti, quasi sempre per sospette malattie mentali, in cliniche specializzate. Ne usufruì Marcello Colafigli prima ancora di essere dichiarato infermo di mente per l'omicidio di via Donna Olimpia, quando subì un processo per furto. Nella casa di cura dove «Marcellone» era stato ricoverato per un incidente di moto, scoprirono all'improvviso una malattia mentale. Lo stesso Colafigli, ai medici andati a visitarlo per l'ennesima perizia, raccontò un

passato disastroso: «Il paziente avrebbe ripetuto la prima media e la terza superiore, conseguendo il diploma in geometra a ventidue, ventitré anni; sembra che sia stato riformato alla visita di leva, ma il periziando è impreciso al riguardo; nel 76 pare abbia subito un ricovero in una clinica psichiatrica, non è molto preciso in proposito». La sorella riferì inoltre agli investigatori che Marcello «è nato settimino, da parto gemellare, con morte quasi immediata del fratello; appena nato, pesando chili

1,200, è stato tenuto, anziché in incubatrice, in una scatola da scarpe imbottita di ovatta; avrebbe sofferto di meningite verso i due anni e mezzo; è stato seguito per molto tempo, nel corso dell'infanzia e fino a dieci, dodici anni, per certe crisi che la sorella a tratti definisce di epilessia, a tratti di acetone; era molto affezionato alla madre (che era sempre molto premurosa e protettiva con lui) e ha molto sofferto per la sua morte, reagendo negativamente al secondo matrimonio del padre e

attaccandosi morbosamente alla sorella; verso il 1978 fu ricoverato in una clinica per malattie nervose a Roma.» (17) E pensare che un maresciallo di Polizia, in un rapporto del 1981, scriveva che Marcello Colafigli, «noto rapinatore e bandito di levatura nazionale, incontrastato boss della malavita organizzata dei quartieri Magliana, Trullo, San Paolo e altre zone, per il suo grado di cultura superiore agli altri (diplomato geometra) è tenuto in particolare

considerazione.» (18) Agli uomini della Magliana, durante le detenzioni e i processi, comparivano d'un tratto i disturbi e i segni delle malattie più strane. Specialista era Maurizio Abbatino, che mentre si trovava in isolamento a Regina Coeli riuscì a ottenere la libertà provvisoria grazie a irritazioni e gonfiori degli occhi, appositamente procurati dai semi di ricino applicati sulle palpebre che gli venivano portati da uno dei cappellani del carcere. «Padre Gianfranco», racconterà

«crispino», «non soltanto mi consegnò i semi di ricino, ma anche pacchetti contenenti hashish, cocaina occultata in confezioni di medicinali e una radio la cui detenzione era assolutamente vietata in carcere.» (19) In un'altra occasione Abbatino presentò una documentazione dalla quale risultava essere affetto da un'inesistente malattia al cuore; al cardiologo che gliel'aveva procurata fu recapitato, nel suo studio privato, un costoso apparecchio

per il telecuore. Poi spese oltre sessanta milioni nell'acquisto di una macchina per l'applicazione di pacemaker, con la quale «crispino» doveva farsi inserire lo stimolatore cardiaco: non ne aveva alcuna necessità, serviva solo per apparire irrimediabilmente malato. Ma non riuscì a trovare un medico disposto a effettuare l'operazione su una persona perfettamente sana. Abbatino non si arrese, e pur di simulare una malattia finì addirittura sotto i ferri. «Più facile», rivelerà una volta

pentito, «fu trovare sanitari disposti a praticarmi una biopsia con gastroscopia allo stomaco, ad acquisire un 'vetrino' di cellule tumorali, ovviamente non mie, e a certificarmi un tumore. Il 'vetrino' in questione, che proveniva dall'ospedale Sant'Eugenio, era relativo a un adenocarcinoma diffuso del sistema linfatico, sicché fu necessario asportarmi anche un linfonodo cervicale, per rendere credibile la frode. I miei linfonodi, peraltro, apparivano ingrossati, e questo perché nel

carcere di Rebibbia, reparto infermeria, mi ero iniettato il sangue di un altro detenuto che presentava linfonodi ingrossati.» (20) A consigliare Abbatino era un amico medico, il quale si occupava di prelievi, diagnosi e prognosi, e fece ricoverare «crispino» all'ospedale San Camillo per un trattamento di chemioterapia. Nel frattempo l'avvocato otteneva per il suo assistito, «per gravi motivi di salute», gli arresti domiciliari in una clinica privata, gestita da medici che Abbatino già

conosceva: «Uno era stato amico di Giuseppucci, il quale gli aveva 'sistemato' una questione con un tale di Ostia che gli molestava l'amante». (21) Durante la «degenza» in clinica, ad Abbatino fu notificato un nuovo mandato di cattura, e il giudice istruttore fece sapere all'avvocato che per verificare le condizioni dell'imputato avrebbe ordinato una perizia. Il bandito e i suoi medici giocarono d'anticipo, simularono una colonoscopia e inviarono il solito «vetrino». Il

perito annunciò altri esami. «Vennero rimandati», confesserà il «malato», «in considerazione del grave stato di deperimento organico conseguente al fatto che non mangiavo e mi sottoponevo a clisteri, nonché di una sclerosi a placche con paralisi degli arti inferiori che riuscivo a simulare riproducendo la sintomatologia in modo da ingannare il neurologo.» Maurizio Abbatino era ancora agli arresti domiciliari in quella clinica dalle parti dell'Eur quando, nel 1986, Claudio

Sicilia cominciò a collaborare con i giudici. «Abbatino», avvertì Sicilia, «è in perfette condizioni di salute, assume farmaci per deperire e afferma falsamente di non poter camminare. Sta su una sedia a rotelle, ma personalmente l'ho visto alzarsi e sedersi a dimostrazione che era in grado di camminare, quando io gli avevo chiesto se potesse farlo o meno. Attualmente, nonostante sia piantonato, riceve costantemente visite, mattina e pomeriggio, dai familiari e anche da estranei. Anche io,

come ho detto, sono entrato nella stanza dell'Abbatino presentato come suo cugino. Gli agenti, si trattava di poliziotti di cui uno si chiamava Roberto, nulla hanno rilevato; tra l'altro non erano nella stanza, ma in una saletta attigua.» (23) Abbatino evase indisturbato da quella clinica poche settimane più tardi. Altri malati immaginari in carcere erano Gianfranco Urbani, «er pantera», che lamentava un diabete diagnosticato grazie alla sostituzione dei campioni dopo i

prelievi per le analisi, e l'«operaietto» Toscano, il quale si fece ricoverare d'urgenza in ospedale per un finto avvelenamento: dichiarò di aver ingerito un'intera confezione di Roipnol, mentre aveva mandato giù solo due pasticche. Nel centro clinico di Rebibbia, al detenuto Enrico De Pedis fu di fatto certificato un tumore. Nel diario clinico comparvero notizie di una «asportazione di metastasi regione sottomandibolare destra da carcinoma

epidermoidale» e di ripetuti disturbi lamentati dal detenuto a causa di una «ipotrofia testicolare destra». Fu necessario che De Pedis morisse per scoprire che non era vero niente, e che anche lui aveva truffato la giustizia con le sue false malattie. Nel febbraio del 1990, dopo che era stato ammazzato a via del Pellegrino, nel cuore della città, il cadavere di «Renatino» fu sottoposto all'autopsia, e il professor Sacchetti dichiarò al giudice: «Il quadro anatomopatologico non appariva

caratterizzato dalla presenza di patologie neoplastiche... Del resto le condizioni di nutrizione del cadavere (peso chili 98) e la conformazione delle masse muscolari del medesimo, mal si sarebbero conciliate con una patologia neoplastica, e specialmente con quella di un carcinoma epidermoidale metastatizzato che sarebbe stato diagnosticato da alcuni anni.» (24) Per le false perizie sono state spese decine di milioni, che durante le inchieste e nei

processi fruttavano proscioglimenti e assoluzioni. Ma il denaro e la corruzione arrivavano anche agli impiegati del palazzo di giustizia, per le perizie sulle armi utilizzate negli attentati, in cambio di informazioni su come stavano andando i procedimenti in corso, per «oliare» i magistrati. Quando fu scoperto un arsenale della banda e cominciarono le indagini per abbinare pistole e fucili ai vari agguati che s'erano consumati negli anni precedenti, quelli della Magliana tentarono di

arrivare al perito del tribunale che doveva fare gli esami. Sicilia, Abbatino e altri erano finiti in quell'inchiesta, e temevano di vedersi accollare gli omicidi e i tentati omicidi avvenuti fino al 1981. Ma uno dei loro avvocati disse che non c'era da preoccuparsi, che «era tutto a posto». A Sicilia fu spiegato che si sarebbe risolta ogni cosa versando degli acidi sulle armi ritrovate. Spesso erano i difensori di alcuni imputati a chiedere e ottenere soldi dai loro clienti dicendo che servivano per

comprare i magistrati e far nominare periti compiacenti. Ma altre volte i «bravi ragazzi» cercavano e trovavano da soli i loro contatti. Per seguire un processo contro Marcello Colafigli e controllare che tutto andasse bene per l'imputato, un cancelliere del tribunale ricevette in regalo un Rolex del valore di due milioni e una pelliccia di volpe per sua moglie. Sicilia era presente alla consegna dell'omaggio, lui e Abbatino incontrarono il cancelliere nel parcheggio del

palazzo di giustizia. Il «vesuviano», in quell'occasione, disse al cancelliere che aveva uno stand di frutta ai mercati generali e che era a sua disposizione, qualsiasi cosa gli servisse. Quello, per tutta risposta, gli diede il proprio indirizzo, e qualche giorno dopo Sicilia si presentò a casa sua con una cassetta di frutta. Un'altra pelliccia di volpe il cancelliere la pretese perché doveva servire, spiegò, a «convincere» il magistrato che si occupava di un certo

procedimento. Un magistrato disponibile ma anche esigente, a sentire il cancelliere che continuava a ordinare regali e incassare «mazzette» da cinque e dieci milioni; sempre per il giudice, diceva. Abbatino e Sicilia, allora, procurarono un busto di marmo di epoca romana, senza braccia e senza testa, valore di circa venti milioni, e un servizio da scrittoio in pelle con i sigilli della gioielleria Bulgari, pagato intorno ai tre milioni. Consegnarono il tutto al cancelliere, poi aspettarono i

risultati della corruzione, che però non arrivavano. Quel loro «contatto» era uno che la mattina lavorava in tribunale e il pomeriggio nella segreteria di un deputato democristiano. Qui, nell'ufficio dell'uomo politico, Abbatino e Sicilia andarono una volta per depositare alcune «mazzette», e quando «crispino» si lamentò col cancelliere dicendo che da quanto aveva saputo la perizia psichiatrica sul suo amico «Marcellone» non stava andando come doveva andare, quello fece di tutto per

convincere il gangster del contrario. «Ma che cosa sta dicendo?» si rivolse ad Abbatino. «Lei è male informato, ho appena parlato con il giudice, non ci sono problemi di alcun genere.» «Bene», rispose l'emissario della banda, «speriamo che sia così.» E mentre metteva sul tavolo un mucchietto di banconote pari a dieci milioni di lire aggiunse minaccioso: «Questi sono gli ultimi soldi». Il funzionario del tribunale annuì, prese quel denaro e lo infilò in un

cassetto. Poi consegnò ad Abbatino un pacco di volantini elettorali. (25) Al cancelliere che lavorava anche per il deputato democristiano la banda giunse dopo che un altro tentativo di arrivare al giudice del «caso Colafigli» era fallito. In quell'occasione - secondo il racconto fatto da Abbatino - il «contatto» era un uomo politico calabrese conosciuto da Gianfranco Urbani, al quale l'aveva indirizzato il boss della 'ndrangheta Paolo De Stefano. Il politico disse di avere buone

«entrature» coi magistrati, e promettendo il proprio interessamento intascò venticinque milioni da quelli della Magliana. Poco dopo disse che ne servivano altri venticinque, ma siccome il primo pagamento non aveva dato i risultati sperati, l'affare fu lasciato in sospeso e i gangster decisero di non dare più un soldo a quel calabrese. (26) A New York, i mafiosi della famiglia Gambino riuscivano ad avere in anteprima le

trascrizioni delle intercettazioni ambientali fatte dal F.B.I. nelle loro abitazioni, e a organizzare le contromosse; a Roma, nel loro piccolo, quelli della banda della Magliana erano in grado di ottenere i documenti delle inchieste in corso e sapere in anticipo ciò che poliziotti e magistrati avevano in mano. In tribunale, dove Claudio Sicilia e gli altri si recavano indisturbati perfino quando erano latitanti, circolavano fotocopie di interrogatori, trascrizioni di intercettazioni telefoniche, fotografie allegate

agli atti delle inchieste. Arrivavano da cancellieri o uscieri adeguatamente compensati, o dalle «talpe» nascoste negli uffici di Polizia. Due agenti del commissariato competente nella zona della Magliana ricevevano dalla banda paghe settimanali da duecento o trecentomila lire, in cambio di informazioni sulle indagini e della «tranquillità» garantita in via Chiabrera. Una volta i poliziotti vendettero ai «bravi ragazzi» alcune pistole, e in un'occasione gli furono regalati

due televisori a colori, uno per ciascuno. Duecentomila lire a settimana venivano date anche a un altro poliziotto che faceva servizio nel quartiere, il quale ricevette pure due macchine provenienti dal solito autosalone di Gianni Travaglini. Il poliziotto portava dei fogli con i dati completi sugli arresti da fare, le multe e altre sanzioni previste per i componenti della banda. Quando Sicilia, che abitava nello stesso palazzo di una cognata del poliziotto, gli

chiese perché si facesse corrompere così, senza scrupoli, questi rispose che aveva una figlia piccola a cui mancava una mano, spendeva molto per l'assistenza e i soldi che prendeva dallo Stato non gli bastavano. Lo stesso agente mandò un po' di hashish in carcere a Fulvio Lucioli, quando era detenuto, tramite un fratello che faceva la guardia carceraria, e nel «giro» si sapeva che riceveva stipendi anche dagli spacciatori del quartiere, mentre a quelli che

non lo pagavano sequestrava orologi e altri oggetti di valore che poi teneva per sé, senza redigere alcun verbale. Pure tra i carabinieri c'erano gli informatori che garantivano, nella zona dell'Eur, l'impunità ai gestori dei videopoker. Una sera a Sicilia arrivò una soffiata: «Domattina vengono le guardie per una perquisizione a casa tua». Sicilia sistemò le cose, e il giorno dopo, quando i militari suonarono alla porta, lui era ancora a letto con la sua amica. Riconobbe i due carabinieri

corrotti e disse loro, senza alcun imbarazzo, che aspettava quella visita. Uno dei due era un maresciallo il quale un anno prima - così raccontavano quelli della Magliana aveva sequestrato delle macchine fotografiche a un ragazzo, poi se l'era tenute senza fare rapporti né presentare denunce. Un sottufficiale della Guardia di Finanza si preoccupò di fornire alla banda un po' di droga presa tra quella sequestrata all'aeroporto di Fiumicino, in cambio di qualche

milione. Era lo stesso che più tardi fu incaricato di pedinare Claudio Sicilia, come disse al «vesuviano» suo cugino Corrado Iacolare, a sua volta ricercato. Iacolare propose a Sicilia di corrompere il finanziere, perché poteva fornire notizie utili su imminenti mandati di cattura, ma Sicilia sapeva già tutto: aveva letto le intercettazioni telefoniche uscite dagli uffici della Polizia. Disse al cugino che l'affare non gli interessava, ma Iacolare combinò ugualmente l'appuntamento fra

i tre, in un bar nella zona della Camilluccia. Si parlò di quaranta milioni da versare in cambio degli atti dell'inchiesta in corso, ma Sicilia rifiutò e di fronte all'insistenza del finanziere gli propose addirittura, con un misto di strafottenza e superiorità, di arrestare all'istante sia lui che Iacolare, latitante. Non successe nulla. Più tardi, uscito per un permesso mentre si trovava agli arresti domiciliari, accadde che Sicilia venne fermato da una pattuglia della Polizia

mentre viaggiava in macchina con un pregiudicato. Gli agenti preannunciarono il sequestro dell'auto e un rapporto al giudice che avrebbe significato, per Sicilia, la revoca degli arresti domiciliari, visto che aveva il divieto di accompagnarsi a pregiudicati. «Il vesuviano» riconobbe una delle «guardie», cognato di un suo amico, il quale la sera si presentò a casa sua con i due poliziotti. Sicilia diede a ciascuno cinquecentomila lire, e quelli promisero che avrebbero dimenticato ogni cosa. Ma

qualche giorno dopo il rapporto arrivò sul tavolo del giudice istruttore. Sicilia si infuriò e disse all'amico di portargli a casa quei due poliziotti. Quando se li trovò davanti li prese a schiaffi, nonostante gli agenti continuassero a piagnucolare e a ripetere che non erano stati loro a fare la denuncia. Un comportamento da autentico boss mafioso. E se i veri «padrini», a Palermo, facevano il bello e il cattivo tempo nel carcere dell'Ucciardone, i «bravi

ragazzi» nelle galere romane non erano da meno. «La droga», annoterà desolato un pubblico ministero, «circola e viene venduta e consumata come e più che all'esterno del carcere: gli spacciatori in carcere dispongono di ingenti somme di denaro con il quale a volte riescono a corrompere gli agenti di custodia che così diventano docili strumenti nelle loro mani... E' da rilevare anche la facilità con la quale i detenuti riescono a muoversi come se fossero i padroni di casa, con la quale riescono a

fare dei veri e propri summit per decidere il proseguimento delle loro attività criminose, e con cui li vediamo fare colloqui in più persone e con più persone (il colloquio straordinario tra detenuto e persona non parente, che risulta pregiudicata per fattispecie analoghe e gravi, è la regola permanente e continuata). Ciò avviene perché detti personaggi hanno grande autorità e prestigio nel mondo della criminalità, perché dispongono di somme inesauribili di denaro con cui

possono trovare gli anelli deboli della pubblica amministrazione e fare opera di corruzione, e perché si tratta di persone violente che dispongono della volontà altrui attraverso l'intimidazione implicita ed esplicita.» (27) I trasferimenti da un penitenziario all'altro non furono certo un problema per Antonio Mancini, il quale passò dal carcere di Cassino, «dove si stava benissimo», a quello di Chieti, «dove si stava assai meglio che a Cassino»; e che riuscì a lasciare Pianosa, «luogo

da cui è pressoché impossibile essere trasferiti», per il carcere di Busto Arsizio, dove dopo un breve periodo di «grande sorveglianza» la situazione divenne «invidiabile». «Talvolta», ha confessato l'ex bandito della Magliana, «ho ottenuto agevolazioni che gli stessi agenti di custodia mi facevano notare presupponessero dei consistenti appoggi 'in alto'.» (28) ***

6. «CIAO, NICOLINO».

Il maresciallo Paradiso l'aveva convocata in Questura per le nove e mezza di sera. «Signora, ci scusi, abbiamo trovato un cadavere, potrebbe essere quello di suo fratello, dovrebbe venire a riconoscerlo.» Grazia Selis si presentò puntuale, l'accompagnarono all'obitorio, a

vedere il morto. Era il 3 marzo 1981, Nicolino Selis era scomparso da un mese. Sparito, volatilizzato. Il pomeriggio del 3 febbraio era uscito con suo cognato, Antonio Leccese. Avevano un appuntamento, poi Leccese aveva lasciato Selis e la sera, mentre tornava a casa, venne fulminato da sei colpi di calibro 38. Di Nicolino, invece, non s'era saputo più niente. Da un mese Grazia Selis faceva avanti e indietro dalla sua abitazione alla Questura; c'erano pochi dubbi che suo

fratello avesse fatto la fine di Leccese, ma mancava ancora il cadavere. Adesso ne avevano trovato uno che avrebbe potuto essere quello di Nicolino, e toccava a lei la triste incombenza di riconoscerlo. «Il morto che abbiamo trovato ha dei tatuaggi, come suo fratello, venga a vedere», aveva insistito il maresciallo. «Va bene, vengo.» Nella camera gelida e male illuminata dell'obitorio un impiegato sollevò il lenzuolo, Grazia Selis guardò quel cadavere mal ridotto e senza

nome, scrutò il volto, il corpo, lo squadrò in lungo e in largo. Poi disse: «No, non è Nicolino». «E' sicura?» «Sicurissima.» «Bene, venga in ufficio che dobbiamo comunque fare il verbale.» Lo strazio non era ancora finito, adesso il maresciallo doveva mettere nero su bianco tutti i motivi per cui Grazia Selis si diceva così certa che quel morto - che se fosse stato Selis avrebbe risolto un bel po' di problemi - non era suo fratello. Tornarono nell'ufficio della Squadra Mobile, ormai s'erano

fatte le undici. «Allora, cominciamo», fece il maresciallo mettendosi alla macchina da scrivere, mentre infilava fogli e carta carbone. «Processo verbale di ricognizione di cadavere... L'anno 1981, addì 3 del mese di marzo... La Selis, dopo aver effettuato un'adeguata ricognizione riferisce quanto segue: nel cadavere che mi è stato esibito non riconosco mio fratello Nicolino... Signora, dica perché.» Grazia dettava, il maresciallo Paradiso traduceva nel linguaggio dei verbali di

Polizia e scriveva: «Mio fratello è più basso e più snello del cadavere che mi è stato mostrato, ha il corpo interamente tatuato in ogni sua parte ed è coperto da cicatrici di lesioni infertesi con corpi taglienti durante le sue crisi di nervi». Ma anche il morto che le avevano fatto vedere era pieno di tatuaggi, bisognava specificare meglio. A Grazia Selis toccò ricordare nei dettagli ogni centimetro di pelle di Nicolino: «I tatuaggi che si rilevano sul corpo della salma

sono differenti da quelli di mio fratello. In particolare, il serpente che è tatuato sulla salma rappresenta solo la testa del rettile mentre mio fratello aveva anch'esso un serpente tatuato sul braccio destro, ma con la testa rivolta in basso verso il polso, e l'intero rettile si avvolgeva per l'intero braccio, partendo dal polso fino alla spalla. Anche la scritta sul braccio sinistro è diversa seppure riferita alla madre. Infatti, sul braccio di mio fratello si legge 'Ti voglio bene mamma'...»

Poteva anche bastare, ma siccome c'era dell'altro il maresciallo volle scrivere tutto. La sorella dello scomparso riprese a dettare: «Mio fratello Nicolino tra gli altri tatuaggi aveva anche un grande crocifisso sulla schiena, e una pistola tatuata su una coscia, segni che non ho notato sul cadavere. Mio fratello presentava vistosi segni di tagli alle braccia e al torace compreso il basso ventre; sul cadavere non ho notato alcun segno di tali lesioni. Anche i capelli della salma, sebbene

neri e spessi come quelli di Nicolino, sono abbastanza lunghi mentre mio fratello, l'ultima volta che è stato in casa, li portava cortissimi, tagliati dal giorno 2 febbraio. Il cadavere, in alcune parti del corpo ancora indenni, presentava una peluria piuttosto abbondante, mentre Nicolino era di carnagione gentile e privo di peluria». Era tutto, finalmente. «Stante quanto sopra», dettò a se stesso il maresciallo, facendo sentire alla signora che doveva sottoscrivere, «posso affermare

con assoluta certezza che il cadavere che mi è stato mostrato è persona assolutamente a me sconosciuta. Non ho altro da aggiungere. Letto, confermato e sottoscritto... Ecco, firmi qui.» Quando Grazia Selis si ritrovò per strada era quasi mezzanotte. Aveva lasciato a quel poliziotto l'ultima, dettagliata descrizione di suo fratello. Ufficialmente era scomparso, ma lei sentiva, sapeva che era morto. E immaginava anche chi l'avesse

ammazzato. Sapeva infatti - e l'aveva pure riferito, ma chissà che cosa stava facendo la Polizia - con chi doveva incontrarsi Nicolino, quel giorno che poi sparì. Un rapporto alla magistratura la Polizia l'aveva fatto, proprio contro gli «amici» di Selis denunciati da Grazia, basato su «notizie fiduciarie» e «fonti confidenziali». Il problema era andare avanti, mettere insieme indizi più consistenti, raccogliere prove. E anche trovare il cadavere non

sarebbe stato inutile, anzi. Sarà successo, scriveva il vicedirigente della Squadra Mobile tre giorni dopo la scomparsa di Nicolino, che i suoi complici «abbiano voluto scalzare il Selis divenuto per loro elemento quanto mai scomodo, potendo questi contare su amicizie e appoggi, sia nel luogo di detenzione sia all'esterno... Anch'egli è caduto nella trappola tesagli dai suoi stessi 'amici', che lo aspettavano probabilmente solo per dargli una lezione.» Il maresciallo Paradiso,

quello della «ricognizione di cadavere», aveva anche riassunto, per il magistrato, quanto risultava alla Polizia riguardo a uno dei più pericolosi criminali in giro per Roma. Oppure non più in giro perché tolto dalla circolazione. Scomparso, definizione ufficiale «irreperibile». «Selis Nicolino», scriveva il poliziotto-biografo, «diffidato ai sensi dell'art. 1 della nota legge, ha cominciato a interessare la Giustizia fin dal 1966, quando aveva appena quattordici anni. Da allora, salvo interruzioni per periodi di

detenzione, ha proseguito sulla via del crimine associandosi con pregiudicati più noti di lui dando così la scalata ai vertici della 'mala' e, considerando la sempre maggiore gravità dei reati e la pericolosità dei soci ai quali si affiancava, si può dire che abbia notevolmente progredito... «Agli atti d'Ufficio figura pregiudicato per detenzione e porto abusivo d'armi, violazione di domicilio, evasione, estorsione aggravata e inquisito per omicidio nonché imputato di falso in atto

pubblico. E' stato anche denunziato, unitamente a Danesi Renzo di anni ventisei, da Roma, che nella circostanza venne trovato in possesso di sostanze stupefacenti... «Da altre fonti documentabili, il presunto viene descritto come elemento violento e considerato capo incontrastato di una ben organizzata banda di malfattori gravitanti in quel di Ostia Lido e della vicina Acilia, dedita prevalentemente al traffico della droga. Per i suoi trascorsi viene considerato di indole

malvagia, senza rispetto della vita altrui. E' stato anche indiziato quale mandante, se non esecutore materiale, dell'omicidio commesso a Ostia in danno di Carrozzi Sergio...» Quando l'uomo dall'«indole malvagia» scomparve, era uscito dal manicomio giudiziario, in licenza, da appena tre giorni. Selis ci teneva a quel permesso, perché aveva molte questioni da affrontare e risolvere coi suoi amici - ma si poteva ancora chiamarli così? della Magliana. Mentre stava dentro,

infatti, tra Rebibbia e gli ospedali psichiatrici di Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia e Napoli, erano sorti dei contrasti che bisognava appianare. Quel ragazzo che veniva da Ostia e col quale avevano cominciato a collaborare due anni e mezzo prima, per l'omicidio di «Franchino er criminale», che si dava tante arie, piccoletto e col brillante al dito mignolo, capelli sempre curatissimi e pantaloni a zampa d'elefante, amico dei camorristi, pieno di carisma ma anche un po'

fanatico, non piaceva più ad Abbatino e compagni. S'era messo in testa di far entrare i napoletani nel traffico di droga gestito dalla Magliana, e quelli non volevano. Durante la primavera e l'estate del 1980, inoltre, aveva cominciato a collaborare con il gruppo di Fulvio Lucioli e Gianni «il roscio», aprendo un commercio parallelo, e però pretendeva che i soci di prima - cioè Toscano da un lato e Libero Mancone dall'altro continuassero a dare le «sovvenzioni» alla sua donna e

a suo fratello. L'«operaietto», in particolare, non sopportava più che Selis si atteggiasse a capo, non voleva più stare ai suoi ordini. Quella storia che adesso bisognava pagare anche il fratello Fabrizio poi - uno di cui quelli della Magliana non si fidavano per niente, dicevano che aveva cominciato a «farsi» di eroina - era davvero il colmo. Nicolino voleva la «doppia stecca» sui guadagni, una per sé e l'altra per Fabrizio, e dal carcere inviava ammonimenti e rimproveri. Quando Toscano mandò a

dire a Selis che si poteva rientrare negli affari della Magliana a pieno titolo, solo che lui avesse avuto pretese meno esorbitanti e reciso i legami con gli altri gruppi, Nicolino rispose «picche». Decideva lui, e anzi, sia Toscano che Mancone dovevano smetterla di lesinare il denaro spedito in carcere. Selis non riceveva più le «stecche» né le paghe settimanali, e minacciava rappresaglie. All'«operaietto» scrisse che doveva far avere subito sei milioni a sua madre da parte di

Vittorio Carnovale, «il coniglio», il cui figlio stava a casa della signora Selis senza che lui si degnasse di pagare le spese di mantenimento. E avvertì Mancone che se non riprendeva a rigare dritto, appena uscito gli avrebbe dato «una tiratina d'orecchie». Alla lettera sui sei milioni per la madre, Toscano - che a sua volta si stava allontanando da Mancone e avvicinando sempre più ad Abbatino, trovando quel coraggio di opporsi al suo capo che fino ad allora gli era mancato - non

rispose nemmeno. Mentre per spiegare alcune cose che non erano piaciute a Selis, l'«operaietto» gli scrisse di essere dispiaciuto di tante lagnanze, che tutto quello che decideva lo faceva anche nell'interesse di Nicolino; si rammaricava della sua amicizia con gruppi diversi, e gli mandava i saluti di Maurizio Abbatino e «Marcellone» Colafigli. Saluti sinistri, visto che quelli non aspettavano che il pretesto buono per liberarsi di Selis. Il pretesto arrivò con una

nuova lettera di Nicolino a Toscano, in cui Selis annunciava dal carcere l'arrivo di una partita di tre chili di eroina fornita da alcuni trafficanti siciliani. Bisognava gestirla con oculatezza. «Secondo gli accordi», racconterà Abbatino, «tale fornitura doveva essere ripartita al cinquanta per cento tra il suo e il nostro gruppo, ma Nicolino Selis ritenne di operare una ripartizione di due chilogrammi per i suoi e di uno per noi e, pertanto impartì al Toscano istruzioni in tal senso.

Si trattò di un passo falso, Edoardo Toscano non attendeva altro. Mi mostrò immediatamente la lettera, fornendo così la prova del 'tradimento' del Selis, col quale diventava non più rinviabile il 'chiarimento'. In altre parole, Nicolino Selis doveva morire...» (1) Anche Danilo Abbruciati ce l'aveva con Selis, perché quello, un anno prima o poco più, aveva ordinato a Toscano di ammazzarlo. E l'«operaietto» sarebbe stato pronto a premere il grilletto se gli altri amici della

Magliana non l'avessero fermato in tempo. Selis voleva eliminare Abbruciati perché conoscendo la sua amicizia con Francis Turatello, e avendo saputo che Francis stava per uscire di galera, temeva che i due volessero spadroneggiare su Roma tagliandolo fuori dagli affari. Ma non solo Toscano si fece convincere a non uccidere Abbruciati; decise anche di dirgli tutto, e da quel momento Danilo cominciò a covare propositi di vendetta, sempre rinviati. Adesso invece era arrivato il momento.

Amico di Nicolino era pure Gianni Travaglini, il proprietario dell'autosalone. E i «bravi ragazzi», tanto per far capire al commerciante di macchine con chi conveniva schierarsi, gli avevano piazzato due bombe davanti al negozio. «Seppi poi», racconterà Sicilia, «che in un momento successivo le stesse persone si recarono da Travaglini ingiungendogli esplicitamente di non avere più contatti con Selis... Dell'uscita dal carcere del Selis la 'Magliana' venne a conoscenza in quanto Travaglini fece

sapere che Selis insieme a Lucioli, forse il giorno stesso della scarcerazione, si era presentato nell'autosalone per ritirare una Golf blindata.» A Roma, Nicolino Selis era ospite dell'altra sorella, Anna Paola, e di suo marito Antonio Leccese, venticinque anni, per gli amici Tonino: faccia da ragazzino, con la passione per il calcio e per la «sua» Roma nel sangue, conosciuto da tempo dalla polizia. Per conto di Selis, suo cognato, Antonio Leccese, controllava il traffico

di droga nelle zone di Casal Bruciato e Tiburtino. S'era sposato da quattro mesi, e da tre sua moglie aspettava un bambino, ma nei fascicoli giudiziari risultavano altri dati: pregiudicato, ex confinato a Pistoia e in Basilicata, qualifica di «sorvegliato speciale». Giovane ma già «maturo» nel mondo del crimine, insomma. Nicolino era arrivato dal manicomio giudiziario di Sant'Eframo, a Napoli, sabato 31 gennaio, il 5 febbraio doveva tornare dentro. In cinque giorni voleva sistemare

tutto, soprattutto le questioni con Libero Mancone, il padrino di sua figlia, l'uomo che accompagnava sua moglie a fargli visita in carcere, le pagava le spese e le consegnava la paga settimanale, e che adesso gli si stava rivoltando contro. Leccese gli faceva da guardia del corpo, stava sempre al suo fianco, ma per maggiore sicurezza Nicolino s'era procurato la macchina blindata: sapeva come stavano andando le cose coi suoi amici, che c'era aria di tradimenti e poco da

fidarsi. Lo sapeva, ma cercava ugualmente il contatto con Toscano e Mancone. «Non ti preoccupare», gli disse l'«operaietto» quando si sentirono, «ti organizzo un appuntamento e sistemiamo tutto.» Tra le visite che Nicolino aveva organizzato nei cinque giorni di libertà ce n'era pure una in carcere, ai suoi vecchi compagni di Rebibbia. Nella prigione romana, in quei giorni, erano rinchiusi Gianni Girlando, «il roscio», e Pietro De Riz, l'interprete che aiutava

a organizzare i traffici di droga dalla galera. E c'era pure suo fratello Fabrizio. La mattina di lunedì 2 febbraio furono convocati tutti e tre nella saletta colloqui del carcere, c'erano visite. Nicolino comparve con il cognato e con un altro amico, Enrico, uno del «giro» coi suoi bravi precedenti penali per droga ed evasione; insomma, uno di quei summit in carcere in teoria vietati ma in pratica di ordinaria amministrazione. Si abbracciarono tutti, poi Girlando prese a parlare con

Enrico, mentre Selis si appartò con De Riz. Pietro era affezionato a Nicolino, il quale gli aveva promesso che una volta uscito dal carcere l'avrebbe preso a lavorare con lui. Selis voleva assumere De Riz come consulente per investire all'estero i soldi guadagnati con la droga, e utilizzarlo come guida per conoscere l'Oriente, un suo antico desiderio. Nel frattempo, gli pagava gli avvocati. Quel giorno, a Rebibbia, l'«interprete» avvertì Selis:

«Stai attento, perché qui si respira un'aria strana, mi sembra che le cose non si stiano mettendo bene». Era un po' di giorni che De Riz notava uno strano silenzio da parte di Girlando, un'atmosfera di cupa tranquillità, come se ci fosse stato qualche lutto. E siccome nessuno era morto, l'impressione era che qualcuno stesse per morire. «Non ti preoccupare», risposte Nicolino, «adesso chiarisco tutto. E poi Lucioli mi ha fatto trovare una Golf blindata, con quella sono al sicuro.»

Mentre Selis gli diceva queste parole, De Riz alzò lo sguardo e incrociò gli occhi del «roscio» puntati nella loro direzione. Uno sguardo serio, grave come l'aria del carcere. Alla fine del colloquio, nuovi saluti, e nuovo abbraccio tra Girlando e Selis. Mentre rientravano nelle celle, De Riz, sempre più preoccupato, chiese a Girlando che cosa stesse succedendo. «Cerca di farti i cazzi tuoi», fu la risposta. La sera di quello stesso lunedì, in casa di Leccese, arrivarono Edoardo Toscano,

Maurizio Abbatino e Marcello Colafigli. «Ciao, Nicolino», «Ciao.» Selis li aspettava, ma quando lui e il cognato videro che erano armati si irrigidirono e chiesero una spiegazione. «State tranquilli», sorrisero quelli, «ci tocca girare armati perché siamo in guerra coi Proietti, no? Ma che andate a pensare!» Chiacchierarono del più e del meno, degli affari rimasti in sospeso, di quanti se ne potevano fare se quelli della Magliana si fossero decisi a comprare l'eroina da Fulvio Lucidi. Selis diceva pure che

doveva ricevere ancora cento milioni per i vecchi commerci di droga, e poi voleva parlare con Mancone, dov'era Mancone? Toscano prese la palla al balzo: «Possiamo organizzare un appuntamento, va bene domani?» Volevano tirarlo fuori di casa, e possibilmente solo, senza quel Leccese che gli stava sempre attaccato. «Va bene, domani», disse Nicolino. La casa di Tonino al quartiere Tiburtino, ormai, era diventata una specie di ufficio, dove Selis riceveva come fosse ancora un boss. La mattina del

3 febbraio, martedì, si presentò Lucioli. Discussero di affari, e di come Nicolino stesse cercando di risolvere i problemi con Toscano e Mancone: «Li devo incontrare, sistemerò tutto». Subito dopo Selis, sua moglie e Leccese uscirono. Dovevano andare in tribunale, per discutere la semilibertà di Nicolino, ma arrivati lì scoprirono che la causa era stata rinviata d'un mese. Passarono all'appuntamento successivo: la visita a Carmen D'Ortenzi, sorella di Alessandro «lo zanzarone» e moglie di

Mariano, un compagno di detenzione di Selis a Sant'Eframo. Andarono, e si fermarono a pranzo. Nel primo pomeriggio tornarono a casa, poi, verso le quattro del pomeriggio, Leccese e Selis scesero al bar. Tonino chiese un gettone a Franca, la padrona, e lo consegnò a Nicolino, che andò al telefono, fece un numero e parlò. «Mentre io svolgevo il mio lavoro dietro il bancone», racconterà la barista alla Polizia, «ho sentito, nella breve telefonata fatta da Nicolino,

soltanto queste parole: 'Altrimenti non faccio in tempo... Se ti va bene alle cinque davanti alla Fiera di Roma'. Dopo questa telefonata tutti e due sono usciti dal locale e sono saliti a bordo della A 112 di Tonino.» Quando arrivarono a via Cristoforo Colombo, gli altri erano già lì. Davanti alla Fiera di Roma, come avevano stabilito, Selis e Leccese trovarono Abbatino e Toscano che li stavano aspettando. «Ciao, Nicolino.» «Ciao, dov'è

Libero?» «A casa sua, adesso ci andiamo.» Selis si rivolse al cognato: «Tonino tu che fai?» «Devo tornare indietro, a firmare.» «Vabbè, tanto mi pare che sia tutto tranquillo. Io vado con loro, ci vediamo dopo.» «Ciao.» «Ciao.» Pareva tutto tranquillo perché Selis non s'era accorto che, nascosti tra le macchine, poco più in là, c'erano De Pedis, Abbruciati e qualche altro che guardavano senza essere visti. Presenze poco rassicuranti per lui, che l'avrebbero messo in allarme. Ma non se ne accorse,

e così autorizzò Leccese ad andarsene, perché entro le 19.30 doveva essere al commissariato di zona; era un «sorvegliato speciale», ogni giorno una firma davanti ai poliziotti. Si divisero. Selis montò sulla Renault 5 di Abbatino, con lui e Toscano, per andare ad Acilia da Mancone; Tonino, salutato suo cognato, risalì sulla A 112 e riprese la strada di casa. Dopo la «firma», Leccese salì nel suo appartamento. La moglie non c'era, aveva trovato solo zia Cristina e nonna

Santina, la donna che l'aveva tirato su dall'età di un anno, da quando sua madre se n'era andata di casa. Pochi minuti dopo Tonino era di nuovo in strada, entrò nel bar, fece una telefonata, uscì e salì sulla A 112. Nascosti dietro un furgone parcheggiato pochi metri più in là, c'erano Antonio Mancini e Danilo Abbruciati, pronti a far scattare l'agguato. Leccese non aveva ancora infilato le chiavi nel cruscotto quando uno dei due killer, Mancini, fece partire il primo proiettile, che entrò nella

fiancata sinistra dell'auto; il secondo trapassò lo sportello del guidatore e colpì Tonino a un rene. La vittima fece in tempo ad aprire la portiera, uscire e arrancare verso casa, il più in fretta possibile, ma adesso era spuntato fuori anche Abbruciati, che gli scaricò altri cinque colpi con una 357 Magnum. Tonino cadde davanti a una Simca 1000, il conducente bloccò la macchina e scese per soccorrerlo. Insieme ad altri passanti lo caricò su una BMW che prese la

strada dell'ospedale, ma quando vide Antonio Leccese, giovane malavitoso in attesa di diventare papà, il medico di guardia del Policlinico non poté fare altro che scrivere, nella sua relazione, «giunto cadavere, salma a disposizione dell'autorità giudiziaria». Gli assassini scapparono in moto, ad attenderli sulla Kawasaki c'era «Renatino» De Pedis, che caricò i due amici e sgattaiolò nel traffico; tutti notarono quel bolide con tre persone a bordo, nessuno riuscì a fermarlo. Il resto l'ha

raccontato, dopo tredici anni, Antonio Mancini al giudice istruttore: «Ci recammo a casa di mia madre, a San Basilio, per lasciare la moto. Per evitare di portarci dietro le pistole, dovendo raggiungere in taxi la Garbatella, le lasciammo in custodia a mio fratello, con l'intesa che saremmo andati a riprenderle il giorno dopo; se ciò non fosse stato possibile lo incaricammo di disfarsene, cosa che fece gettandole nel fiume Aniene, sotto un ponticello nei pressi di Ponte Mammolo, sulla Tiburtina.»

I giornali scrissero che Tonino faceva parte del gruppo di Giuseppucci, «er negro», ammazzato cinque mesi prima a Trastevere, e forse era stato ucciso nella faida seguita a quella morte; ancora non immaginavano che i suoi assassini erano proprio gli amici di Giuseppucci. Qualcuno arrivò perfino ad attribuire l'esecuzione a fantomatici gruppi antidroga, come i «Nuclei armati contro gli spacciatori». Nell'obitorio del Policlinico, a riconoscere «senza alcun

dubbio il proprio fratello Antonio», fu Alessandra Leccese, ventisette anni compiuti da poco. Poi il brigadiere di turno fece l'elenco degli oggetti «rinvenuti addosso al giunto cadavere»: il libretto di sorvegliato speciale, il certificato sostitutivo della carta d'identità, ottocentomila lire in contanti, un gettone telefonico, una collanina completa di medaglione con fotografia, la fede nuziale, un anello «di metallo giallo con pietra bianca», tre chiavi, accendino e sigarette, un

proiettile calibro 38 special. E il Rolex d'oro. La mattina del 4 febbraio, in Questura, comparve Anna Selis, ventisette anni da compiere sei giorni dopo, sposata in Leccese da quattro mesi e vedova Leccese da poco più di dodici ore. La sera prima, raccontò, era uscita di casa verso le diciassette, salutando suo marito Tonino davanti al portone del palazzo: «Nel far rientro a casa ho trovato, nei pressi della mia abitazione, molta gente in strada, e nell'occasione ho notato anche

la presenza di alcune auto della Polizia. Giunta sotto il portone sono stata messa al corrente da alcuni conoscenti che poco prima alcuni sconosciuti avevano sparato alle gambe a mio marito, per la quale ragione era stato accompagnato d'urgenza al Policlinico Umberto Primo. Mi sono recata d'urgenza presso il noto nosocomio accompagnata non ricordo da chi, e da quei sanitari sono stata messa al corrente che mio marito Leccese Antonio era morto. Non ho alcun sospetto circa gli

assassini di mio marito, pur ripromettendomi di collaborare con la massima disposizione con gli organi di Polizia al fine di identificare i colpevoli». Tonino era morto, il cadavere stava al Policlinico; Selis era sparito, nessuno l'aveva più visto né sentito. Ormai era quasi mezzanotte, a casa Leccese si piangeva ma ci si guardava anche negli occhi con preoccupazione. Che fine aveva fatto Nicolino? Maria Antonietta, la moglie, telefonò a Carmen D'Ortenzi, l'amica da

cui erano stati a pranzo, e insieme decisero di andare a chiedere notizie nelle case degli amici dei loro uomini: Toscano, Abbatino, Mancone, Colafigli. Una via crucis senza esito che Maria Antonietta ricostruì due giorni dopo, stazione per stazione, al poliziotto che l'interrogava: «Mi sono recata in via Greve presso le abitazioni di Edoardo e Maurizio, entrambi amici di Nicolino, senza peraltro rintracciare nemmeno loro. Ho anche telefonato a casa dei due, e mentre a casa di

Edoardo non mi ha risposto nessuno, in quella di Maurizio una voce di donna mi ha detto che lui non c'era. Mi sono quindi recata ad Acilia, presso l'abitazione di un altro amico di Nicolino a nome Libero, ma dopo aver suonato un paio di volte mi sono allontanata perché impaurita dal cane di guardia. Non mi sono potuta recare presso l'abitazione di Marcello, in quanto sconosco l'ubicazione e il numero telefonico. Ho fatto anche una serie di telefonate ai vari pronti soccorsi degli ospedali di Roma,

senza però appurare alcunché. Sono ritornata quindi a casa...» Da Firenze arrivò a Roma pure Grazia Selis, quella che per prima avrebbe rivelato alla polizia i sospetti delle donne sulla morte di Tonino e la scomparsa di Nicolino. Si presentò in Questura alle dieci e mezza di sera. «Sia io, che mia sorella, che i familiari del Leccese», disse al maresciallo, «abbiamo collegato la sua uccisione a uno stato di contrasto che si era venuto a creare tra mio fratello Nicolino e il gruppo di amici di Toscano

Edoardo e Mancone Libero. Questo è il motivo della mia presenza in questi uffici. Sono preoccupata, così come lo è mia sorella, che possa essere successo qualcosa a mio fratello Nicolino da parte delle persone con cui doveva incontrarsi e che potrebbero essere le stesse che, conoscendo gli stretti legami tra mio fratello e il Leccese, si siano rese eventualmente responsabili dell'omicidio di quest'ultimo. Per quanto è di mia conoscenza mio fratello Nicolino era legato da un rapporto di amicizia con

Mancone Libero, Toscano Edoardo, Abbatino Maurizio, Colafigli Marcello, De Angelis Massimo e tale Mancini detto 'l'accattone'. Nel corso della detenzione di mio fratello questi amici lo hanno abbandonato, nel senso che non andavano più a fargli visita, né gli mandavano più soldi, cosa che invece facevano prima regolarmente. Per tali fatti so che Nicolino ebbe a lamentarsi... Preciso che fra tutti, Edoardo Toscano sembrava essere rimasto più legato a Nicolino...»

Proprio Toscano, due giorni più tardi, si fece vivo con una delle donne che cercavano Nicolino, Carmen. Il 6 febbraio il commissario di Polizia Gianni De Gennaro - futuro direttore della Direzione Investigativa Antimafia e poi vicecapo della Polizia, già allora impegnato nelle indagini su Cosa Nostra ricevette in Questura l'inattesa telefonata di Grazia Selis, che lo informava degli strani movimenti dell'«operaietto», una vecchia conoscenza del dottor De Gennaro. Il commissario fece rapporto

al dirigente della Mobile: «Selis Grazia mi ha riferito che durante la giornata di ieri la loro amica D'Ortenzi Carmen aveva ricevuto due telefonate da parte di Toscano Edoardo, nelle quali lo stesso con voce tremante aveva dichiarato di ignorare dove fosse il Selis Nicolino, aggiungendo che non rispondeva al vero che il giorno della sua scomparsa egli avesse appuntamento con lui...» Ma Carmen, riferì il commissario, aveva sentito dire direttamente da Nicolino che quel giorno si doveva incontrare con Toscano

e Libero Mancone, e rispose che credeva alle sue orecchie più che alle parole di Edoardo. Anche i poliziotti, come le donne di Selis, fecero il giro delle case degli amici dello scomparso, senza trovare nessuno. Di Abbatino, Toscano, Colafigli e Mancone s'erano perse le tracce, al magistrato che conduceva le indagini giunsero solo verbali «di vana perquisizione». Sempre il 6 febbraio la moglie di Toscano, Antonietta Carnovale - sorella di Vittorio «il coniglio» e Giuseppe «il tronco» - disse

alle «guardie» che non vedeva suo marito da tre giorni, giusto dalle ore ventitré del 3 febbraio. Ma durante il giorno, volle precisare la signora, Edoardo era stato sempre in famiglia, a festeggiare il compleanno della figlia Simona. La bambina compiva sei anni, ed erano andati tutti a casa della nonna, dove il marito era rimasto, appunto fin verso le ventitré, per poi uscire senza dire dove sarebbe andato. Da allora non s'era più visto né sentito, ma la signora Antonietta non si preoccupava:

«Edoardo è solito assentarsi da casa senza dare contezza di sé, anche per periodi di qualche giorno...» Dieci giorni più tardi, il 17 febbraio, una pattuglia del commissariato di Polizia di Ostia Lido identificò e fermò «il noto pregiudicato Mancone Libero», per il quale c'era un ordine di rintraccio della Squadra Mobile che lo sospettava dell'omicidio Leccese. Nel cortile della sua casa di Acilia erano parcheggiate due moto Kawasaki.

Maurizio Abbatino si presentò in Questura un mese dopo l'assassinio di Tonino Leccese e la scomparsa di Nicolino Selis, il 2 marzo 1981, con l'aria di quello che dice «Mi cercavate? Eccomi qua.» I poliziotti volevano la sua versione dei fatti: come mai non era in casa il 4 febbraio, quando erano andati a cercarlo? «Avevo litigato con mia moglie», rispose «crispino», «allora sono uscito e ho girato per conto mio tutta la notte. Sono tornato il giorno

dopo, all'ora di pranzo.» Il maresciallo verbalizzò senza credere a una parola, Abbatino proseguì: «Dalla stampa ho saputo dell'uccisione di Leccese Antonio. L'avevo visto il giorno prima della sua morte in quanto mi sono recato presso la sua abitazione per salutare il Selis Nicolino, che sapevo era venuto per alcuni giorni di licenza. In casa vi era anche il Leccese Antonio, che io conosco ma con cui non ho molta amicizia. Preciso che quando mi sono recato in casa del Leccese con me vi erano anche Toscano

Edoardo e Colafigli Marcello. Non conosco Mancone Libero, né Mancini Antonio, né De Angelis Massimo... «Non mi ricordo cosa ho fatto il giorno 3 febbraio. Posso assicurare che, quel giorno, non ho incontrato né il Toscano né il Colafigli; mi ricordo che la sera del 2, quando ci siamo lasciati, il Toscano mi disse che il giorno successivo era il compleanno della figlia, e che non ci saremmo incontrati... Il giorno 5 febbraio mi sono incontrato con il Toscano, anche perché abita nella mia

stessa via, e insieme abbiamo commentato la morte del Leccese. Siamo rimasti alquanto sorpresi dell'accaduto, senza però darci una spiegazione valida... «Dopo la morte del Leccese non ho avuto più modo di sentire Selis Nicolino, né so dove possa trovarsi attualmente. Non so nemmeno dove possa trovarsi Toscano Edoardo, ma ho saputo che anche lui, spontaneamente, si presenterà all'Autorità competente. Non ho altro da aggiungere».

Undici anni e otto mesi più tardi, il 6 novembre 1992, dopo che una sentenza aveva mandato assolti i suoi amici d'un tempo, Maurizio Abbatino si sedette davanti al giudice istruttore e rivelò quello che aveva taciuto nel 1981. Parlò dell'appuntamento davanti alla Fiera di Roma, delle moto che avevano seguito Leccese, di quello che accadde nelle ore successive: «Il Selis, dopo che Antonio Leccese si era allontanato, salì a bordo di una Renault 5 in mio possesso, in compagnia mia e di Edoardo

Toscano, per recarsi a casa di Libero Mancone in Acilia. Sotto il sedile di guida io avevo occultato la pistola Smith & Wesson calibro 22 da tiro, munita di silenziatore non artigianale, mentre a casa di Libero Mancone, sul tavolo da soggiorno, occultata in una scatola di cioccolatini, si trovava una pistola calibro 7.65, la quale sarebbe dovuta servire al Toscano per eseguire l'omicidio. A casa di Libero Mancone, peraltro, erano in attesa lo stesso Mancone e Vittorio Carnovale. A

conoscenza di ciò che sarebbe dovuto accadere, e pronto a intervenire nella fase dell'occultamento del cadavere, era Giuseppe Carnovale, il quale si trovava nei pressi della casa ma non all'interno. «Quando giungemmo, mentre Edoardo Toscano e Nicolino Selis entrarono immediatamente in casa, io che li avevo accompagnati al cancello, con la scusa di prendere un giubbotto in macchina, tornai a recuperare la pistola, avendo cura di nasconderla sotto il giubbotto e

impugnandola, di modo che, entrato in casa, esplosi immediatamente un colpo alla tempia sinistra del Selis, il quale si trovava di fronte al tavolo con le spalle rivolte verso la parete di destra. «La stanza nella quale fu commesso l'omicidio era il salone-ingresso, a piano terra della villa di Mancone. Si trattava di una stanza di circa venticinque, trenta metri quadrati, di forma approssimativamente rettangolare. La porta d'ingresso dal giardino è

posizionata a ridosso della parete di sinistra. Sulla destra della porta, addossato alla parete, vi era un divano. Sulla parete lunga si trovava un mobile sviluppantesi per lunghezza; di fronte a tale mobile vi era il tavolo rettangolare. «Nicolino Selis si trovava di fronte al tavolo con le spalle al suddetto mobile, sicché esplodergli il colpo sulla tempia sinistra fu del tutto naturale, considerata anche la lunghezza dell'arma, che impugnavo con la mano destra. Edoardo

Toscano si trovava con le spalle rivolte verso la parete di fondo, in prossimità del lato breve del tavolo, dove era appoggiata la scatola di cioccolatini contenente la pistola di cui ho detto. Alle spalle del Toscano si trovavano il Mancone, dietro il mobile-bar che faceva angolo tra la parete di fondo e la parete sinistra, nonché Vittorio Carnovale, che si trovava sulla destra del mobile-bar. «Il corpo del Selis venne poi trascinato verso il mobile-bar, davanti al quale si trovavano degli sgabelli. A quella altezza,

venne esploso verso il Selis un colpo dal Toscano, con la pistola che si trovava sul tavolo, occultata come ho detto: mi sembra di ricordare che a quella altezza anche Carnovale abbia esploso un colpo contro il Selis, mentre Mancone si procurava dei sacchi di plastica per l'immondizia. Io e Toscano non ci siamo occupati dell'occultamento, fase curata dai predetti Mancone e Carnovale, nonché da Giuseppe Carnovale detto 'il tronco'. In precedenza erano state

preparate la buca e la Giulietta parcheggiata nei pressi della villa, necessaria per il trasporto del cadavere». (4) Nella casa dell'omicidio c'era pure Antonio Mancini. A Selis avevano raccontato che l'«accattone» s'era separato da quelli della Magliana, e quando lo vide si stupì. «E tu che ci fai qui? Che brutta fine che hai fatto!» gli disse. «Tu piuttosto pensa alla fine che stai per fare», rispose Mancini. Selis ormai aveva capito tutto, e fu in quel momento che Abbatino entrò e gli sparò il primo colpo

alla tempia. (5) A controllare che il morto fosse proprio Nicolino, arrivarono subito dopo Abbruciati e De Pedis: Danilo aveva saputo del piano ma non si fidava, temeva che la storia dell'omicidio fosse una scusa per tendergli una trappola e farlo fuori; per questo volle guardare in faccia il cadavere. Avuta la certezza che si trattava di Selis, andò ad ammazzare Leccese con De Pedis e Mancini. La buca per seppellire Nicolino era stata scavata al

mattino, lungo l'argine del Tevere. Prima di buttarcelo e ricoprirlo con pepe e calce, i suoi assassini si divisero le cinquecentomila lire che aveva in tasca. Il morto portava anche il solito Rolex d'oro e l'anello col brillante al dito mignolo; qualcuno voleva tenerseli, ma sarebbe stato pericoloso, e così i due oggetti preziosi finirono nel fiume. Dopo l'esecuzione Abbatino e qualche altro tornarono al bar di via Chiabrera, dove era stato fissato l'appuntamento con quelli che nel frattempo erano

andati a uccidere Leccese. Incontrarono Claudio Sicilia. «Erano preoccupati», racconterà il «vesuviano», «perché non vedevano arrivare De Pedis e gli altri. Quando giunsero tutti si abbracciarono, congratulandosi per la morte dei due 'schifosi'. Decisero di festeggiare l'evento con una cena.» Nonostante i due morti, però, l'operazione non era ancora conclusa. C'era da eliminare anche Fulvio Lucioli, socio di Selis e per di più -

spiegherà Abbatino «allontanato dall'organizzazione in quanto non era concepibile che tollerasse di essere 'cornuto' per trafficare eroina in proprio nella zona di Dragona-Acilia.» Si raccontava infatti che sua moglie andasse a letto con uno dei due ragazzi che lo aiutavano nello spaccio, e che «il sorcio» non dicesse nulla per non perdere la sua collaborazione. Ma Lucioli doveva morire anche perché così i suoi assassini avrebbero potuto impadronirsi della fetta

di mercato di droga che controllava. Sarà proprio la vittima designata a raccontare al giudice istruttore come e quando provarono a ucciderlo: «Due giorni dopo, tornando a casa, trovai ad attendermi Toscano, Colafigli e Abbatino, insieme ad altre persone che ora non ricordo. Io ero alla guida della macchina blindata del Selis, che nel frattempo usavo per paura che volessero farmi fuori. Mi accostai al gruppo, aprii di pochi millimetri il vetro blindato e chiesi a

Toscano cosa volesse. Mi disse di scendere un attimo perché volevano parlarmi. Io ebbi timore e me ne andai. Preciso che, essendo sorvegliato speciale, dovevo rientrare a casa a orari fissi, e questo rendeva più difficili e pericolosi i miei spostamenti. Dopo due o tre giorni (...) feci in modo di avere con Toscano un contatto telefonico. Nel corso della telefonata Toscano mi disse che la sorella di Selis li aveva denunciati alla Polizia per la scomparsa del fratello. A un certo punto sentii al telefono la

voce di Colafigli, il quale mi disse che mi riteneva responsabile delle dichiarazioni alla Polizia della sorella di Selis, e subito dopo riattaccò. Da allora scomparii dalla circolazione.»8 Giuseppe Magliolo, trentatré anni, chiamato «il killer» perché in carcere aveva commesso vari omicidi su commissione, conosceva Nicolino Selis da quando erano ragazzini. Nel 1975 lui e Nicolino si ritrovarono a Regina Coeli, e insieme evasero con

altre dieci persone tra cui Laudavino De Sanctis, «Lallo lo zoppo», uno specialista dei sequestri di persona negli anni Settanta. Fu una «vacanza» dalla galera di breve durata, poco dopo «il killer» venne riacciuffato dalla polizia mentre si nascondeva in una baracca, all'Idroscalo di Ostia. Rientrato in cella, Magliolo s'era politicizzato, avvicinandosi ai detenuti delle Brigate Rosse. Ma non aveva reciso i collegamenti coi suoi «colleghi» comuni, primo fra tutti proprio Nicolino Selis, al quale era

rimasto molto legato. E da quando seppe, in carcere, della morte di Leccese e della scomparsa di Nicolino, cominciò a sentirsi come un leone in gabbia, pronto a uscire e sbranare gli assassini dei suoi amici. Ne parlava con tutti, era assetato di vendetta. Lasciò il carcere speciale di Ascoli Piceno il 10 ottobre del 1981, con la consueta qualifica di «sorvegliato speciale», obbligo di firma tutte le sere alle venti al commissariato di zona, e si mise subito a caccia di notizie sui carnefici di

Leccese e Selis. Non gli fu difficile individuarli, ma non fu difficile nemmeno per le sue potenziali vittime sapere che c'era qualcuno in circolazione pronto ad ammazzarli, e quindi da ammazzare. Cominciò una reciproca caccia all'uomo, sotto gli occhi distratti o inermi delle forze dell'ordine, che - stando al significato delle parole avrebbero dovuto "sorvegliare specialmente" i protagonisti di questa guerra. Non faceva segreto, Giuseppe Magliolo detto «il killer», capelli lunghi, baffoni

alla messicana e fama di assassino senza scrupoli, della missione che si era dato. Anche perché con uno di quelli che doveva far fuori, Edoardo Toscano, c'era un vecchio conto rimasto in sospeso: l'«operaietto» e il fratello di Magliolo, un ragazzo soprannominato «er pollo», avevano partecipato a una rapina sfociata in un conflitto a fuoco nel quale il «pollo» era rimasto ucciso. Giuseppe aveva sempre pensato che Toscano fosse il responsabile della morte del fratello, e l'avrebbe

ammazzato già all'epoca se Antonio Mancini, suo compagno di carcere, non l'avesse convinto a soprassedere. Adesso era venuto il momento di presentare un conto unico, per il «pollo» e per Selis. Due o tre volte Magliolo si presentò da Lucioli. «Sappiamo chi sono quegli infami, aiutami a fargliela pagare», gli propose. Ma il «sorcio» non ne volle sapere, l'aveva scampata una volta e gli era bastato. Andò anche da Anna Selis, la vedova di Leccese. «Sto raccogliendo

informazioni, recupererò il corpo di Nicolino e troverò gli assassini suoi e di Tonino», le promise. A casa di Lucioli, negli stessi giorni, aveva bussato pure Edoardo Toscano, carico anche lui di foschi propositi: «C'è in giro 'il killer', dice che vuole farci la pelle, lo toglierò di mezzo». Per lui e gli altri «bravi ragazzi» era una necessità, magari faticosa ma irrinunciabile: quando si uccide qualcuno, per vendetta o per «affari», comincia un conflitto che si può considerare chiuso

solo con l'annientamento totale degli amici del primo morto. Perché quelli cominciano con le rappresaglie, e non si può stare tranquilli finché non sono stati tolti di mezzo tutti. Altrimenti rimarrà sempre il rischio, anche dopo anni, di essere uccisi da un vendicatore magari solitario che ha ancora in testa il suo amico morto ammazzato. A chi lo avvertiva dei piani dell'«operaietto» e dei pericoli che correva, Magliolo spiegava di esserne al corrente, ma che ormai aveva ingaggiato una gara dalla quale non poteva

ritirarsi. Quando stava in macchina guardava in continuazione lo specchietto retrovisore, per vedere se qualcuno lo seguiva. Sua madre una volta lo sentì dire al telefono: «Sì, lo so che quello ce l'ha con me... Facciamo a chi fa prima...» Fecero prima gli altri. La sera del 24 novembre, martedì, il «sorvegliato speciale» chiamato «killer» era in libertà e a caccia delle sue prede ormai da un mese e mezzo. Per quel giorno non era accaduto nulla, restava solo la firma al

commissariato. Lasciò la casa di via Duca di Genova, a Ostia, che mancavano pochi minuti alle venti, arrivò a piedi alla sua Renault 5 parcheggiata lì vicino. Mentre apriva lo sportello un'Alfetta 2000 lo affiancò, un uomo scese e sparò il primo proiettile. Giuseppe Magliolo, colpito alla schiena, ebbe la forza di attraversare la strada e cominciare a correre. L'uomo con la pistola lo inseguì, e così l'Alfetta con altre due persone a bordo.

Partirono ancora due o tre colpi, «il killer» tentò di reagire, tirò fuori dal borsello la sua 7.65, ma non fece in tempo a usarla. Mentre scappava lo raggiunsero altri proiettili, cadde qualche decina di metri più in là. Il proprietario del bar che stava abbassando le saracinesche del locale si affrettò a barricarsi dentro, Magliolo si trascinò ancora per qualche centimetro sui gomiti e sulle ginocchia, ma il suo inseguitore lo raggiunse e sparò il colpo di grazia, alla testa. L'assassino risalì

sull'Alfetta, che se ne andò sgommando; sulla strada rimase il cadavere del «killer», raggomitolato su un fianco, illuminato dalla luce di un lampione. ***

7. COSA NOSTRA E I MISTERI D'ITALIA.

Tutto cominciò con l'indagine su un traffico clandestino di opere d'arte e droga. Gli uomini della Squadra Mobile erano arrivati a un tal Virgilio Fiorini, romano, cinquantacinque anni, casa sulla Cassia e studio artistico delle parti di via Margutta, la strada dei pittori. Fecero le

perquisizioni, e oltre a quadri di valore, litografie di Guttuso e dipinti del Batoni, denaro in contanti e strani congegni elettronici, saltarono fuori i documenti di un altro appartamento del centro storico, via delle Carrozze 55, di proprietà della società Gemelli I, amministratore unico Virgilio Fiorini. «Le chiavi di via delle Carrozze ce l'ha Guido Cercola», disse Fiorini ai poliziotti, chiamando in causa un'altra delle persone già coinvolte nell'indagine.

Andarono in quella casa, sistemata tra piazza di Spagna e via del Corso, e come in una caccia al tesoro, trovarono nuove indicazioni. L'appartamento sembrava disabitato, ma da una cassaforte aperta con la fiamma ossidrica spuntarono gioielli di ogni genere e valore, mazzette di banconote per oltre duecento milioni, appunti scritti in codice e numeri di telefono, la fattura rilasciata da un negozio di abbigliamento intestata «sig. Mattaliano», una fede matrimoniale con la scritta

«Pippo e Sara 20-12-61», alcune foto formato tessera di un signore dall'apparente età di cinquant'anni, occhiali, baffi sottili, papillon su camicia bianca. Ci volle poco a riconoscere in quel signore il boss mafioso Giuseppe «Pippo» Calò, latitante, quattro mandati di cattura sulle spalle di cui uno firmato dai giudici di Palermo, il «pool» di Falcone e Borsellino che stava istruendo il maxiprocesso a Cosa Nostra sulla base delle dichiarazioni di Tommaso Buscetta. E quante

ne aveva dette, Buscetta, sul conto di Pippo Calò, il «cassiere» e l'«ambasciatore» della mafia a Roma. Era la fine di marzo del 1985. Nella casa disabitata di via delle Carrozze, dunque, era passato Calò. Ma lui dov'era? Le indagini proseguirono, su una busta trovata a casa di Fiorini c'era scritto «Tito Livio», e venne fuori che Fiorini era amministratore unico anche della società Ila, proprietaria di un appartamento in via Tito Livio 76, quartiere Monte Mario. Gli agenti arrivarono in

quella strada elegante, silenziosa e protetta dal verde. Sul citofono del palazzo che cercavano, trovarono la targhetta «Ilva»: corrispondeva all'attico, scala A interno 6. La sera del 29 marzo vennero disposte operazioni di «osservazione e discreto accerchiamento ad ampio raggio della zona interessata». C'erano poliziotti in borghese dappertutto: in strada, sui terrazzi adiacenti da dove si poteva vedere l'attico con le luci accese e le persone che si muovevano all'interno, nel

garage. Dalla finestra dell'ultimo piano, di tanto in tanto, si affacciava una signora, guardava in basso e rientrava. Intorno alle ventuno, quando i poliziotti aspettavano già da un po', giunse una Fiat Uno «di colore scuro» - forse a causa del buio, chi stese il rapporto non seppe essere più preciso con due persone a bordo, che si fermò sotto il palazzo. Scese un uomo, citofonò dove c'era scritto «Ilva», parlò pochi secondi e tornò verso la macchina. «E' Calò», sibilò l'agente di

Polizia al collega che gli stava a fianco. Decisero di intervenire. L'agente si avvicinò e ordinò all'uomo di fermarsi, quello provò ad accelerare il passo, ma fu bloccato. Un paio di colpi sparati in aria fecero impallidire il prigioniero, che abbandonò ogni velleità, e richiamarono sulla strada tutti i poliziotti appostati nella zona. «Giuseppe Calò, lei è in arresto.» «Vi state sbagliando, non sono Calò», farfugliò il boss mostrando una patente intestata a un certo Mario Aglialoro. Non disse di più.

Il «cassiere» di Cosa Nostra, dunque, era caduto in trappola, e con lui il suo «luogotenente» Antonino Rotolo, trentanove anni, a sua volta ricercato con mandato di cattura del giudice istruttore Giovanni Falcone. Una squadra di poliziotti, mitra e pistole spianate, salì in casa e bloccò un altro siciliano latitante, Lorenzo Di Gesù, insieme con Rosaria Mattaliano, moglie di Calò, documento falso intestato a Carmela Larosa. Ma il vero cognome della signora era lo stesso che compariva sulla fattura trovata in via delle

Carrozze, e la fede custodita nella cassaforte era quella di «don» Pippo, che con donna Rosaria si avviava a festeggiare le nozze d'argento. Anche in questo appartamento c'era una cassaforte a muro, piena di gioielli, banconote per settantasei milioni, documenti falsi, alcune ricetrasmittenti. Sistemato in una stanza, gracchiava una specie di «baracchino», sintonizzato sulla frequenza-radio della Polizia. Arrestati Calò e gli altri, gli

agenti rimasero a controllare il palazzo, e il giorno dopo a cadere nella rete fu Antonietta Sansone, moglie di Rotolo. Quando i poliziotti la bloccarono, la donna strappò la patente di guida che aveva con sé, naturalmente falsa, ma non fece in tempo a distruggere l'agendina piena di annotazioni in codice. Le indagini, nei giorni immediatamente successivi, si fecero febbrili, nessuno avrebbe immaginato che da una banale inchiesta su opere d'arte forse rubate si sarebbe

arrivati a spezzare l'anello della catena che univa la mafia alla capitale. In ogni casa perquisita si trovavano tracce di altre case, e a ogni nome che veniva fuori si abbinavano società finanziarie e immobiliari. Guido Cercola, per esempio, risultò socio della cooperativa edilizia Delta, di cui era stato presidente Domenico Balducci, un imprenditore ammazzato tre anni e mezzo prima, chissà perché e chissà da chi. E lo stesso Cercola aveva contatti con un certo Federico, un tecnico elettronico al quale era

stata ordinata la realizzazione di apparecchiature simili a quelle trovate in casa di Fiorini, che si scopriranno essere telecomandi per esplosivo; quel Federico, scoprirà la Polizia, altri non era che Friedrich Schaudin, nato a Zagabria nel 1939 ma di nazionalità tedesca, residente in Italia. Furono individuate altre società, appartamenti e ville, decine di nomi comparvero nell'elenco dei favoreggiatori e dei soci in affari. C'era Ernesto Diotallevi, un ex facchino dei mercati generali divenuto

costruttore, già socio di Balducci e insieme a lui collegato alla banda della Magliana attraverso Danilo Abbruciati; e c'era Gianni Travaglini, il venditore di macchine da cui si servivano i «bravi ragazzi»: la Fiat Uno di Calò proveniva dal suo autosalone. A Tuscania, in provincia di Viterbo, venne individuata una villa che era stata utilizzata sia da Cercola che da «don» Pippo. Un'altra residenza di campagna fu localizzata a Poggio San Lorenzo, in provincia di Rieti,

frazione Case Sparse. Era una villa con un vasto terreno intorno, acquistata da Cercola per duecentocinquanta milioni tramite la società Hermes, sua e del fratello; alle trattative, disse il venditore alla Polizia, aveva partecipato anche un signore che Cercola gli aveva presentato come suo cognato. Gli agenti mostrarono al testimone alcune fotografie. «Riconosce il cognato in una di queste persone?» «Eccolo, è lui», disse l'ex proprietario della villa indicando la foto di Pippo Calò.

Durante la perquisizione a Poggio San Lorenzo, dietro un'intercapedine costruita in cantina, furono trovate due valigie con trasmettitori, amplificatori, radioricevitori e antenne varie; dieci detonatori elettrici, esplosivo al plastico di tipo Semtex, due mine anticarro, un revolver calibro 38 special, due 357 Magnum, un fucile a pompa e munizioni varie. C'erano pure sei chili e mezzo di eroina, custoditi in sette sacchetti di plastica trasparenti, dello stesso tipo di quella prodotta nella raffineria

mafiosa di Alcamo, in provincia di Trapani. Non solo l'indagine sul traffico di opere d'arte aveva portato all'arresto di Pippo Calò, boss latitante delle cosche «vincenti», ma in poche settimane era stato trovato il bandolo della matassa terroristico-mafiosa che il 23 dicembre 1984 aveva fatto saltare in aria il treno rapido 904, provocando sedici morti e trecento feriti: la «strage di Natale», la risposta di Cosa Nostra alle rivelazioni di Tommaso Buscetta.

«Dall'istruttoria sono emerse soltanto conferme alle accuse, delineandosi in tutta la sua pericolosità la bieca figura del Calò, mandante di tanti efferati assassinii e vera e propria cerniera fra gli affari tipicamente mafiosi e la criminalità dei 'colletti bianchi'... Il suo apparente allontanamento da Palermo ha fatto sì che gli organi investigativi trascurassero di seguirne le mosse, e in siffatta maniera il prevenuto ha potuto operare tranquillamente per

oltre un decennio nell'ombra, diventando così uno dei membri più autorevoli di Cosa Nostra e uno dei più fidi alleati dei corleonesi, senza che nessuno facesse più caso a lui, nonostante fosse latitante.» E' il ritratto, nitido e inesorabile, che del «cassiere della mafia» fecero i giudici istruttori di Palermo nel rinvio a giudizio del primo maxiprocesso. A confermarlo sarebbero arrivate, negli anni a seguire, le condanne all'ergastolo, compresa quella, definitiva, per la «strage di

Natale». Quando fu arrestato, Pippo Calò aveva cinquantatré anni, e da tredici era sbarcato a Roma. Di soldi ne aveva guadagnati tanti, e ancor di più ne aveva investiti, per conto suo e di Cosa Nostra, anche se nel '77 denunciò al fisco un imponibile Irpef di 540000 lire e nel '79 addirittura nessun guadagno. Molti lustri e decine di miliardi lo separavano ormai dal tempo in cui era commesso nel negozio di stoffe di via Maqueda, al centro di Palermo. Nel 1954, a ventidue anni,

aveva tentato di uccidere un certo Francesco Scaletta, l'assassino di suo padre; se la cavò con una condanna a otto mesi di reclusione perché stabilirono i giudici - la pistola con cui aveva sparato «non era idonea a produrre l'evento letale». In carcere, all'Ucciardone, aveva conosciuto Domenico Balducci, l'imprenditore che incontrerà di nuovo a Roma. Appena uscito di galera Calò divenne «uomo d'onore», e giurò fedeltà eterna a Cosa Nostra sotto gli occhi di

Tommaso Buscetta; con una carriera fulminante diventerà rappresentante della «famiglia» di Porta Nuova e componente della «commissione», il governo mafioso. Nel '71 si trasferì a Roma, sistemandovisi definitivamente grazie a Domenico Balducci, che continuò ad aiutarlo anche quando, nel '73, «don» Pippo divenne ufficialmente un ricercato. Il primo «pentito» di Cosa Nostra, Leonardo Vitale, lo accusava di omicidio, sequestro di persona, estorsioni e altro, ma i magistrati non

credettero a quelle rilevazioni e Calò poté continuare a vivere la sua tranquilla e indisturbata latitanza, coperta dal nome di Mario Aglialoro, e poi Michele Pulvirenti, Gaetano Fisalli e altri ancora. Ma il soprannome rimase sempre lo stesso: «salamandra». A vicini di casa, conoscenti e uomini d'affari, così come al fedele barbiere dei Parioli, si presentava come un generale in pensione con il gusto dell'impresa, riservato ed elegante, un po' schivo ma generoso. L'imprenditore Balducci -

racconterà lui stesso - lo aveva preso a lavorare come sensale, per associarlo successivamente nei suoi affari immobiliari. In questo modo, e poi con l'attività di antiquario, Calò giustificherà i lauti guadagni quando gli verranno scoperti e contestati. Nel 1980 ospitò il latitante Buscetta, al quale rivelerà «don» Masino - fece conoscere sia Balducci che Ernesto Diotallevi, che grazie al matrimonio con una signora benestante e ai rapporti con Balducci era passato dai mercati generali al giro

dell'edilizia d'assalto e delle società immobiliari fantasma. Molti raccontano, ma lui nega, che «don» Pippo fece da padrino al primo figlio di Diotallevi, chiamato Mario, come il generale in pensione Mario Aglialoro. In quel periodo Cosa Nostra era già entrata nel traffico di droga, e proprio per questa attività il ramo che faceva capo a Calò-Aglialoro e tutti gli altri cognomi avviò i contatti con la banda della Magliana, interessata ad avere rapporti con chiunque potesse offrire

eroina e cocaina da rivendere. Siciliani compresi. Tra i «bravi ragazzi» si cominciò a parlare di quel boss mafioso elegante e taciturno che viveva a Roma, amico di Diotallevi e capace di procurare droga in grandi quantità. Il tramite era uno dei più anziani ed esperti della banda, ex rapinatore e sequestratore, salito sui gradini della scala criminale fino a diventare killer e uomo d'affari insieme: Danilo Abbruciati, il quale si riferiva al boss anche in tono scherzoso, come quando Fabiola Moretti gli

chiedeva soldi e lui rispondeva: «che ti credi che so' Pippo Calò, "er cassiere"?» Ad alcuni discorsi su Calò partecipò pure Maurizio Abbatino, per nulla impressionato dalla notorietà dell'«uomo d'onore» venuto dalla Sicilia: «A quei tempi non godeva di particolare fama nel nostro ambiente, poiché l'essere 'cassiere' della mafia non significava di per sé che egli rappresentasse un vertice di tale organizzazione, dal momento che tale ruolo di vertice, all'epoca, era svolto da

Stefano Bontade, la cui morte segnò l'ascesa di Calò. Da parte mia, comunque, non ebbi mai occasione di conoscerlo e d'incontrarlo, né prima né dopo tale evento... Danilo Abbruciati era legato a Ernesto Diotallevi, che ebbi modo d'incontrare, su sollecitazione dell'Abbruciati stesso, poco prima dell'omicidio di Domenico Balducci. In quell'occasione Diotallevi ci venne presentato da Abbruciati come suo tramite con la mafia siciliana, e fu sempre in quell'occasione che si parlò di Pippo Calò come uomo di

Stefano Bontade, del quale avevamo cominciato a 'lavorare' l'eroina... Dopo la morte di Bontade si chiuse il relativo canale di approvvigionamento, senza che si prendessero contatti col Calò, né che questi prendesse contatti con noi, anche perché noi subimmo degli arresti e nel frattempo morì lo stesso Abbruciati. Non posso escludere, comunque, che Pippo Calò fosse rimasto in contatto con i 'testaccini'». Tutte le morti citate da Abbatino - Bontade, Balducci,

Abbruciati - sono state morti violente, tre cadaveri rimasti in mezzo alla strada crivellati di colpi. Il primo in ordine di tempo a essere ucciso fu Stefano Bontate - diventato Bontade per quello strano destino dei cognomi di alcuni mafiosi, grazie al quale Leggio s'è trasformato in Liggio, o Cancemi in Cangemi; i «picciotti», poi, Bontate lo riducevano semplicemente a Bontà -, il «principe di Villagrazia» fulminato a colpi di kalashnikov su ordine di Totò Rima il 23 aprile 1981, giorno

del suo quarantaquattresimo compleanno. Quando venne assassinato, Calò aveva già abbandonato Bontate per passare coi corleonesi di Riina. Buscetta aveva tentato di convincere Pippo a darsi da fare per ricucire lo «strappo» dentro Cosa Nostra, c'era stato un incontro, ma non era servito a granché. Calò era più interessato agli affari futuri, e aveva offerto a Masino di rimanere in Italia e diventare suo socio: attraverso Ciancimino che «era in mano ai corleonesi», diceva, c'erano da

guadagnare miliardi con l'edilizia a Palermo. Ma Buscetta non ne volle sapere, e prese la via del Brasile. Per far soldi a Palermo, Calò aveva cambiato alleati. A Roma, invece, rimase legato a quel Balducci che dieci anni prima l'aveva accolto a braccia aperte. Ufficialmente Domenico Balducci, per gli amici «Memmo», era proprietario di un negozio di elettrodomestici a Campo de' Fiori gestito dal suo amico Oberdan Spurio, ma tutti sapevano che era uno

strozzino, un «cravattaro»; si racconta che sull'ingresso della «bottega» di Campo de' Fiori c'era un cartello con scritto «Qui si vendono soldi». «Tale negozio», ha spiegato il «faccendiere» Flavio Carboni al giudice, «fungeva da vero e proprio sportello; qui lo Spurio erogava prestiti, spesso parte in denaro e parte in preziosi od oggetti di valore, quali pelli non lavorate, tappeti, argenteria d'antiquariato, tutti provenienti dal vicino Monte dei Pegni.» (3) «Memmo» Balducci era il più noto degli «usurai di Campo de'

Fiori». In breve tempo s'era trasformato in imprenditore edile, un vero e proprio mago nel fare e disfare società che compravano e vendevano terreni, appartamenti, interi complessi edilizi. Tramite Abbruciati, Balducci divenne il principale investitore, e quindi riciclatore, dei guadagni tirati su dalla banda della Magliana, in particolare dai «testaccini». Questi infatti, che gestivano pure l'usura a tassi d'interesse tra il dieci e il venticinque per cento mensili, reinvestivano

continuamente i propri soldi. Abbatino e gli altri «steccavano» all'incirca cinque milioni a settimana ciascuno, preoccupandosi però di lasciare sempre in cassa un «fondo» per le emergenze e le necessità primarie, come il pagamento della droga e l'assistenza ai detenuti; i «testaccini» no, impiegavano tutto il denaro che avevano a disposizione, moltiplicandolo a grande velocità. Il «canale» Balducci portava al costruttore Danilo Sbarra, futuro socio di Calò, che fece entrare nel «giro»

anche il faccendiere Flavio Carboni e il finanziere italosvizzero Florence Ley Ravello. Si formò così una catena che, anello dopo anello, legava insieme i capitali mafiosi di Calò e quelli della Magliana in una serie impressionante di attività e speculazioni edilizie. Tra il 1975 e il 1976 la Compagnia Industriale Romana, CIR Spa, controllata da Ley Ravello, cedette a tre società altrettanti terreni chiamati Fioranello 1, Fioranello 2 e Cornacchiola, dalle parti di Fiumicino. Il

finanziere italosvizzero continuò ad avere interessi in queste società, che avevano lo studio commerciale nell'ufficio dal quale operava Balducci. Le stesse tre società, nel 1981, attraverso un trasferimento dei pacchetti azionari delle finanziarie svizzere che le controllavano formalmente, passarono nelle mani di alcuni siciliani, con movimenti di denaro di sospetta provenienza mafiosa. Quasi contemporaneamente, Balducci e Carboni gestivano un'altra serie di speculazioni in

Sardegna, a Porto Rotondo. Il primo come socio di minoranza e il secondo di maggioranza, diedero vita al complesso Costa delle Ginestre, nel quale investirà dei soldi anche Danilo Abbruciati, attraverso il Consorzio Porto Rotondo; nel consorzio entrò la Punta Volpe Spa, a cui era interessato Ley Ravello. Cominciò un complicato gioco di compravendite nel quale si ritrovano i nomi di faccendieri, banchieri, mafiosi e uomini legati alla banda della Magliana, ricostruito così dal

giudice istruttore: «Quest'ultima società (la Punta Volpe, N.d.A.) non ha mai iniziato l'attività di costruzione, ma ha ceduto vari lotti edificabili (su cui hanno costruito ville Diotallevi, Carboni e Balducci), per poi frazionarsi in ben dodici società minori con diversa sorte, ma delle quali quattro sicuramente create per effettuare il ritorno dell'investimento, ovviamente ricapitalizzato, al Calò, al Balducci e agli altri; le altre otto finiranno per confluire quasi totalmente nella sfera

Carboni-Ravello, attraverso la società So.F.Int. «Fra le prime sono da evidenziare la Mediterranea S.r.l., dalle cui cessioni di appartamenti si arriva infatti a Calò, Abbruciati, Diotallevi, Lorenzo Di Gesù e Faldetta Luigi, e la Sa tazza dalla quale la cooperativa Delta, fra i cui soci si ritrovano Balducci, Cercola, Fabiani, Mancini Luciano, Picone Francesco, Pistone Franco e altri, acquistò i terreni per la costruzione delle case da assegnare ai soci. «Tra le seconde, invece,

meritano un occhio di riguardo la società Prato verde e la So.F.Int. La prima iniziò le costruzioni con un finanziamento trasversale del Banco Ambrosiano, filiale di Roma, senza alcuna garanzia reale che lo sostenesse, grazie anche ai buoni uffici di Francesco Pazienza, remunerato con ricca percentuale; la seconda invece (...) divenne la consociata maggiore di tutte le altre, parte assorbendole, parte vendendole a terzi (tra cui una società bresciana e il gruppo

Berlusconi), ma sostanzialmente accentrandone il controllo, pur tramite l'interposizione dei compiacenti Luciano Merluzzi e Gennaro Cassella, nelle mani del Carboni». (5) Regista e primattore di tutte queste operazioni fu Domenico Balducci, il «cravattaro» che nell'estate del 1981 si ritrovò a villeggiare, a Porto Rotondo, gomito a gomito con Carboni, Pazienza, il presidente del Banco Ambrosiano Roberto Calvi appena uscito di galera, Calò, Abbruciati e Diotallevi. Un

segno dei rapporti e delle conoscenze che gli consentivano di utilizzare, per i suoi spostamenti all'estero, gli aerei della Cai, la compagnia privata del Servizio segreto militare, grazie ai quali poteva evitare ogni controllo di frontiera, e che gli permettevano di frequentare tranquillamente funzionari di Polizia anche quando era latitante. Nemmeno la moglie di Balducci s'era accorta di avere un marito in fuga dalla giustizia. «Quando lo sposai»,

dichiarerà al giudice, «non sapevo che fosse latitante, né fu lui a dirmelo bensì, anni dopo il nostro matrimonio, la sorella. D'altra parte Domenico conduceva una vita di relazioni normalissima, non dava cioè l'impressione di uno che si nascondesse per sfuggire a qualcosa o a qualcuno.» (6) Delle sue conoscenze «in alto» Domenico Balducci si vantava spesso, e non gli dispiaceva apparire potente nel mondo del "jet set". Non s'è mai capito se la promessa di «Memmo» a Carlo Ponti e Sofia

Loren di intervenire presso la magistratura affinché venissero risolti i problemi giudiziari del produttore cinematografico, finito sotto inchiesta per esportazione di valuta, fosse una truffa, un millantato credito o un reale approccio per un tentativo di corruzione. Fatto sta che Balducci aveva assicurato di poter fare pressioni non sulla Procura o sui giudici del tribunale - che, diceva, erano inavvicinabili -, ma certamente sulla Corte d'Appello e in Cassazione, dove c'era «maggiore disponibilità».

Nello stesso periodo, il produttore fu anche vittima di un progetto di sequestro organizzato proprio dall'usuraio di Campo de' Fiori. L'ha rivelato Tommaso Buscetta, parlando del suo soggiorno romano da latitante: «Da Pippo Calò appresi che qualche tempo prima, con Diotallevi e Balducci, avevano tentato il sequestro di Carlo Ponti, il quale per sfuggire al sequestro si era inerpicato con l'auto su una collina. Balducci peraltro, nel nostro primo incontro, mi disse che a Roma potevo stare

tranquillo, poiché aveva la situazione sotto controllo. Non so però da che cosa derivasse questa sicurezza; sebbene alludesse ai suoi rapporti con le forze dell'ordine, infatti, non so se si riferisse a carabinieri o polizia». (7) Con i romani «don» Pippo Calò cercò di combinare anche l'«operazione Siracusa». C'era da ristrutturare il centro storico e il porto della città siciliana, un progetto di cui poi non si fece niente ma che Calò pensò di affidare alla So.F.Int., la società che nel frattempo era

passata da Ley Ravello a Carboni. Per quest'ultimo il boss mafioso stanziò ottocento milioni, di cui quattrocentocinquanta da versare come anticipo. Successe però che una «tranche» da centocinquanta milioni, che doveva arrivare a Carboni tramite Domenico Balducci, si fermò al passaggio intermedio. «Memmo» infatti vantava un credito sul faccendiere pari proprio a quella cifra, e decise di intascare direttamente i soldi destinati al suo debitore. Il

resto dell'anticipo, invece, giunse a Carboni o direttamente dai siciliani o attraverso Ernesto Diotallevi, che si preparava a scalzare Balducci nel ruolo di referente romano di Calò. Il comportamento di Balducci, con quella storia dei centocinquanta milioni tenuti per sé, non era piaciuto per niente al «cassiere della mafia». Domenico «Memmo» Balducci era latitante dal gennaio del 1980, e venne ucciso il 16 ottobre 1981. I

killer lo trovarono dove la polizia, evidentemente, non era mai andata a cercarlo, anche se sarebbe stato il primo posto da controllare: la sua villa all'Aventino, nell'esclusiva e lussuosa via di Villa Pepoli. Quella sera, poco prima delle otto, Balducci arrivò col motorino davanti al cancello di casa, al numero 13, scese e citofonò alla moglie. Non aveva ancora finito di parlare che due sicari sbucarono dal buio e fecero fuoco sei o sette volte sul «cravattaro» diventato imprenditore. Poi si rituffarono

nell'oscurità. Quando arrivarono, gli agenti trovarono il cadavere supino, trapassato da cinque proiettili. Nella tasca interna della giacca due documenti, uno autentico e uno falso, intestato a un tal Nello Bongarzoni. Nel taschino della camicia di seta, azzurra e intrisa di sangue, un'agendina piena di numeri di telefono. Nessuna traccia, invece, del borsello, i killer se l'erano portato via. Qualche decina di metri più in là, attaccata a un albero, penzolava una corda:

gli assassini si erano arrampicati lì per scavalcare il muro di cinta di un parco e ritrovarsi dall'altra parte, su via Guerrieri, dove un complice li aspettava in macchina. «Quel che mi impressionò», ha raccontato la signora Italia, moglie della vittima, «fu la posizione del braccio, non ricordo se il destro o il sinistro, la cui mano aveva una posizione del tutto innaturale, piegata, come se qualcuno avesse strappato con forza qualcosa che la mano stessa reggeva. Mio marito portava

sempre con sé una borsa, ma quella borsa non l'aveva in mano né venne trovata vicino al suo corpo, sicché ritengo che la sua mano avesse quella posizione innaturale perché gli era stata strappata la borsa.» (8) Tra le carte del morto fu trovato un biglietto aereo della Swissair, che avrebbe dovuto portarlo a Ginevra. Viaggiava spesso per affari, «Memmo» Balducci, soprattutto in Svizzera, negli Usa e in America del Sud. E s'era talmente convinto che i veri

affari si fanno all'estero che aveva mandato sua figlia Roberta, a diciassette anni, a studiare lingue prima a Londra e poi a Losanna. Il vorticoso giro di società, di interessi e di attività di «Memmo» - non solo in quanto usuraio e costruttore, ma anche come assicuratore, finanziere e tante altre cose venne alla luce soprattutto con le indagini sulla sua morte, che finirono per intrecciarsi con quelle sul traffico di opere d'arte e droga sfociato nell'arresto di Pippo Calò.

«Sempre indagando sul Balducci», scriveranno i giudici del tribunale di Roma, «anche a mezzo dell'acquisizione di altri procedimenti, si accertava che lo stesso, latitante al momento della morte, era stato inquisito, proprio insieme al Faldetta, dall'autorità giudiziaria di Palermo, per l'avvenuta commercializzazione di un elevato numero di assegni circolari, provenienti da una partita chiaramente frutto di un'operazione di riciclaggio di un'ingentissima somma di denaro: taluni assegni di tale

partita erano stati rinvenuti sul cadavere del presunto boss mafioso Di Cristina, oltre che in possesso di altri personaggi vicini a tale ambiente.» Quando Balducci diede trecentocinquanta milioni in assegni a Luigi Faldetta costruttore siciliano, amico e prestanome di Calò - per la realizzazione di alcuni affari in Sardegna, gli disse che provenivano dall'usura. A Faldetta sembrò strano, perché sapeva che i «cravattari» operavano in contanti, e la sicurezza che «Memmo» aveva

mentito la ebbe quando due assegni della stessa partita furono trovati addosso a Giuseppe Di Cristina, la mattina del 30 maggio 1978, a Palermo. Il boss di Riesi era steso sull'asfalto di viale Michelangelo, fulminato da sei pallottole alla testa sparate dai killer di Totò Riina, e i poliziotti della Scientifica, frugando nelle sue tasche, si imbatterono in quei titoli di credito che portavano al «cravattaro di Campo de' Fiori». «Mi resi conto», dirà Faldetta ai giudici, «che gli

assegni circolari del Balducci avevano la loro origine nel contrabbando di tabacchi e pensai, dati i rapporti tra Balducci e Pippo Calò, che provenissero da quest'ultimo e da altri personaggi palermitani». (10) Ma da tempo, ormai, «don» Pippo era passato dalle sigarette ad affari ben più lucrosi, e il capo della Squadra Mobile palermitana Boris Giuliano - anche lui assassinato, nel luglio del '79 -, sospettava che quei soldi provenissero da un sequestro di persona.

Con Abbruciati, Balducci aveva sempre avuto rapporti molto stretti e cordiali, finché una volta Danilo non ebbe la sensazione che il «cravattaro» volesse fregarlo. Si trovava in galera per uno dei suoi innumerevoli reati, quando mandò a dire a «Memmo» che voleva indietro i milioni che gli aveva affidato per un investimento immobiliare. La sorella di Abbruciati si presentò da Balducci chiedendo i soldi di suo fratello, con gli interessi e il valore del «lucro cessante». Il commerciante-usuraio-

imprenditore spiegò che il denaro era ben investito, e anziché restituirlo offrì al detenuto alcune azioni di società. Abbruciati non ne volle sapere, e la trattativa andò avanti finché Balducci non si decise a cedere centoventi milioni più un appartamento in Sardegna. Ma quella vicenda aveva interrotto il rapporto di fiducia tra Danilo e «Memmo». La cosa si venne a sapere tra quelli della Magliana, e arrivò all'orecchio di Claudio Sicilia. «Abbruciati», dirà il «pentito»

ai magistrati, «era determinato a eliminarlo, ma non poté farlo in quanto Balducci era mafioso, legato in particolare a Pippo Calò e a Ernesto Diotallevi... Quando Abbruciati divenne più importante di Balducci per il clan Diotallevi e Calò, gli venne dato il nulla osta dei mafiosi per uccidere Balducci...» (11) Negli ultimi tempi «Memmo» aveva paura. Alla moglie aveva confidato, pur rimanendo nel vago e senza far nomi, di avere bisogno di qualche centinaio di milioni «per chiudere una sua situazione». Poi sarebbe andato

a costituirsi davanti ai giudici di Palermo, e certamente le sue deposizioni potevano creare problemi a più di un boss, a Roma e in Sicilia. Due sere prima di morire, stava festeggiando al Jackie 'O il diciottesimo compleanno di sua figlia, quando qualcuno lo chiamò fuori: c'erano due persone che volevano parlargli. «Quando mio marito rientrò nel locale», ricorda la signora Balducci, «era ridotto uno straccio, ma non mi diede spiegazioni particolareggiate. Si limitò a dirmi che era stanco

del tipo di vita che stava conducendo, che avrebbe chiuso alcune situazioni dopo di che avrebbe voluto lasciar perdere tutto. Ritengo che quella sera, per lo stato di prostrazione in cui lo vidi, avesse ricevuto la condanna a morte.» (12) Ad ammazzare Balducci, secondo il racconto di Maurizio Abbatino, andarono in tre: «Apprendemmo che l'omicidio era stato commesso da Abbruciati, unitamente a 'Renatino' De Pedis e Raffaele Pernasetti per fare un favore ai

siciliani: Balducci doveva dei soldi a Pippo Calò. Il fatto rivestiva per noi un notevole interesse in quanto ci sentimmo, come banda, coinvolti in vicende a noi estranee, quali i regolamenti di conti tra mafiosi, senza addirittura esserne informati. In occasione del chiarimento che venne dato dai predetti Abbruciati, De Pedis e Pernasetti, appresi che l'omicidio era stato commesso nei pressi, mi sembra, di una villa, da Renato e Raffaele, mentre Danilo li attendeva in

auto, e che i primi due si erano dovuti calare da un muro con una corda per raggiungere l'auto stessa...» (13) Rimasero seccati, «crispino» e gli altri, dalle rivelazioni di Abbruciati e dei «testaccini» sull'assassinio di quel «cravattaro». Se bisognava essere soci, componenti della stessa banda, allora le cose da fare dovevano essere decise insieme, e prima di farle. Quanto meno per prepararsi a gestire la situazione che si sarebbe venuta a creare: finché si trattava di condurre certi

affari in proprio andava bene, ma quando c'era un cadavere di mezzo, e un cadavere di un certo «peso», bisognava parlarne prima. Una regola simile a quella per cui, dentro Cosa Nostra, per i delitti cosiddetti «eccellenti», ci voleva l'assenso della «commissione». «Perlomeno», aggiungerà Abbatino, «dovevamo esserne a conoscenza. Perché noi avevamo dei codici, e se a qualcuno succedeva qualcosa noi ci ritrovavamo a dover aiutare la persona, sia con gli

avvocati, sia nella spesa finanziaria richiesta dalla detenzione. E se non sapevamo neanche perché era detenuto...» (14) Lo «schema» disegnato da Abbatino per l'omicidio Balducci ha i tratti molto simili a quelli riferiti dal pentito di mafia Francesco Marino Mannoia per l'omicidio dell'ex presidente del Banco Ambrosiano Roberto Calvi, trovato impiccato sotto il Black Friars' Bridge di Londra, il 16 giugno 1982. Il pentito ha raccontato di

quella morte ciò che seppe in due occasioni, prima in libertà e poi in carcere. «Durante la mia latitanza», ha detto ai giudici, «io ero a Fondo Trapani con Ignazio Pullarà, allora latitante, e con un terzo uomo d'onore, forse Pietro Aglieri, quando sentimmo la televisione che commentava la notizia della morte di Roberto Calvi, un qualche cosa, forse una perizia, secondo la quale si trattava di un suicidio. Alcuni giorni dopo ci trovammo a parlare io, Ignazio Pullarà, e probabilmente Pietro Aglieri.

Parlando di vari argomenti, uscì fuori anche il discorso relativo alla notizia televisiva; fu il Pullarà a dire 'Che suicidio del cazzo, è stato strangolato da Franco Di Carlo.' (...) Il discorso ritornò alcuni anni dopo. (...) Pullarà commentò che il Di Carlo si era messo sempre a disposizione, quando richiesto, citando il caso dello strangolamento di Calvi, 'cosa che aveva tolto un grosso peso a Pippo Calò.' (...) Il Pullarà disse che Calvi si era impadronito di una grossa somma di denaro che

apparteneva a Licio Gelli e a Calò.» (15) Francesco Marino Mannoia, chiamato «mozzarella», il raffinatore di droga e «uomo d'onore» vicinissimo a Stefano Bontate che con le sue rivelazioni ha aperto la seconda grande stagione del «pentitismo», dopo quella di Buscetta e Contorno, ha parlato a lungo di Pippo Calò. E dei suoi legami con quelli della Magliana: «Calò certamente aveva rapporti con la banda della Magliana tanto che da uno di costoro, di cui non ricordo il

nome, mi fece fare una patente falsa durante la prima latitanza (1976 circa), presentandomi a costui nel negozio di Nunzio Barbarossa. Comunque il Calò e Antonino Rotolo ricettavano gioielli e altri proventi di grosse rapine commesse a Roma, a danno di gioiellieri e di furgoni postali. Proprio per quest'ultimo motivo erano ben noti in Cosa Nostra i rapporti tra Calò e questa banda... «Calò conosceva bene Ernesto Diotallevi, il quale aveva moltissimi contatti negli ambienti più diversi. (...)

Stefano Bontate diceva che Diotallevi era un lazzarone e un usuraio, intendendo che era un uomo meschino che coglieva qualsiasi occasione. (...) Ritornando ai rapporti di Calò con elementi della banda della Magliana preciso ancora che in origine fu il Cosentino (16) a presentare alcuni di costoro al Calò, ma ben presto il Calò monopolizzò queste conoscenze. Il Cosentino, persona anziana, fu messo da parte». (17) Il

«cassiere

della

mafia»

Giuseppe «Pippo» Calò sembra essere la chiave che ha fatto entrare i «bravi ragazzi» della Magliana in alcuni dei capitoli ancora misteriosi della storia d'Italia. Il caso Moro, per esempio. Ormai è accertato che Cosa Nostra si dette da fare, almeno fino a un certo punto dei cinquantacinque giorni del sequestro, per individuare la «prigione del popolo» e tentare di far liberare il presidente della Democrazia Cristiana rapito dalle Brigate Rosse. Un tentativo di contatto con

i brigatisti rossi, nel marzo del 1978, fu avviato attraverso Tommaso Buscetta, che lo riferì al giudice Falcone nel 1984: «Ho conosciuto Ugo Bossi in carcere perché presentatomi da Francis Turatello, di cui era molto amico. Ricordo che poco dopo il sequestro dell'onorevole Moro, Bossi mi chiese se ero disponibile per prendere contatti, in carcere, coi detenuti politici e precisamente con le Brigate Rosse per vedere se era possibile qualche spiraglio per salvare l'uomo politico. Io, per spirito

umanitario, acconsentii a interessarmi e Bossi mi rispose che a breve sarei stato trasferito a Torino, dove avrei potuto incontrare Curcio e altri detenuti. «Bossi mi disse che era stato incaricato da persone altolocate di Roma, di cui tuttavia non mi fece i nomi. Successivamente Bossi, quando siamo stati detenuti insieme a Milano, mi ha fatto leggere dei verbali dei suoi interrogatori dai quali risultava, se non mi ricordo male, che gli era stato richiesto da parte di certo Vitalone e di

certo Formisano». (18) Il trasferimento di Buscetta fu impedito dall'opposizione del generale dalla Chiesa, all'epoca responsabile della sicurezza nelle carceri, e quel piano per arrivare alla liberazione di Moro fallì. Dalle indagini svolte dalla Procura di Roma risulta che il «mandante» di Bossi personaggio di spicco della malavita milanese, legato, oltre che a Turatello, a Frank Coppola detto «tre dita» -, era effettivamente Edoardo Formisano, avvocato ed esponente del M.S.I.,

consigliere regionale del Lazio. Il 7 aprile 1978, in pieno sequestro Moro e nel mezzo della trattativa con Buscetta, quando ancora si sperava di far trasferire il mafioso a Torino perché parlasse coi brigatisti, Formisano telefonò a Bossi: «Nonostante il parere contrario Della Chiesa Portoghese... quel signore marcia in Piemonte», disse l'esponente missino. E Bossi: «Sì, sì, ho capito». «Nonostante.» «Uh.» «Sai perché?» «Eh.» «La cosa», spiegò Formisano, «sta assumendo una tale

importanza che tu non te la immagini neanche... Comunque, dati gli sviluppi dovrà venire su per forza... Ti farò dare un posto come sottosegretario.» «Eh», fece Bossi per niente euforico, «scherza, scherza... Un posto me lo daranno sotto terra.» (19) Sembrava preoccupato Bossi, mentre il suo amico «onorevole» così lo chiamavano si lasciava andare a un ottimismo che poco dopo si rivelò del tutto ingiustificato. Entrambi questi

protagonisti del tentato aggancio delle Brigate Rosse via Buscetta, conoscevano ed erano conosciuti dai «bravi ragazzi» della Magliana. Danilo Abbruciati, amico di Turatello, era in contatto, a Milano, pure con Ugo Bossi. E Formisano era uno dei politici, democristiani o missini, che usufruivano delle campagne elettorali gratuite organizzate da quelli della banda. «Ai tempi del Giuseppucci», racconterà Claudio Sicilia, «questi faceva propaganda per il M.S.I. Era legato a Semerari

e a tale Formisano. In corrispettivo dell'attività di propaganda, quelli della Magliana avevano l'appoggio incondizionato del Semerari per le varie perizie medico-legali.» (20) Un altro tentativo di Cosa Nostra per liberare Moro dalle mani dei brigatisti rossi fu avviato da Stefano Bontate, democristiano convinto oltre che capomafia, il quale durante i cinquantacinque giorni spedì Francesco Marino Mannoia a Roma per prendere Angelo Cosentino e portarlo in Sicilia.

Ma ormai il capodecina di Santa Maria di Gesù era stato soppiantato, nella capitale, da Pippo Calò, il quale si oppose all'intervento di Cosa Nostra per la liberazione di Moro. «Dopo qualche giorno dall'incontro con Cosentino», ha raccontato Marino Mannoia, «il Bontate convocò la 'commissione', di cui faceva parte anche il Calò, e sottopose il problema della esigenza di attivarsi per liberare l'onorevole Moro, così come richiestogli da alcuni politici influenti del palermitano.

Aggiungo che la maggior parte dei componenti della 'commissione', tra cui Michele Greco che all'epoca svolgeva funzioni di coordinatore, era di fede democristiana, e in contatto con i politici democristiani che 'comandavano' l'economia regionale... Calò, quale unico conoscitore, insieme al Cosentino, dei problemi politici romani, dopo aver tergiversato affermando di non avere modo di intervenire, alle contestazioni del Bontate, si rivolse a quest'ultimo e gli

disse: 'Stefano, ma non l'hai ancora capito, uomini politici di primo piano del tuo partito non lo vogliono libero'.» (21) Si avvicinava a grandi passi il tempo in cui sarebbero stati Calò e i corleonesi a condurre le danze mafiose, anche con i politici, a Roma. La tragica fine di Aldo Moro con i risvolti rimasti oscuri di quel sequestro - insieme ad altri assegni per decine di milioni - quelli che fanno capo alla Sir di Nino Rovelli e allo scandalo Italcasse - portano a

un altro cadavere e a un altro dei misteri d'Italia in cui in qualche modo s'è infilata la banda della Magliana: l'omicidio del giornalista Mino Pecorelli. Cominciò facendo l'avvocato specializzato in diritto commerciale, dopo una giovinezza avventurosa che l'aveva portato persino ad arruolarsi nell'Armata polacca; poi si diede da fare come portaborse, frequentando il sottobosco politico romano e gli uffici dei Servizi segreti, fino a ottenere un altro tesserino rosso, quello dell'Ordine dei

giornalisti; lavorò prima a «Mondo d'oggi» e poi a un'agenzia da lui stesso fondata e chiamata «OP», «Osservatorio politico», che dopo qualche tempo riuscì a trasformare in settimanale con pretese patinate. Nel frattempo s'era messo in tasca una nuova tessera, quella della Loggia P2 di Licio Gelli, numero 1750, codice E19.77, data d'iscrizione 1° gennaio 1977, fascicolo 0235. Era Carmine «Mino» Pecorelli, nato a Sessano, provincia di Isernia, nel 1928.

Un uomo che s'è sempre mosso nel mondo delle spie, dei ricatti e delle informazioni pilotate come un pesce nel mare, e che però non è riuscito a evitare di arenarsi nel punto in cui un killer gli ha sparato quattro colpi di calibro 7.65 alla testa, in via Tacito, a Roma, davanti alla sede del suo giornale. «Carmine Pecorelli venne ucciso intorno alle ore 20.45 del 20 marzo 1979. Nessun teste oculare fu presente al fatto. Franca Mangiavacca, la giornalista legata sentimentalmente e nello

stesso tempo segretaria di redazione della rivista 'OP', vide un individuo fermo nei pressi della vettura a bordo della quale era la salma del Pecorelli. La Mangiavacca fu però in grado di indicare solo che si trattava di una persona, della quale non sapeva precisare il sesso, di altezza normale (intorno al metro e settanta) e che indossava un indumento chiaro (cappotto o impermeabile)... Che l'omicidio fosse da ricondursi all'attività giornalistica del Pecorelli e che si intendesse attribuirgli anche

un significato simbolico, può arguirsi anche dalla perizia medico-legale. Pecorelli, infatti, fu ucciso con un colpo di pistola in bocca, che fu probabilmente anche il primo dei quattro che lo attinsero... «Basta scorrere i fogli della rivista per comprendere come le continue allusioni, rinvii a successive precisazioni e ulteriori notizie, per di più su vicende di grandissimo rilievo e ancora in parte oscure all'epoca in cui apparivano gli articoli, non potevano non destare grave allarme negli interessati.

Semmai è proprio la vastità e la quantità degli interessi lesi dagli articoli di Pecorelli che può costituire un serio ostacolo alla individuazione del mandante dell'omicidio, per la possibilità di prospettare più ipotesi, tutte apparentemente fondate.» (22) Due dei proiettili che misero fine alla vita e agli articoli di Mino Pecorelli, riferiscono i periti, erano di una marca molto rara in Italia, la Jevelot, uguali in tutto e per tutto a quelli che due anni e mezzo più tardi sarebbero stati trovati in

un arsenale nascosto negli scantinati del ministero della Sanità, a Roma. A quel deposito d'armi attingevano i «bravi ragazzi» della Magliana, da Maurizio Abbatino a Claudio Sicilia, da Edoardo Toscano a Danilo Abbruciati, insieme ad alcuni terroristi di estrema destra collegati alla banda. Quell'arsenale è uno dei crocevia dei misteri d'Italia, e da lì - hanno stabilito le indagini provenivano i proiettili che uccisero Mino Pecorelli. Sui mandanti dell'omicidio, a

oltre tredici anni di distanza, ha detto la sua il mafioso pentito Tommaso Buscetta: «Una notizia che ricordo con chiarezza e che mi fu data, in due occasioni successive e negli stessi termini, da Stefano Bontate e da Gaetano Badalamenti, è quella concernente l'omicidio del giornalista Mino Pecorelli, commesso a Roma. Una prima volta mi parlò di questo fatto, nel 1980 a Palermo, il Bontate. Durante una conversazione a Fondo Magliocco, che toccò vari argomenti, il discorso cadde sui

cugini Salvo, Nino e Ignazio. (23) Il Bontate mi disse: 'Anche l'omicidio di Pecorelli l'abbiamo fatto noi perché ce l'hanno chiesto i Salvo' (...) «Successivamente, nel 1982 a Rio de Janeiro, la stessa notizia mi fu data da Gaetano Badalamenti, sempre nel corso di una conversazione riguardante altri argomenti. Anche il Badalamenti, che nulla sapeva dell'analogo racconto a me fatto dal Bontate, disse che l'omicidio del Pecorelli era stato fatto eseguire da loro due su richiesta dei Salvo (...) I Salvo

ne avevano richiesto l'uccisione poiché quegli 'disturbava politicamente'». In altre occasioni «don» Masino dichiarerà di aver capito che dietro i Salvo, nella veste di ispiratore dell'omicidio, c'era Giulio Andreotti, indicato da lui e da altri «pentiti» come il «referente romano» di Cosa Nostra. Per la ricerca dei moventi, anche prima che venisse tirato in ballo il senatore a vita, gli stessi magistrati avevano scritto che c'era solo l'imbarazzo della scelta. Poi la loro attenzione s'è

posata su due possibili intrecci, «gli assegni del presidente» e il caso Moro, dietro i quali poteva esserci, in entrambi i casi, proprio Giulio Andreotti. Dei miliardi dell'Italcasse inghiottiti dai fratelli Caltagirone e dalla Sir di Nino Rovelli, Mino Pecorelli si occupò a lungo, chiamando spesso in causa Andreotti, capo del governo fra il '76 e il '79. E a scavare dietro le complesse vicende finanziarie fatte di società che subentrano ad altre e di assegni che girano di mano in mano, passando da politici a

faccendieri e viceversa, si scoprono i «soliti noti» riciclatori della mafia e della banda della Magliana. «Può affermarsi in via di ipotesi di lavoro», ha scritto il pubblico ministero Giovanni Salvi nella richiesta di autorizzazione a procedere contro Andreotti, «che intorno alle vicende Italcasse e assegni della Sir (e cioè gli 'assegni del presidente') si sia determinata la convergenza di interessi di gruppi mafiosi, riconducibili a Giuseppe Calò e a Domenico Balducci... Particolare interesse

investigativo riveste l'intervento di Ley Ravello nel tentativo di subentrare ai Caltagirone nel rapporto con l'Italcasse, con il possibile duplice obiettivo di salvare i predetti dal crack e di condizionare, attraverso il controllo della più rilevante esposizione dell'Istituto, la stessa Italcasse.» (25) C'erano poi gli assegni della Sir, alcuni dei quali, attraverso «prestanome o persone inesistenti», per una cifra pari a cinquantacinque milioni, sono finiti alla So.F.Int di Ley

Ravello e «Memmo» Balducci: «Dalle indagini espletate è emerso che il senatore Andreotti aveva la diretta disponibilità di questi assegni, che negoziò personalmente, cedendoli a persone diverse». (26) Su quegli assegni Pecorelli aveva puntato da tempo la sua attenzione, e già nel 1977, quando ancora «OP» era una semplice agenzia di stampa, sotto il titolo «Presidente Andreotti, questi assegni a lei chi glieli ha dati?», pubblicò «un primo elenco» di assegni

bancari che a suo dire erano stati messi in giro direttamente dall'allora presidente del Consiglio, «per un ammontare complessivo che supera i due miliardi». Nel gennaio del 79, il giornalista stava per ritornare sull'argomento con una copertina di «OP», divenuto ormai settimanale, nella quale compariva una fotografia di Andreotti e, sopra, il titolo «Gli assegni del Presidente». Quella doveva essere la copertina del numero cinque della rivista, che fu stampata ma mai

distribuita. Lo stesso Pecorelli, infatti, ne bloccò la diffusione a stampa già avvenuta. A convincerlo - si scoprirà dopo la sua morte - erano stati alcuni andreottiani «doc», tra cui il giudice e futuro senatore democristiano Claudio Vitalone. E alla vigilia della sua morte, grazie alla mediazione di Franco Evangelisti - un altro nome che compariva spesso nell'agenda di Pecorelli, insieme a quelli di Ciarrapico e altri uomini-satellite dell'universo andreottiano - al direttore di «OP» arrivò un

finanziamento di trenta milioni attraverso il costruttore Gaetano Caltagirone. Aspettava anche altri soldi, il giornalista assassinato. Il 20 marzo 79, poco prima di lasciare la redazione, salire sulla Citroën C.X. ed essere finito da quegli inusuali proiettili Jevelot, Pecorelli incontrò la sorella Rosina, alla quale confidò: «Adesso ho avuto una promessa dal gruppo Evangelisti-Andreotti di un po' di pubblicità per la rivista... Se questa cosa si verifica, io non avrò più problemi per pagare i

debiti e mi sentirò più tranquillo. Però guarda, massimo due anni e lascio il giornale per ritirarmi in provincia, sono stanco». Ma i suoi assassini, e soprattutto coloro che li armarono, non potevano attendere tutto quel tempo. Tra gli enigmi a cui si interessava il giornalistamassone-collaboratore dei Servizi segreti Mino Pecorelli, c'era pure quello del caso Moro. Per un anno intero, dall'indomani del rapimento del

presidente democristiano, il direttore di «OP» pubblicò articoli e lanciò messaggi per far capire che molte cose in quel rapimento, e soprattutto nelle indagini e nelle scoperte fatte dallo Stato, non erano così limpide come le si voleva far apparire. Un esempio per tutti sono i suoi scritti dopo la scoperta del covo brigatista di via Monte Nevoso, avvenuta il primo ottobre 1978, dove fu ritrovata una parte del memoriale di Aldo Moro. Allora non si sapeva che mancava qualcosa (il successivo

ritrovamento avverrà nel 1990), ma Pecorelli già parlava di scritti incompleti in un articolo intitolato «Memoriali veri e memoriali falsi». E lanciava messaggi, incomprensibili per un normale lettore ma probabilmente chiari a chi doveva intendere. Come nell'altro articolo intitolato «L'ultimo messaggio è il primo», sottotitolo «Un memoriale mal confezionato»: «La bomba Moro non è scoppiata. Il memoriale, almeno quella parte recuperata nel covo milanese, non ha

provocato gli effetti devastanti tanto a lungo paventati». (27) Di altri segreti e misteri del sequestro era a conoscenza Pecorelli, visto che fu il primo, ad esempio, a scrivere che non erano state ritrovate le bobine con gli interrogatori di Moro registrati dai brigatisti, e che solo più tardi i terroristi diranno essere state bruciate. Una delle «fonti» del giornalista era probabilmente il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, mandato a dirigere i reparti antiterrorismo, responsabile dell'operazione di

via Monte Nevoso, un militare tutto d'un pezzo che, rivelerà Buscetta, Cosa Nostra doveva ammazzare già nel 1979, e cioè tre anni prima di quando il generale, spedito nel frattempo a Palermo, venne effettivamente ucciso dai killer mafiosi. Un progetto di morte che dunque si può legare considerata l'epoca e le cose di cui i due si occupavano - a quello di Pecorelli. «Il generale dalla Chiesa», spiegherà il pentito Buscetta, «sempre secondo quanto mi disse Badalamenti, doveva

essere ucciso perché conosceva segreti (non so se informazioni, documenti, carte o altro) connessi al caso Moro e suscettibili di infastidire seriamente Andreotti. Forse gli stessi segreti che erano noti a Mino Pecorelli. Penso perciò che Pecorelli e dalla Chiesa sono cose che si intrecciano tra loro. Secondo quanto ho dedotto dalle mie conversazioni con Bontade, l'omicidio Pecorelli era stato un delitto politico 'fatto' da Cosa Nostra, e più precisamente da lui stesso e da Badalamenti, su richiesta dei

cugini Salvo, 'richiesti' a loro volta dall'onorevole Andreotti. Due anni dopo, nel 1982, Badalamenti mi ripeté, in termini assolutamente identici, la versione di Bontade. Pecorelli era stato assassinato perché stava appurando 'cose politiche' segretissime collegate con il caso Moro. Giulio Andreotti era estremamente preoccupato che potessero trapelare questi segreti, di cui era a conoscenza anche il generale dalla Chiesa.» Sui killer di Pecorelli si sono incrociate le piste e i nomi più

diversi, ma sempre gravitanti intorno alla banda della Magliana. Anche perché uno dei pochi dati certi di questo delitto irrisolto è la provenienza dei proiettili dall'arsenale utilizzato dalla banda. Il terrorista «nero» e capo dei Nar Giusva Fioravanti è stato inquisito e poi prosciolto insieme al suo «compagno d'armi», Massimo Carminati, estremista di destra molto attratto, fino a esserne completamente assorbito, dal fascino della delinquenza comune respirato proprio tra i

«bravi ragazzi» della Magliana che sfoggiavano fuoristrada, Rolex d'oro e armi luccicanti. Qualcuno ha anche chiamato in causa l'assassino di Giorgio Ambrosoli, il liquidatore della banca di Sindona assassinato a Milano nel luglio del 1979, William Aricò. Infine sono venuti fuori i testimoni della banda, che hanno fatto due nomi: di nuovo Carminati e un certo «Angelo il biondo», riconosciuto in Michelangelo La Barbera, capomandamento della «famiglia» mafiosa di Passo di

Rigano, a Palermo, il quale sarebbe venuto appositamente dalla Sicilia per chiudere la bocca al giornalista. Il suo utilizzo confermerebbe la tesi di Buscetta di un legame tra l'omicidio Pecorelli e quello progettato di dalla Chiesa, con un coinvolgimento delle cosche nei due attentati. Tra i «bravi ragazzi», si parlò diverse volte di questo delitto. «Edoardo Toscano», ha rivelato tra l'altro Vittorio Carnovale, «ci aveva detto che De Pedis e Abbruciati si erano adoperati per organizzare

l'omicidio Pecorelli. In particolare Toscano sapeva che chi aveva condotto l'operazione era stato Massimo Carminati e un tal 'Angelo', siciliano, mentre Abbruciati era stato presente per dirigere e fornire la copertura. Non so se De Pedis e Abbruciati avessero un interesse personale all'eliminazione del giornalista; quel che diceva Toscano era che 'Renato' De Pedis era stato coinvolto da alcuni siciliani. Un particolare che aveva colpito Toscano era il fatto che il predetto 'Angelo', dopo

l'omicidio, avesse consegnato a De Pedis una pistola automatica, caratteristica per essere cromata, quasi si trattasse di un trofeo, la quale sarebbe stata usata per commettere l'omicidio.» (29) Quell'arma finì tra le mani di Fabiola Moretti, senza che lei lo sapesse. Una sera - racconterà ai giudici quando deciderà di svelare tutti i misteri che l'hanno vista protagonista insieme ai suoi uomini - rimase in piedi fino a tardi per pulire e oliare una pistola, con Abbruciati che le girava intorno

e diceva: «Lascia perdere, finisci domattina». Fabiola invece volle terminare il lavoro prima di andare a dormire. Tempo dopo, quando l'arsenale della banda era stato scoperto dalla polizia, Abbruciati le parlò di quella pistola chiedendo se potevano esserci le sue impronte. «Certo che ci saranno, perché?» domandò la donna. «Perché lì c'è l'abbacchio di Pecorelli», rispose Danilo, un modo poco elegante ma molto esplicito per indicare l'arma che aveva ucciso il giornalista. «E non

potevate buttarla via?» chiese Fabiola, piuttosto irritata. Abbruciati, che secondo la Moretti «era un po' taccagno», sorrise: «Ma come sei signora!» (30) Tra i mandanti dell'omicidio è stato inquisito pure l'ex giudice, ex senatore ed ex ministro democristiano Claudio Vitalone, uno dei «fedelissimi» di Andreotti tirato in ballo dai «pentiti» della Magliana, che lui ha puntualmente denunciato, mentre nel ruolo di «mediatore» tra mandanti ed esecutori, è finito sotto

inchiesta anche Pippo Calò, l'ambasciatore di Cosa Nostra nella capitale. Antonio Mancini, «l'accattone», ha parlato esplicitamente di interessi mafiosi nel delitto Pecorelli, che gli furono svelati prima da Enrico De Pedis e poi da Danilo Abbruciati: «Anche lui confermò che era stato Massimo Carminati a sparare assieme ad Angiolino il biondo, siciliano, ma aggiunse che il delitto era servito alla banda della Magliana per favorire la crescita del gruppo, favorendo

entrature negli ambienti giudiziari, finanziari romani, ossia negli ambienti che detenevano il potere». (31) A Maurizio Abbatino, invece, alcuni segreti di quell'omicidio li aveva confidati Franco Giuseppucci, «er negro»: «Mi disse che era stato lui a fornire le persone che avevano ucciso Pecorelli, su richiesta di Danilo Abbruciati (...). L'omicidio del giornalista era stato richiesto dai 'siciliani', esponenti di Cosa Nostra. Non disse se la richiesta era stata fatta da Pippo Calò, che era l'esponente

di Cosa Nostra in contatto con Danilo Abbruciati e lui. Giuseppucci aggiunse che il Pecorelli era un giornalista che era stato eliminato perché aveva fatto troppe indagini e stava ricattando un personaggio politico». (32) All'inizio degli anni Ottanta la seconda «guerra di mafia» infuriava a Palermo, scatenata dai corleonesi di Totò Riina, deciso a diventare il «dittatore» di Cosa Nostra. Morivano Bontate, Inzerillo, Riccobono e decine di altri capi e «picciotti»

delle cosche avverse a quella di «Totò 'u curtu». Ma ci fu pure chi tentò di esportare un pezzetto di quella guerra a Roma, scegliendo di combatterla in privato: una specie di vendicatore solitario. Salvatore «Totuccio» Contorno a trentacinque anni aveva una condanna a un quarto di secolo di galera per sequestro di persona e due soprannomi: la «primula di Brancaccio», il quartiere più insanguinato di Palermo, e «Coriolano della Floresta», dal nome del protagonista di un

romanzo di William Galt. Era cresciuto all'ombra di Stefano Bontate, il suo capo, di cui era stato anche guardia del corpo. E dopo l'uccisione di Bontate uno dei più feroci e decisi killer di Riina, Pino Greco detto «Scarpazzedda», tentò di eliminare anche Totuccio, ma lui fu più svelto dei suoi sicari. In macchina riuscì a evitare la prima scarica di kalashnikov partita dalla moto in corsa, saltò fuori impugnando una pistola, attese il ritorno della moto piazzandosi davanti all'auto e accolse i suoi killer a

colpi di calibro 38: «Scarpazzedda» si salvò solo perché indossava un giubbotto antiproiettile. L'aria di Palermo, per Contorno, s'era fatta ormai irrespirabile, e mentre i corleonesi gli sterminavano la famiglia ammazzando perfino un ignaro cugino di sua moglie, lui si trasferì a Roma, alla ricerca di quello che considerava il traditore e l'assassino del suo «Bontà» Pippo Calò -, e a sua volta braccato da mafiosi e poliziotti. Anche le tracce di «Coriolano

della Floresta» finirono per incrociarsi con quelle dei banditi della Magliana e con gli affari dei «bravi ragazzi». Gli echi delle trame arrivarono fino a Claudio Sicilia, che all'epoca si divideva tra il carcere e i bar dove trafficava la droga. «Pernasetti mi disse», ha raccontato ai giudici il «vesuviano», «che dalla Sicilia era giunta notizia che Totuccio Contorno si nascondeva a Roma, che circolava a bordo di una Jetta blindata e che ad avere contatti con Contorno era una persona anziana che

abitava dalle parti di San Saba. Queste cose erano state riferite al Pernasetti dal Diotallevi... Dagli accertamenti svolti si era appurato che la persona in contatto con Contorno era tal Fratoni. Questi si occupava ad alto livello di traffico di sostanze stupefacenti, in particolare di morfina base, ed era atteso a Roma l'arrivo di un notevole quantitativo di detta sostanza. Ricordo in merito che il Pernasetti mi disse che costava diecimila lire o poco più al grammo.» (33) Duilio Fratoni aveva

cinquant'anni e - secondo le informazioni in possesso degli investigatori - un passato di tutto rispetto nel mondo della «mala». Polizia e Carabinieri lo conoscevano per i suoi traffici di cocaina, soprattutto con la Colombia, e un paio di volte l'avevano accompagnato in carcere. Ufficialmente faceva il fotografo, ma il suo certificato penale parlava di droga, ricettazione e truffa. Abitava nel quartiere di San Saba, a pochi passi da dove era morto ammazzato Domenico Balducci, uno che come lui era in

contatto con i siciliani a Roma. La sera dell'11 marzo 1982 Fratoni uscì con un amico da un bar di San Saba, attraversò la strada e fece per aprire la sua A 112. Non aveva ancora girato la chiave nello sportello che una moto sbucò alle sue spalle, a bordo due uomini protetti dai caschi integrali, e quello che stava dietro fece fuoco sette od otto volte. Fratoni morì all'istante, in mano al capo della Sezione Omicidi della Mobile che arrivò pochi minuti dopo non c'era altro che qualche proiettile recuperato

dentro la A 112 e un paio di testimonianze inutili o reticenti. Quattro anni e mezzo più tardi Claudio Sicilia riferirà che l'assassino di Fratoni era Danilo Abbruciati, mandato a uccidere uno dei «contatti» romani di Salvatore Contorno. Nei giorni successivi all'omicidio, comunque, le indagini mossero qualche passo proprio partendo dalle deposizioni chiaramente reticenti di un testimone, che si diceva amico di Fratoni e che risultava essere in contatto con un certo «Sebastiano», un

siciliano che doveva avere a che fare col traffico di droga. Il testimone finì in galera, e le ricerche su «Sebastiano» arrivarono a un casolare sulla via che porta al lago di Bracciano, acquistato da questo signore per duecentoventi milioni, la metà già versata e l'altra ancora da pagare. Lì abitava, sotto falso nome, Totuccio Contorno con la moglie incinta, i suoceri, la cognata, un fucile a canne mozze, una Smith & Wesson calibro 38, due chili di eroina e un quintale e mezzo di hashish.

Nel garage del casolare c'erano la Jetta blindata con l'accensione a telecomando, installata per evitare attentati con l'esplosivo, una Mini 90 della nipote di Gaetano Badalamenti e la 127 del testimone reticente dell'omicidio Fratoni. Gli investigatori erano convinti di aver messo le mani su uno degli assassini del trafficante di droga, ma si sbagliavano. Contorno aveva altri obiettivi: in una delle tasche di Totuccio c'erano i numeri di telefono dei cantieri gestiti da Danilo

Sbarra, diventato uno dei principali referenti negli affari romani di Pippo Calò, «l'infame» che doveva morire perché aveva tradito Bontate. Era stato un altro uomo d'onore della famiglia di Santa Maria di Gesù, Mimmo Teresi, a dare quell'indicazione a Contorno, e lui era deciso ad appostarsi vicino a quei cantieri, aspettare che arrivasse «l'infame» e sparare. Non fece in tempo, ma tra i tanti che lo cercavano arrivò prima la polizia, e «Coriolano della Floresta» avrà modo di vendicarsi di Calò e

degli altri mafiosi con le sue confessioni al giudice Falcone. Nel manicomio giudiziario di Aversa, nella prima metà degli anni Ottanta, uno dei finti malati di mente era Giuseppe Marchese, giovanissimo mafioso legato ai «corleonesi», cognato di Leoluca Bagarella (a sua volta cognato di Totò Riina) e «combinato» - cioè affiliato a Cosa Nostra - in maniera riservata su ordine dello stesso Riina nel 1981. Arrestato nel 1982 per la strage di Bagheria, Marchese s'era fatto passare

per matto ed era finito nell'ospedale psichiatrico anziché in carcere. Prima di Aversa era stato a Reggio Emilia, e lì aveva incontrato qualche romano, tra cui Marcello Colafigli, il quale gli aveva raccontato di far parte di una banda che, nella capitale, era in guerra con altri gruppi per il controllo criminale della città. Marchese non gli aveva dato troppo peso, del resto erano stati insieme appena qualche giorno in infermeria, poi lui era stato trasferito. Quando si rividero

ad Aversa, invece, i due fecero amicizia, anche perché il siciliano era stato avvertito da suo fratello Antonino Marchese, mafioso pure lui, che quel Colafigli che stava per arrivare «era una persona affidabile». Dal 1992 Giuseppe Marchese è diventato uno dei più importanti «pentiti» di mafia, confessando omicidi commessi in prima persona e aiutando gli inquirenti a smascherare esecutori e mandanti di decine di delitti, compresa la strage di Capaci. Ma ai giudici ha raccontato

anche episodi che dimostrano i più recenti collegamenti tra la mafia e la banda della Magliana. A cominciare dal nuovo incontro con «Marcellone» Colafigli. «Lui», ha spiegato Marchese, «aveva con me l'interesse a mettersi in mostra e a far ben figurare il suo spessore criminale. Per tale motivo, nel prospettarmi la possibilità, una volta che fosse stato scarcerato, di concludere affari e operazioni insieme, mi diceva che all'esterno del carcere, a Roma, egli faceva

parte di un'organizzazione impegnata a mantenere il controllo del territorio nella capitale, e nella quale egli rivestiva un ruolo di vertice. In particolare ci teneva a far vedere che non solo in carcere, ma soprattutto fuori, aveva dei 'fratelli' i quali si interessavano a lui ed erano disponibili a unificarsi operativamente a persone facenti parte di organizzazioni prestigiose come la mia.» (34) Nello stesso periodo, nel carcere di Pianosa, Leoluca Bagarella aveva preso sotto la

sua protezione Antonio Mancini, e a nome della banda Colafigli chiese a Marchese di ringraziare «Luchino» per aver aiutato l'«accattone». «Marcellone» e Marchese rimasero insieme per qualche tempo, condividendo anche la stessa cella, poi si persero di vista a causa dei trasferimenti. Nel 1989 il romano era di nuovo a Reggio Emilia e da lì, a luglio, riuscì a evadere. Tornato libero Colafigli si mise subito «al lavoro»; non aveva dimenticato Marchese e i suoi amici mafiosi, e decise di

ricontattarli per avviare delle forniture di eroina. Non era certo la prima volta che i «bravi ragazzi» si rivolgevano a Cosa Nostra per avere la droga, e «Marcellone» chiamò un altro fratello di Giuseppe Marchese, Gregorio, col quale fissò un appuntamento a Palermo. Prima dell'incontro, Gregorio raccontò tutto a Giuseppe e Antonino Marchese, durante una visita in carcere. «Noi», ha riferito poi Giuseppe, «avendo appreso del viaggio a Palermo che doveva fare il Colafigli e della sua

esigenza di trovare un appartamento, consigliammo a nostro fratello di rivolgersi, per tale incombenza, a nostro cugino Giovanni Drago. Raccomandammo inoltre a Gregorio di avvertire Salvatore Riina del viaggio di Marcello Colafigli a Palermo e dell'esigenza di trovare l'appartamento. «Gregorio lo fece, e nell'occasione Salvatore Riina disse che prima di assumere qualunque impegno circa attività criminali o traffici con il Colafigli, sarebbe stato

opportuno chiedergli di impegnarsi a 'farsi' Gianni De Gennaro a Roma, o quantomeno a individuarne gli spostamenti nella capitale. A tale riguardo, Riina disse che lui non doveva apparire, ma che si facesse in modo che al Colafigli sembrasse che la richiesta partiva da noi.» (35) Quel «farsi», significava «ammazzare». De Gennaro, un poliziotto tenace che lavorava ormai da tempo al fianco di giudici come Falcone e Borsellino, era diventato a causa delle sue indagini uno dei

principali ostacoli per Cosa Nostra, e di conseguenza uno dei nemici da eliminare appena possibile. L'ordine era stato impartito a tutti gli «uomini d'onore»: quello «sbirro» doveva morire. Come Boris Giuliano, come Beppe Montana, come Ninni Cassarà. Durante uno dei suoi soggiorni a Palermo, ma se capitava l'occasione anche a Roma, e per questo, quando si presentò l'occasione, fu attivata la banda della Magliana. Del resto, per gli omicidi da commettere fuori dalla Sicilia, le regole della

mafia non impediscono di rivolgersi a personaggi esterni all'organizzazione. Conta il risultato, non come lo si raggiunge. «Effettivamente Colafigli andò a Palermo», continua il racconto di Marchese. «All'appuntamento si presentarono mio fratello Gregorio e Saverio Marchese, figlio di Filippo. Colafigli venne ospitato nell'appartamento procurato da Giovanni Drago. Chiese di potersi rifornire di droga da Cosa Nostra, e di avere a disposizione motoscafi

per il trasporto dello stupefacente. Non gli venne data immediatamente una risposta positiva, bensì gli fu avanzata, come se provenisse da noi, la proposta di Salvatore Riina. «Colafigli si impegnò a soddisfare la nostra richiesta promettendo che avrebbe provveduto all'eliminazione di De Gennaro attraverso la sua organizzazione romana. Trascorsero dei mesi nel corso dei quali Colafigli si faceva sentire per ribadire il suo impegno, e far presente che se

ancora non aveva provveduto era soltanto perché era 'incasinato'. Dopo di che, essendo stato lui nuovamente arrestato, la cosa non ebbe più seguito. «La decisione di eliminare De Gennaro non era stata presa estemporaneamente da Riina, ma quella del viaggio di Colafigli a Palermo fu soltanto l'occasione per attivare un ulteriore strumento per il conseguimento di uno scopo che Cosa Nostra stava già autonomamente perseguendo. Ero infatti stato informato che

l'eliminazione di Gianni De Gennaro era stata decisa dalla 'commissione'. Pertanto, il fatto che Colafigli sia stato arrestato prima di provvedervi non significa assolutamente che sia venuto meno, per questo, l'interesse di Cosa Nostra a perseguire l'obiettivo già prefissato.» Marcello Colafigli fu riacciuffato dagli uomini della Squadra Mobile di Roma il 26 luglio 1990, in compagnia di un ex militante dell'eversione nera. Furono fermati su una 127, nel quartiere di San Paolo,

e «Marcellone» non fece in tempo a impugnare la Beretta calibro 9 che teneva nel cruscotto dell'auto con il colpo in canna. Insieme all'arma i poliziotti trovarono anche due silenziatori, l'indizio che il killer stava preparando un nuovo agguato. Nell'anno vissuto da latitante, Colafigli era comunque riuscito a mettere in piedi un buon traffico di droga, con l'aiuto di Vittorio Carnovale, «il coniglio». Carnovale accompagnò «Marcellone» nel suo viaggio in

Sicilia, e ai giudici ha confermato sia l'acquisto di eroina dai mafiosi che la proposta ricevuta di compiere un omicidio «eccellente»: «Gli accordi per la fornitura di eroina li prendemmo direttamente con Gregorio Marchese... Le forniture avvenivano mensilmente, iniziarono nell'autunno del 1989 e proseguirono per quattro o cinque mesi. Successivamente ci si riforniva da siciliani residenti a Milano... Inizialmente il prezzo era fissato in centoventi milioni al

chilo, successivamente fu ridotto. Tra le altre cose, secondo quanto mi disse Marcello Colafigli nel viaggio di ritorno da Palermo, che facemmo sul traghetto Palermo-Napoli, i siciliani avevano fatto sapere di essere interessati a uno scambio di favori, quali potevano essere la commissione di omicidi. A me la cosa non andava e pertanto non chiesi spiegazioni a Colafigli... Il 'favore' richiesto non riguardava l'omicidio di malavitosi, bensì di persona che nulla aveva a che fare con

le normali vicende di malavita. Per tale motivo non volli neppure sapere di chi si trattasse, proprio perché la cosa mi appariva particolarmente grossa e non volevo entrarci.» ***

8. AMICI NERI, SERVIZI E SEGRETI.

Era un giorno del 1980, o forse dell'81, Walter non ricordava bene. Lui e Alessandro si trovavano dalle parti della via Prenestina. Quando furono in una strada laterale, Alessandro gli indicò un negozio e disse: «Vedi, lì abbiamo ucciso un tabaccaio». Walter guardò l'insegna, e

senza mostrare troppo stupore chiese: «Perché? Chi era?» «Ce l'ha chiesto Giuseppucci, quello della Magliana. Era uno che aveva sgarrato. Siamo andati io, Massimo e Claudio.» Alessandro Alibrandi e Walter Sordi avevano vent'anni - mese più, mese meno. Facevano politica, e nella guerra che si combatteva allora tra «rossi» e «neri» s'erano schierati dalla parte dei fascisti; in pochissimo tempo, quasi senza accorgersene, erano passati dalle spranghe ai mitra. Alessandro era figlio di un

giudice istruttore di Roma, noto per le sue idee di destra, e insieme ai fratelli Valerio e Cristiano Fioravanti aveva fondato i Nar, Nuclei armati rivoluzionari, il gruppo «spontaneista» e giovanile del terrorismo nero. Ma oltre a fare politica con le armi, il figlio del giudice - la faccia pulita del boyscout che era stato, le orecchie un po' a sventola - s'era messo a «lavorare» con qualche suo amico per i criminali comuni, ai quali importava poco o niente dei partiti, ma molto della

spregiudicatezza e della disponibilità di quei ragazzini. Franco Giuseppucci, Danilo Abbruciati e altri falsari e ricettatori legati al «giro» della Magliana avevano cominciato a utilizzarli sempre più spesso, prima per scambi o lavoretti da poco, poi per «missioni» più impegnative. Come quel giorno dell'aprile 1980, quando «er negro» secondo il racconto di Sordi diede l'ordine di andare ad ammazzare Teodoro Pugliese, fratello del tabaccaio di via Sampiero di Bastelica 56, al

Prenestino. Lo avrebbero trovato al negozio, disse. Alessandro spiegò a Walter come andò, soffermandosi su ogni particolare: non immaginava certo che di lì a un anno o poco più lui sarebbe finito ammazzato per strada e Sordi, arrestato e «pentito», avrebbe consegnato a un verbale di interrogatorio la ricostruzione di quell'omicidio su commissione. «A uccidere Teodoro Pugliese», disse Walter Sordi al magistrato nel settembre del 1982, «sono stati Alessandro

Alibrandi, Massimo Carminati e Claudio Bracci. Me l'ha raccontato proprio Alessandro, secondo il quale il delitto fu commesso per conto di Franco Giuseppucci, uno della banda della Magliana che era in stretti rapporti d'affari con loro, in particolare con Carminati. Entrarono in due, Alibrandi e Carminati, vestiti con degli impermeabili chiari, trovarono Pugliese e un'altra persona. Uno dei due chiese un pacchetto di sigarette, il tabaccaio si girò e loro spararono tre colpi di pistola,

Alessandro mi ha detto che l'hanno colpito alla testa e al cuore. Poi sono saliti a bordo di una macchina, e durante la fuga hanno avuto un incidente, ma sono riusciti ad arrivare ugualmente al punto in cui si doveva fare il cambio auto. So che la pistola usata era una Colt Detective.» (1) Una pistola dello stesso tipo fu ritrovata due anni più tardi dentro una Volkswagen Golf abbandonata dopo l'omicidio di un agente di Polizia che faceva la sorveglianza al rappresentante dell'O.L.P. in

Italia. L'agente Antonio Galluzzo, venticinque anni e padre di una bambina di cinque mesi, fu ammazzato la sera del 24 giugno 1982 davanti all'abitazione romana del palestinese. I colpi di pistola partirono da una Vespa e dalla Golf: prima di scappare uno degli assassini prese con sé il mitra d'ordinanza dell'agente Galluzzo. L'indomani i giornali parlarono di una «nuova vittima della lotta tra Servizi segreti, terroristi israeliani e killer internazionali», ma dopo

altre ventiquattro ore una telefonata alla redazione dell'agenzia Ansa chiarì le cose. «Nella mattinata in cui vengono celebrati i funerali dell'agente Antonio Galluzzo, i Nar rivendicano ufficialmente l'attentato. Non volevamo assolutamente colpire il rappresentante dell'O.L.P. La vendetta per il camerata Vale continua», disse una voce riferendosi alla morte di Giorgio Vale, un ragazzo che aveva attraversato a grande velocità la galassia del terrorismo nero, amico di Alibrandi e Fioravanti,

rimasto ucciso nel covo dove la Digos l'aveva rintracciato. Un perito balistico sostenne che era stato vendicato con la stessa arma che due anni prima era servita per eseguire un ordine di Franco Giuseppucci, detto «er negro». Con Walter Sordi, Alibrandi si vantò di aver centrato il tabaccaio del Prenestino nei punti vitali, testa e cuore, ma in realtà quell'esecuzione fu tutt'altro che perfetta: a uccidere Teodoro Pugliese fu uno solo dei proiettili calibro 38 sparati dai killer, che lo colpì al

torace. «All'altezza dell'ottavo spazio intercostale sinistro», stabilì l'autopsia. Quanto al movente, non ci volle molto a mettere in relazione il commercio di droga in cui era impegnato Giuseppucci col fatto che anche «il tabaccaio» comprava e vendeva cocaina. L'omicidio Pugliese, scrisse il giudice istruttore, «non si può non ricondurre a un regolamento di conti che tragga origine da questioni di droga, come del resto si era ritenuto fin dall'inizio delle indagini.» (2)

Dieci anni più tardi sarà Maurizio Abbatino ad aggiungere qualcosa sulla collaborazione tra Giuseppucci e i giovani neofascisti romani, e a dare un'altra spiegazione dell'omicidio del tabaccaio: «Un'attività che per certo Carminati e i suoi svolgevano per conto di Franco Giuseppucci, ma non nell'interesse della banda, era il 'recupero crediti' nei confronti dei debitori che si rifiutavano o non erano in grado di far fronte ai propri impegni. Era questa, peraltro, un'attività che

svolgevano anche nel proprio interesse, considerato che pure il denaro del gruppo Carminati era oggetto dei prestiti 'a strozzo' di Giuseppucci. Per capire meglio i rapporti tra Giuseppucci e Massimo Carminati occorre tener presente il comportamento che la banda, stante l'attenzione da cui era circondata, si era imposta per dare all'esterno l'impressione di un frazionamento in gruppi tra loro scollegati. Vi fu pertanto un periodo, tra la scarcerazione di Enrico De Pedis e la morte di

Franco Giuseppucci, durato qualche mese, nel quale quest'ultimo diede l'impressione di lavorare da solo. Allo scopo si avvalse del gruppo Carminati per realizzare una vendetta nei confronti di un tabaccaio, appartenente alla malavita dell'Alberone, il quale non aveva adempiuto agli obblighi di solidarietà a favore del De Pedis durante il tempo in cui questi era detenuto». Anche Carminati raccontò qualcosa di quel delitto a un altro della banda, Claudio Sicilia, durante un periodo di

comune detenzione. E una volta fuori tutti e due, il terrorista nero andò a trovare il «vesuviano» a casa. «Si disse molto preoccupato», racconterà Sicilia, «di una richiesta di accertamento dattiloscopico fatta dal pubblico ministero nel corso del processo su un'impronta digitale rilevata sull'auto rubata e usata per l'omicidio; quest'impronta, mi disse, era stata rilevata su un vetro. In un altro colloquio Carminati mi disse che tramite conoscenze alla Criminalpol era riuscito ad arrivare a contattare

il perito incaricato dell'indagine, o comunque ad arrivare a una persona vicina, sempre della Criminalpol, così da alterare l'impronta oggetto dell'accertamento... Sta di fatto che nelle conclusioni della perizia si affermava che il confronto tra le impronte non poteva essere effettuato in quanto l'impronta oggetto dell'indagine era troppo vecchia.» (4) Il processo andò come doveva andare, la possibile prova dell'impronta digitale svanì nel nulla e i due imputati,

Bracci e assolti.

Carminati,

furono

I contatti tra i ragazzini del terrorismo nero e i «grandi» della Magliana cominciarono tra la fine del '77 e l'inizio del '78, quando qualcuno dei neofascisti era ancora minorenne. A quell'epoca la sigla Nar non esisteva, ma i giovani «spontaneisti» dell'estremismo di destra avevano già i loro morti, provocati e subiti. Nel settembre del '77, durante uno scontro di piazza tra «rossi» e «neri» al quartiere Balduina,

morì il giovane militante di Lotta Continua Walter Rossi. Cristiano Fioravanti e Alessandro Alibrandi erano lì, e quando incontrarono Valerio, furono proprio loro a confessargli: «L'abbiamo ammazzato noi. Avevamo una pistola in due, abbiamo sparato un po' per uno». «Quello», spiegherà anni dopo Valerio Fioravanti a una Corte d'Assise, «fu il primo morto attribuibile al nostro gruppo, anche se arrivava dopo vari tentativi. Quello, detto un po' cinicamente, è riuscito, ma

era già stato tentato, c'erano stati diversi accoltellamenti.» (5) A parte la «guerra politica» che combattevano, molti dei giovani terroristi neri di quel gruppo erano affascinati dalle armi, dal guadagno facile, dalla «vita da duri», e furono comode prede di chi si faceva pochi scrupoli a utilizzarli. Cominciarono a portare a ricettatori e trafficanti di droga i bottini delle loro rapine a gioiellerie e filatelie; i primi guadagni li fecero così, poi passarono alle banche. In

seguito, dopo aver dato prova di affidabilità ed efficienza, ai piccoli terroristi che crescevano furono affidati compiti più delicati come il «recupero crediti» - espressione elegante per indicare pestaggi, gambizzazioni e attentati contro chi non poteva o non voleva pagare i debiti accumulati col gioco o col prestito «a strozzo» - e qualche omicidio. Il primo a stringere i legami fu Franco Giuseppucci, che si definiva pure lui fascista e quindi aveva anche

un'assonanza politica, oltre che un certo atteggiamento paternalistico, con quei ragazzini che gli stavano intorno. Si incontravano nei bar dalle parti della Magliana, a viale Marconi, dove i «neri» ascoltavano i discorsi dei «comuni», imparavano, traevano insegnamenti sulle fonti di guadagno e sui modi per risolvere qualunque tipo di contrasto. Un altro «modello» era Danilo Abbruciati, deciso, ribelle, sempre a bordo di una moto potente e rumorosa. Quando si misero a parlare,

furono proprio i «pentiti» del terrorismo nero ad aprire i primi squarci dall'interno sulla banda della Magliana, di cui la Polizia intuiva molte cose ma che sembrava fatta di intoccabili, gente che ogni tanto si riusciva anche ad arrestare, e che però poco dopo era di nuovo libera e impegnata più di prima nei suoi traffici. «I rapporti del mio gruppo con la banda capeggiata da Giuseppucci e Abbruciati», ha spiegato Walter Sordi ai magistrati, «si svilupparono attraverso l'intermediazione di

Massimo Carminati, principalmente, e di Claudio e Stefano Bracci. Tutti e tre frequentavano la zona di ponte Marconi, e in particolare il bar Barone, dove andavano anche Giuseppucci e Abbruciati. Carminati li conosceva da moltissimi anni, e Alibrandi mi disse che era il pupillo dei due. I contatti tra il gruppo Alibrandi, Carminati e la banda Giuseppucci-Abbruciati, erano precedenti al mio inserimento nel gruppo Alibrandi, avvenuto alla fine del 1979. Alibrandi, Carminati e i fratelli Bracci mi

dissero anche che la banda Giuseppucci-Abbruciati era dedita al traffico della droga, ai sequestri di persona, alle estorsioni, alla gestione di bische clandestine, nonché alle scommesse clandestine che avvenivano all'ippodromo di Tor di Valle. Mi fu detto che la banda aveva da qualche tempo abbandonato il settore dei sequestri di persona per dedicarsi esclusivamente alle altre attività.» (6) Prima di Sordi, Cristiano Fioravanti aveva già spiegato ai magistrati che il suo amico

Alibrandi utilizzava «il negro» della Magliana come finanziatore: «Lui dava a Giuseppucci parte del denaro provento delle rapine, e il Giuseppucci lo prestava agli scommettitori a interessi usurari. Alla fine di ogni mese Alibrandi riceveva da Giuseppucci gli interessi che, a quanto so, si aggiravano intorno alle settecentomila lire mensili (...) Nella zona di viale Marconi il gruppo di Alibrandi era strettamente collegato con i comuni del clan Giuseppucci, ai quali non è da escludere

abbiano chiesto alloggio». (7) Anche Cristiano, il più giovane dei fratelli Fioravanti, fece qualcosa per conto della Magliana. Un'azione di poca importanza, a sentire lui, rispetto a tutto quello che i suoi amici avrebbero commesso: «Io mi limitai a compiere un attentato a un benzinaio posto in una via perpendicolare alla Pineta Sacchetti. Si trattava di un grosso impianto, e l'indicazione ci fu data da Massimo Sparti (un ricettatore amico dei Fioravanti, N.d.A.) il quale conosceva e frequentava

gli ambienti della Magliana, dai quali otteneva documenti e targhe per noi. Sparti disse a me e Tiraboschi, autori materiali, che per ingraziarci maggiormente la gente dell'ambiente sarebbe stato opportuno fare loro il favore dell'attentato. Il fatto risale al 1978. (...) Ad Alibrandi, Carminati e Bracci, quelli della Magliana davano indicazioni sui luoghi e le persone da rapinare... Avevano anche la funzione di recuperare i crediti di quelli della Magliana (fu proposto anche a me, ma io

rifiutai) e di eliminare alcune persone poco gradite. Tali persone da eliminare gravitavano nell'ambiente delle scommesse clandestine di cavalli. In particolare Carminati mi disse, presumibilmente intorno al febbraio 1981, di aver ucciso due persone: una di queste era stata 'cementata', mentre l'altra era stata uccisa in una sala corse. A quest'ultimo proposito rammento che fui io stesso ad accennare a Massimo Carminati se per caso si trattava di quella persona da poco uccisa in una

sala corse ed egli, con un sorrisetto, mi fece capire di sì». (8) Secondo Claudio Sicilia, Carminati e Claudio Bracci parteciparono, con quelli della Magliana, anche al ferimento di uno dei fratelli Proietti, Mario «palle d'oro». Alessandro Alibrandi, Valerio e Cristiano Fioravanti erano i tre frequentatori inseparabili della sezione missina al quartiere Monteverde, cresciuti come picchiatori e destinati a diventare terroristi neri più in

nome della ribellione, dei vincoli d'onore e d'amicizia, che dell'ideologia e delle convinzioni politiche. Soprattutto Valerio, che proprio per questo non vedeva di buon occhio il progressivo avvicinamento di Alessandro e Cristiano ai «comuni» in generale e a quelli della Magliana in particolare. Certo, anche lui faceva le rapine e affidava i proventi ai ricettatori, ma avrebbe voluto mettere un limite a quella commistione, recintare in qualche modo il suo gruppetto per non

inquinare la solidarietà e i legami di fratellanza che c'erano fra loro. Ma gli altri due non sentivano ragioni, soprattutto Alessandro, e alla fine le strade dei tre si divisero, anche se poi si sarebbero incrociate nuovamente e sempre li avrebbe legati l'amicizia e la promessa di reciproco aiuto, in qualunque circostanza. Alessandro seguitò a frequentare i «bravi ragazzi», cercava di spiegare a Cristiano che conveniva a tutti lavorare con loro. I milioni circolavano

come fossero caramelle, e si moltiplicavano. «Nel 1980», racconterà Walter Sordi, «Alibrandi affidò alla banda Giuseppucci-Abbruciati venti milioni di lire, Claudio Bracci dieci milioni, Carminati venti milioni, Stefano Bracci e Tiraboschi cinque milioni. Ricordo che Alibrandi percepiva un milione al mese di rendita. Mi fu spiegato che gli investimenti dovevano avvenire per un periodo non inferiore a sei mesi, e che gli interessi corrisposti erano del cinque, sei per cento mensili...

Tutto era fondato sulla fiducia, i soldi affidati alla banda erano tutti in contanti.» (9) Ci fu un periodo in cui Alessandro si trasferì in Libano, un po' per sfuggire alla giustizia italiana e un po' per provare altre emozioni al fianco dei miliziani falangisti. Anche da laggiù, però, rimase in contatto coi suoi amici romani. Con lui era andato Walter Sordi, il quale riferirà al giudice: «Ricordo che un giorno, mentre ero a Beirut insieme ad Alibrandi, ricevetti una telefonata da Carminati, il

quale chiese se vi era la possibilità di 'piazzare' pietre preziose di provenienza illecita. Della ricettazione di gioielli provenienti da rapine si interessava quasi esclusivamente Santino Duci, collegato alla banda Giuseppucci-Abbruciati». (10) Era stato lo stesso Giuseppucci a creare il «circuito virtuoso» per i giovani rapinatori neofascisti. «Franco», spiega Maurizio Abbatino, «aveva messo Carminati in contatto con Santino Duci, titolare di una

gioielleria in via dei Colli Portuensi, il quale ricettava i preziosi provento di rapine ad altre gioiellerie e orefici, liquidando a Carminati il contante che questi riciclava e reinvestiva mediante lo stesso Giuseppucci.» (11) Il «reinvestimento» consisteva nel prestito «a strozzo», da cui Franco ricavava interessi del venti, venticinque per cento mensili, che poi «steccava» alla pari con Massimo: «Lui, per ogni dieci milioni di lire veniva a percepire mensilmente da Giuseppucci da un milione a un

milione e mezzo di lire, fermo restando che Franco Giuseppucci garantiva la restituzione del capitale». (12) Mentre Alibrandi si trovava in Libano, Cristiano Fioravanti vide ancora qualche volta, con Carminati, quelli della Magliana. Andavano a pranzo insieme, discutevano di quello che si poteva fare. Cristiano si era riavvicinato a Valerio, e la sera del 5 febbraio 1981 erano insieme a Padova, sull'argine del canale Scaricatore. Una pattuglia dei Carabinieri li sorprese mentre stavano

recuperando delle armi dal fiume, ci fu una sparatoria, i due militari vennero uccisi, Valerio rimase ferito, Cristiano e Francesca Mambro lo lasciarono in un appartamento della città, poco dopo fu arrestato. Tornato a Roma, Cristiano chiese aiuto agli amici che erano rimasti in circolazione, e attraverso Carminati trovò ospitalità in una casa sulla Laurentina, che era di un amico di Marcello Colafigli. Lì si incontrarono anche Stefano Soderini e Pasquale Belsito, altri due

«neri» in fuga, con «Marcellone» e Antonio Mancini, che di lì a qualche settimana sarebbero stati arrestati dopo aver ucciso Maurizio Proietti nell'agguato di via Donna Olimpia. Poco più di un anno prima, nel novembre del '79, un «commando» misto di giovani neofascisti, tra cui Valerio Fioravanti, e componenti della banda della Magliana, fece una rapina alla sede della Chase Manhattan Bank, all'Eur. Alle sette del mattino i banditi immobilizzarono i vigilantes e il

personale delle pulizie che era già dentro l'istituto, poi attesero l'arrivo del direttore e dei cassieri: si fecero aprire la cassaforte, disattivarono i sistemi di allarme, bloccarono gli impiegati e se ne andarono con cento milioni in contanti e molti altri in travellers' cheque. Per riciclare la parte di bottino in assegni, Fioravanti si rivolse a un falsario di sua fiducia, Marco Mario Massimi, conosciuto in carcere nel 1979. Carminati e Alibrandi consegnarono invece la loro quota a Giuseppucci, che ne

parlò con Abbatino. Decisero di farseli cambiare da un cileno col quale erano in contatto per un progetto di furto in alcune cassette di sicurezza. Ma il giorno fissato per l'incontro, Giuseppucci, Abbatino e Giorgio Paradisi furono arrestati e finirono a Regina Coeli. Era il gennaio dell'80. Partendo dalla traccia di quei travellers' cheque, sui «bravi ragazzi» cominciò a indagare anche il sostituto procuratore di Roma Mario Amato, unico titolare delle inchieste sul terrorismo nero nella capitale;

cinque mesi dopo, a giugno, fu ammazzato da un killer dei Nar, Gilberto Cavallini, con un colpo di pistola alla nuca. Tre mesi più tardi venne assassinato Franco Giuseppucci, ma per i terroristi neri mescolati alla Magliana non cambiò granché: c'erano ancora Abbatino e gli altri conosciuti attraverso «er negro», a cominciare da Danilo Abbruciati. «Il gruppo di Carminati», ricorderà Abbatino, «si offerse spontaneamente di partecipare alla vendetta per la morte di Franco Giuseppucci.»

(13) «Sì, intendo rispondere. Io entrai in contatto con il gruppo della Magliana tramite il professor Aldo Semerari. Ciò avvenne prima del 1979, penso verso l'estate del 1978. La ragione del contatto mi fu spiegata da Semerari con la possibilità, nel futuro, di avere rapporti di reciproca collaborazione, in particolare per quanto riguarda il finanziamento. Era noto, comunque mi fu detto anche da Semerari, che le persone del

gruppo della Magliana si interessavano prevalentemente di sequestri di persona, e si occupavano anche di droga.» (14) Davanti ai sostituti procuratori di Firenze Pier Luigi Vigna e Gabriele Chelazzi, che indagavano sugli attentati neofascisti ai treni, il «pentito» Paolo Aleandri parlava spedito. Ormai aveva deciso di dire tutto. Aveva trent'anni, solo qualcuno in più dei suoi «colleghi» dei Nar Carminati, Alibrandi e Fioravanti, ma politicamente apparteneva a

un'altra generazione dell'eversione nera, quella che era rimasta in contatto con «i professori», con le derivazioni dei vecchi gruppi di Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo. Aleandri veniva proprio dal movimento che aveva per simbolo l'ascia bipenne e che era stato sciolto dal ministro dell'Interno Paolo Emilio Taviani. Con Sergio Calore, un altro «intellettuale» cresciuto alla scuola dei Semerari, De Felice e Signorelli, aveva fondato «Costruiamo l'azione»,

un gruppo e un giornale che predicavano il superamento dei «limiti della destra» e una sorta di alleanza tra giovani neofascisti e rivoluzionari comunisti in nome dell'abbattimento del sistema, nella quale avevano più valore i concetti un po' fumosi di combattimento e di rivoluzione che non le vecchie ideologie contrapposte. Ma mentre dava il suo contributo a quel «laboratorio di idee», Aleandri assisteva e partecipava a contatti e progetti più concreti, tra

Semerari e i criminali comuni: bombe e sequestri di persona in cambio di perizie psichiatriche di favore e appoggi processuali, proponeva il professore. Ma non tutto era così chiaro e semplice, né filava così liscio. «Io conobbi varie persone del gruppo della Magliana», continuò Aleandri davanti ai giudici, «ma i nomi li ricordo solo di alcuni, altri potrei riconoscerne in fotografia. Rammento i nomi di Franco Giuseppucci, detto il Negro, che sembrava un po' il capo o il coordinatore del gruppo; e poi

Maurizio Abbatino, Edoardo Toscano, Marcello Colafigli... La maggior parte delle volte mi sono visto con questa gente nei pressi di un bar della Magliana, frequentato assiduamente da Giuseppucci. All'inizio dei rapporti ci eravamo visti una volta almeno presso lo studio di Semerari: c'era sicuramente Giuseppucci, con qualche altro che non ricordo. In un primo momento si andava avanti a livello discorsivo, progettando eventuali rapporti concreti che dovevano avvenire in futuro. «Nel 1979, direi intorno alla

primavera, Giuseppucci mi chiese di custodire un sacco, di quelli che si portano a tracolla, ma grande, nel quale c'erano delle armi della banda della Magliana... Giuseppucci mi fece intendere che aveva rapporti simili, cioè di custodia delle armi, con un gruppo di sinistra, ma non mi dette altri particolari. «Ricordo che io divisi il contenuto del sacco in due parti: una parte, con delle pistole calibro 38 e una machine pistole, era custodita presso la casa di Italo Iannilli;

l'altra la detti in deposito, ma facendo capire che non poteva essere usata, a Mario Rossi. Tutto ciò all'insaputa di quelli della Magliana. Iannilli custodiva anche materiale nostro, e successe che per cattiva organizzazione, alcune persone della destra presero, dal suo deposito, il materiale dato da quelli della Magliana. A questo punto, quando mi venne richiesta la restituzione del sacco, io non ero in grado di farlo perché mancava del materiale, e temporeggiavo nella speranza di poter

ricostituire la dotazione che mi era stata data in custodia. «Ci furono degli interventi su di me, affinché provvedessi alla restituzione, da parte di Pancrazio Scorza, che mi diceva di essere stato sollecitato da Carminati, preoccupato che questa cattiva gestione dei rapporti sciupasse la buona immagine che egli era riuscito a creare con quelli della Magliana. «Io in quel periodo stavo maturando l'idea di ritirarmi, e quindi i rapporti con gli altri del mio gruppo si erano deteriorati.

A causa di questa particolare situazione, non mi fu possibile ricostituire la dotazione: quindi a un certo punto, a ridosso dell'estate del 1979, venni sequestrato da gente della Magliana, episodio che finora non ho riferito per vari motivi, e che comunque mi vedeva solo come parte lesa.» (15) I «bravi ragazzi» s'erano liberati delle armi, consegnandole ad Aleandri, perché avevano saputo di possibili arresti contro la banda, e non volevano farsi trovare con pistole e

mitragliette a disposizione. Nei primi mesi del '79, Abbatino e i suoi amici entrarono e uscirono da Regina Coeli, ma all'inizio dell'estate erano di nuovo in libertà. E certo non furono contenti di sapere che il borsone con le armi affidato a quel giovane fascista amico di Semerari davanti alla stazione di Trastevere era andato perso. Sentivano puzza di bruciato, chiesero conto al. «professore» che promise di interessarsene, ma non potevano lasciar cadere la cosa senza conseguenze. Un giorno di agosto,

Abbatino e un altro paio dei suoi si trovavano in tribunale, per parlare con un avvocato. A un tratto vide Aleandri, quello che, ormai ne erano sempre più convinti, aveva rubato le loro armi. All'istante, senza avere un piano preordinato, decisero di sequestrarlo per costringerlo a restituire pistole e mitragliette. Lo seguirono, uno di loro preparò la bendatura attaccando due pezzi di cerotto all'interno delle lenti di un paio d'occhiali da sole, e appena furono fuori dal tribunale circondarono Aleandri, lo

presero alle spalle e lo spinsero nella Renault 5 con cui erano arrivati. Con gli occhiali da sole incerottati, il giovane neofascista non capì dove lo stessero portando: si accorse solo che l'auto correva e stava uscendo di città, perché da uno spiraglio sulle lenti credette di riconoscere una strada di periferia. Di reagire, ad Aleandri non venne nemmeno in mente: sapeva bene di che cosa erano capaci quelli. Piuttosto si mostrò condiscendente, e ripeté ancora

una volta che non era colpa sua se le armi erano sparite. Ma quelli non vollero saperne: «Adesso ti teniamo un po' con noi, e vediamo se le ritroviamo». Lo portarono ad Acilia, in un appartamento dove spesso quelli della Magliana andavano a «pippare» la cocaina. Ormai erano quasi tutti schiavi di quella polverina bianca. Quando si spostavano da una città all'altra in aereo, succedeva che dovevano infilarsi nelle toilette degli scali anche due o tre volte in pochi

minuti, col rischio di destare sospetti ed essere controllati, per tirare la cocaina di cui non potevano fare a meno. Aleandri fu rinchiuso in una camera da letto con la finestra sbarrata, da cui non arrivavano i rumori del traffico, ma voci di bambini. L'ostaggio vedeva i suoi rapitori sempre e solo con un cappuccio in testa, e ce n'era uno piccolino, con l'accento sardo, che ogni volta gli ripeteva: «Fosse per me, ti avrei già dato ai maiali». Ma per il momento, a quelli della Magliana Paolo Aleandri

serviva vivo: rivolevano le armi, e comunque dovevano sapere che fine avevano fatto. Ogni tanto gli portavano il telefono, perché - sempre davanti a uno di loro chiamasse qualcuno e cercasse di far saltar fuori quel borsone. Il fascista tentò di convincere i suoi amici almeno a mettere insieme un po' di pistole e mitra, in modo da proporre ad Abbatino e compagni uno scambio con un quantitativo di armi equivalente a quelle scomparse. A uno dei soliti bar, a circa

una settimana dal sequestro, si presentò Massimo Carminati insieme a Pancrazio Scorza e Bruno Mariani, altri due «cani sciolti» della destra eversiva, i quali proposero ad Abbatino lo scambio: se liberavano Aleandri, loro gli avrebbero portato un altro stock di armi. Un paio di giorni dopo, Abbatino e tre dei suoi si presentarono alla stazione Trastevere con l'ostaggio, Mariani e gli altri neofascisti con due mitra Mab modificati e due bombe a mano tipo ananas. Pistole non ce n'erano,

ma i «bravi ragazzi» ritennero ugualmente vantaggioso lo scambio, soprattutto per i due mitra. Così Aleandri poté tornare a casa sua. «Non ci disse mai che fine avessero fatto le armi che gli avevamo consegnato», ricorderà Abbatino, «limitandosi sempre a dire che erano andate perse non per colpa sua. La vicenda non comportò un nostro distacco da Semerari, in quanto la sua assistenza professionale ci era comunque vantaggiosa, ma né lui chiese più 'favori' di tipo

criminale, né noi eravamo disposti a trattare su tale terreno.» I rapporti proseguirono invece con i procacciatori delle nuove armi, presentati al gruppo da Carminati, il quale si avviava a entrare a pieno titolo all'interno della banda, in una sorta di doppia militanza: tra i terroristi neri e con i malavitosi comuni. Scorza e Mariani proposero a quelli della Magliana altri affari, come ad esempio l'acquisto di un bazooka che sarebbe andato bene per assaltare i furgoni

blindati. Ma non se ne fece niente, perché poco dopo vennero arrestati. Il professor Semerari, che già faceva quel doppio gioco con i camorristi - tra Cutolo e Ammaturo - che gli sarebbe costato la vita, teorizzava con i suoi «allievi» la collaborazione con la criminalità comune per evitare che il suo gruppo politico dovesse ricorrere ad azioni di autofinanziamento. Bastava fornire qualche indicazione utile alle bande dei sequestratori, diceva, per

aiutarli a individuare e rapire gli ostaggi, in modo da poter riscuotere una quota del riscatto. La proposta di azioni come piazzare bombe qua e là in cambio di perizie psichiatriche compiacenti sarebbe stato un passo successivo. Ma il terreno dei rapporti tra malavitosi e neofascisti era stato battuto ancor prima che esistesse il «marchio» della banda della Magliana. Nel 1975, quando finirono in carcere o dovettero darsi alla latitanza, i «massacratori del

Circeo» Andrea Ghira, Angelo Izzo e Gianni Guido avevano molti agganci con i gruppi che smerciavano la droga e organizzavano i rapimenti nella capitale. Erano ancora i tempi in cui imperava il clan dei Marsigliesi, e c'erano pariolini infatuati di neofascismo e propositi golpisti che si vantavano di fare affari con loro. «Io», ha raccontato il «pentito» Izzo al pubblico ministero Vigna, «ho avuto rapporti con i francesi. Ero molto legato da amicizia con

Andrea Ghira, fin da ragazzo, e negli ultimi due o tre anni egli era invischiato in ambienti malavitosi, mentre io facevo riferimento ad altre persone, come Guido. Andrea Ghira trafficava in droga, vendeva sia eroina che cocaina che hashish, e compiva anche furti e rapine per finanziare questo traffico di droga. Io peraltro continuavo ad avere rapporti di amicizia con lui, e gli avevo consegnato in custodia delle armi che mi appartenevano; si trattava di alcuni mitra M.P. 40, Mab e Sten, e di varie pistole. Le

pistole le avevo comprate con un falso porto d'armi, mentre i mitra li avevo acquistati da malavitosi. Le armi me le ero procurate sia perché nel '74-'75 si parlava di colpo di Stato, e sia perché ne facevo commercio. «Intorno al giugno-luglio 1975, Ghira era uscito da poco dal carcere, ed ebbi con lui una mezza lite in quanto mi voleva dare quattro milioni ricavati dalla vendita di due mitra e quattro pistole. Io non volli quei soldi, e mi irritai con lui perché aveva venduto la mia

roba. Ghira mi disse che le armi le aveva vendute al clan dei Marsigliesi, gente che in quel periodo era salita agli onori della cronaca; aggiunse che era entrato in contatto con questa gente e mi disse che a costoro avrebbe fatto piacere conoscermi. «Io mi lasciai convincere e feci a Ghira delle domande su queste persone. Poiché il nome che circolava di più era quello di Berenguer, gli chiesi se lo aveva conosciuto e Ghira mi disse che lui era l'ultima ruota del carro, e che vi erano

persone più in gamba; aggiunse che Berenguer era scaduto in quanto aveva commesso uno sbaglio nel sequestro Ortolani lasciandosi prendere dal panico alla vista della polizia e che per questa ragione lo avevano fatto sparire. «Nei giorni successivi, siamo verso il luglio 1975, una sera mi recai con Ghira al ristorante Il Bolognese, a piazza del Popolo a Roma, e qui egli mi presentò due persone: una che poi seppi essere Jacques Forcet, e l'altra un sudamericano mai

più visto. Quella sera si parlò genericamente senza affrontare argomenti specifici; ricordo che eravamo armati e in quattro avevamo otto pistole: ciò uscì fuori nel parlare tra noi... «Ad agosto rimasi in stretto contatto con Ghira andando al Circeo, e una sera Ghira mi disse che potevamo andare insieme a Roma per vedere Forcet. Ci incontrammo, lui ci disse di volerci far conoscere altri amici, e ci recammo insieme a un pianobar vicino a via Veneto, che aveva un nome tipo Far West o Cow Boy: la

proprietaria di questo locale era una donna bionda e piuttosto bella, che mi sembrò essere intima di Forcet e delle altre persone che ci presentò. Erano Bergamelli, che a quel tempo aveva un grosso paio di baffi, e due romani di uno dei quali ricordo il nome, Enrico, che aveva una Kawasaki 900. Ghira disse che erano ricercati per sequestro...» (18) Con quelli della Magliana, negli anni successivi, era invece Massimo Carminati milanese trapiantato a Roma, classe 1958 - il neofascista che

aveva i rapporti più stretti. Se ne parlava spesso tra i ragazzi dei Nar che avevano imbracciato il mitra. Uno di questi, Stefano Soderini, ha ricordato ai giudici quello che di Carminati diceva il capo riconosciuto dei Nuclei armati rivoluzionari, Valerio Fioravanti: «Me ne parlò come di un elemento di provenienza 'destrorsa', che si era poi lasciato andare a condurre un percorso illegale di un notevole spessore con ambienti malavitosi di una certa levatura... Di Carminati,

Valerio diceva che aveva deciso di intraprendere quella vita per porsi a conoscenza di tutte le esperienze illegali e criminali; aveva voluto fare il rapinatore, il sequestratore, si era messo in giri di droga, scommesse, aveva intrattenuto rapporti loschi e intriganti, episodi di killeraggio, eccetera». (19) In un rapporto dei Carabinieri del 1986, Massimo Carminati viene descritto come elemento «notoriamente collegato al gruppo della Magliana con il quale peraltro ha anche condiviso interessi

finanziari... Noto appartenente alle organizzazioni eversive di estrema destra tra cui Terza Posizione e i Nar, è risultato collegato a elementi della banda della Magliana, in particolare con il Maragnoli Ettore e l'Abbatino Maurizio... E' segnalato come componente di un sodalizio criminoso facente capo al Maragnoli Ettore e al Paradisi Giorgio, dedito anche all'organizzazione del gioco d'azzardo e al traffico di sostanze stupefacenti.» (20) Dalla banda, il giovane neofascista veniva utilizzato

come artificiere, perché era in grado di mettere a punto ordigni esplosivi che servivano per avvertimenti o attentati dimostrativi. Li costruiva con dei barattoli di vernice riempiti di esplosivo, bulloni e schegge di metallo, chiusi ermeticamente e collegati con miccia e detonatore. «Per nostro conto», ha rivelato Maurizio Abbatino, «preparò anche un ordigno costituito non da un barattolo, ma da un tubo di metallo chiuso alle estremità, che facemmo esplodere tra le saracinesche e

il vetro della porta di una bisca alla Magliana, dalle parti di via Greve, a fianco della quale c'era il comitato di quartiere. L'attentato aveva scopi intimidatori nei confronti del gestore, in quanto, a poca distanza, Gianni Piconi aveva aperto un'altra bisca in società con il suocero, e non tollerava la concorrenza. A piazzare l'ordigno avevamo provveduto io e lo stesso Carminati.» (21) Al terrorista nero, divenuto «pupillo» di Abbruciati dopo la morte di Giuseppucci, era anche consentito l'accesso

all'arsenale della banda, che sarebbe stato scoperto dalla polizia alla fine del 1981. Nel frattempo però Massimo Carminati era stato arrestato e ferito in una sparatoria, il 21 aprile '81, mentre stava tentando di passare clandestinamente dall'Italia alla Svizzera con un «camerata» di Avanguardia Nazionale, Domenico Magnetta. La polizia s'era appostata a quel valico utilizzato molte volte dai «neri» e la cui esistenza era stata svelata da Cristiano Fioravanti, caduto in trappola

alcuni giorni prima e passato velocemente nelle file dei «pentiti». A Fabiola Moretti, la «donna dei boss» piuttosto orgogliosa della sua origine povera e proletaria, quel neofascista che si stava riciclando nella criminalità comune non piaceva: «Lo sentivo diverso da noi. Noi commettevamo certe azioni perché avevamo bisogno di vivere, e non conoscevamo altro modo che quello per vivere. Massimo Carminati e i fascisti come lui, commettevano le stesse azioni

per gusto, per fanatismo ideologico, e ne ricavavano anche soldi, ma il movente primo era l'ideologia. Per questo non mi piaceva, e lo dissi a brutto muso a Danilo, il quale invece la pensava diversamente, mi diceva che Massimo era un bravo ragazzo... Abbruciati lo stimava moltissimo... Massimo era un tipo taciturno, serio, educato rispetto alla media delle persone che frequentavamo... Era stato coinvolto in un conflitto a fuoco, diceva sempre che dopo quell'episodio in cui

sarebbe potuto morire, ogni giorno in più di vita era tanto di guadagnato, mostrando così una sorta di disinteresse per la morte». (22) Quando fu arrestato con le accuse di «detenzione di armi da guerra e comuni, detenzione di materiale esplodente e ricettazione», Biagio Alesse aveva quarantun anni. Era un dipendente del ministero della Sanità, con la qualifica di «impiegato esecutivo», e svolgeva le mansioni di custode nell'edificio dell'Eur dove aveva

sede la direzione generale dei servizi di igiene pubblica; all'ottavo piano gli avevano dato anche un alloggio di servizio. Proprio negli scantinati di quel palazzo, al numero 34 di via Liszt, che dovevano servire da ripostiglio e laboratorio per le necessità del ministero, la polizia trovò una gran quantità di pistole, mitra, proiettili ed esplosivi; nascosti nel terrazzo c'erano pure due fucili. Era il 27 novembre 1981. Alesse finì in manette, ma negli uffici della Digos, che aveva

ereditato gli archivi dell'Ufficio politico della Questura, saltarono fuori informazioni sul suo conto vecchie di oltre dieci anni. Il custode infatti - scrisse il solerte poliziotto nel suo rapporto al magistrato - «era noto agli atti perché denunciato in stato di libertà in data 12-31969 alla locale Procura della Repubblica per il reato di resistenza a pubblico ufficiale, lesioni personali, danneggiamento e radunata sediziosa, fatti commessi in Roma il 27-2-1969 nel corso delle manifestazioni indette

dall'estrema sinistra contro la Nato e contro la visita in Italia dell'allora presidente degli Stati Uniti Richard Nixon.» Era stata una giornata violenta, quel 27 febbraio di dodici anni prima. Nixon si trovava in Italia da pochi giorni, e sui muri delle città il suo nome compariva spesso ornato da una svastica al posto della «x» e accompagnato dalla parola «boia». Contro la visita del presidente Usa s'erano mobilitati i movimenti di sinistra e gli studenti che nel frattempo avevano occupato

parecchie università, impegnati a fronteggiare polizia e carabinieri ma anche le squadracce fasciste che volevano farsi paladine di «legge e ordine». Proprio a causa di un assalto dei «neri» alla facoltà di Magistero, quel giorno a Roma morì un ragazzo di ventiquattro anni, mentre per le strade del centro bruciavano le auto e si respirava il gas dei lacrimogeni sparati dai celerini per disperdere i manifestanti che gridavano contro Nixon e l'imperialismo nordamericano.

Tra loro - secondo quanto risultava alla Digos - c'era pure Biagio Alesse, che poi era uscito indenne da quella storia. Ma adesso, dodici anni più tardi, si trovava in una cella di Regina Coeli a riflettere su quell'autentico arsenale malamente nascosto in scatoloni, fogli di giornale e casse nei locali di cui lui aveva le chiavi, che gli valeva un'accusa ben più grave. Avevano trovato perfino bombe a mano, parrucche, guanti di gomma e giubbotti antiproiettile, infilati nei tubi

dell'aria condizionata. Per quanto fino a quel momento Alesse non avesse dato problemi sul lavoro, fosse considerato da tutti un insospettabile e il suo arresto avesse «colto di sorpresa» (come accade quasi sempre) i colleghi e gli altri dipendenti del ministero, il custode fu immediatamente sospeso dall'impiego e sfrattato dall'alloggio di servizio. Ora doveva affrontare il carcere e un processo, e pensava a quel suo amico, Alvaro, anche lui dipendente del ministero, che

l'aveva ficcato in questa storia. Gli aveva già chiesto dei favori, come quello di fare pure i suoi turni di lavoro in cambio di una parte del suo stipendio; poi, un giorno del 1980, gli si presentò con la proposta di «fare un piacere a degli amici». Cominciarono ad arrivare valigie piene di roba, spuntarono le armi e gli esplosivi, Alesse si preoccupò, chiamò Alvaro per avvertirlo che bisognava smetterla, non si poteva rischiare più di tanto. Ma quello non volle sentire ragioni, «sei proprio limitato»

disse all'amico, che non aveva potuto replicare nulla. Le armi, per i «bravi ragazzi» della Magliana e di Testacelo, erano diventate più importanti del pane. Nelle loro case ce n'era sempre qualcuna, nascosta negli armadietti a parete posteriore mobile fatti costruire appositamente da un falegname di Ostia, con un doppiofondo che poteva comodamente ospitare pistole e proiettili. Ma il problema più generale, quello di dove tenere il grosso dell'arsenale, era

rimasto insoluto. La storia di Aleandri aveva dimostrato che dei potenziali complici c'era poco da fidarsi, e continuare a servirsi di conoscenti incensurati poteva essere pericoloso: intorno alla banda gravitavano ormai troppe persone, e il rischio che qualcuno coinvolto marginalmente negli affari del gruppo - ad esempio proprio nella custodia delle armi parlasse con la Polizia facendo nomi e cognomi, era diventato troppo grande. Decisero di costituire un

unico, grande deposito, e c'erano due possibilità: raccogliere tutte le armi in un appartamento «pulito» e disabitato, dove ciascuno poteva entrare e prendere quello che gli serviva, oppure affidare il grosso dell'arsenale a una persona, naturalmente insospettabile, che l'avrebbe custodito giorno e notte. Maurizio Abbatino avrebbe preferito la prima alternativa e invece - come racconterà al giudice istruttore - «prevalse la seconda, caldeggiata in particolare da Marcello Colafigli

e Claudio Sicilia, anche perché le locazioni immobiliari erano diventate difficili da gestire per l'emergenza terroristica.» (23) La catena con cui si arrivò agli scantinati dell'Eur fu piuttosto breve e lineare. «Marcello Colafigli aveva un notevole ascendente su Alvaro Pompili, all'epoca impiegato del ministero della Sanità, pertanto gli prospettò la possibilità di costituire un deposito presso tale ministero. Pompili, a sua volta, era particolarmente legato a Biagio Alesse, custode del ministero, il quale si fece

convincere agevolmente a fare anche il custode delle armi, con un compenso fisso di circa un milione al mese e con la tacita garanzia che, per ogni necessità economica, la banda avrebbe fatto fronte ai suoi impegni. Fu così che gran parte delle armi furono trasferite dai precedenti depositi presso la Sanità.» (24) Abbatino e Colafigli furono presentati ad Alesse e ispezionarono gli scantinati che avrebbero ospitato la loro «santabarbara». C'era spazio a sufficienza, e si poteva perfino

utilizzare un locale, sempre sotterraneo, per la preparazione degli «strumenti di lavoro», cioè, nelle parole di Abbatino, «l'indispensabile attività di pulitura delle armi reputate necessarie alla specifica operazione per cui dovevano essere usate, previa individuazione delle stesse, di caricamento, di predisposizione dei guanti e di approntamento dei contenitori. Salvo che non si rendesse indispensabile, queste operazioni, come pure quelle di consegna al custode, venivano effettuate di sera, per

non dare nell'occhio. Alesse, di solito preavvertito telefonicamente da Sicilia, si faceva trovare al ministero o al bar dell'Eurcine, di fianco al ministero. Noi non disponevamo delle chiavi di accesso al ministero. La riconsegna poi veniva effettuata quasi sempre da Claudio Sicilia e da Gianfranco Sestili, che si limitavano a lasciare il borsone ad Alesse, il quale provvedeva autonomamente all'occultamento». (25) Insomma si andava, si

prendevano e si preparavano le armi, si sparava, e poi si tornava lasciando tutto nelle mani del custode: del ministero e della banda della Magliana. Alesse aveva l'ordine di far entrare nel deposito solo Sicilia, Abbatino, Colafigli e altri che eventualmente si fossero presentati in loro compagnia. Abbatino arrivò sia con Abbruciati che con Massimo Carminati, il quale poi fu autorizzato a entrare negli scantinati anche da solo, «nell'ottica di uno scambio di favori tra la banda e il suo

gruppo.» Fu probabilmente tramite lui che al ministero della Sanità arrivarono pure armi provenienti dai Nar, come la pistola rubata in un'armeria di Roma da un «commando» neofascista di cui facevano parte anche Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Oltre a quella calibro 38, dagli scantinati di via Liszt 34 saltarono fuori altre diciotto pistole e revolver, un fucile a pompa, una carabina, una machine pistole M12, un mitra Mab 38/42, un fucile mitragliatore Schmeisser M.P.

40, un altro mitragliatore Sten M.K. 2, una bomba a mano tipo ananas, tre giubbotti antiproiettile, un rotolo di miccia a lenta combustione, munizioni e proiettili tra cui quelli marca Jevelot uguali a quelli che avevano ucciso il giornalista Mino Pecorelli, dieci sacchetti di polvere esplosiva, quattro ordigni esplosivi confezionati artigianalmente ma già innescati, alcuni passamontagna e qualche paio di guanti. Guanti da killer, come spiegherà Abbatino, necessari a passare indenni le

eventuali prove con la paraffina: «Ve ne erano di tutti i tipi: in pelle, in lana, in gomma da cucina e da chirurgo. Questi ultimi due tipi, per le loro caratteristiche, oltre a garantire una certa sensibilità, erano i più adatti a impedire che la polvere da sparo esplosa aderisse alla pelle». (26) La mitraglietta M12 trovata al ministero era quella scomparsa nel gennaio del 1981 dal commissariato di Polizia Cristoforo Colombo «in circostanze mai del tutto

chiarite», come specificava il rapporto della Digos. Circostanze che invece erano chiarissime a Claudio Sicilia, il quale una sera aveva visto quell'arma passare dalle mani di un maresciallo del commissariato Colombo, uno di quelli che stavano sul «libro paga» della banda della Magliana, a quelle di «Marcellone» Colafigli, in cambio di cinque milioni in contanti. Dopo l'arresto del novembre '81, Biagio Alesse fece i nomi di Sicilia, Abbatino, Colafigli e

altri, ma quando venne scarcerato fu costretto a fare marcia indietro. Il «vesuviano», uscito anche lui di galera, andò a cercarlo e gli fece firmare una lettera in cui il custode del ministero scagionava tutti i «bravi ragazzi» tranne Marcello Colafigli, che aveva già i suoi guai giudiziari per l'agguato di via Donna Olimpia. All'incontro partecipò anche Alvaro Pompili, il «tramite» tra Alesse e i «bravi ragazzi». «Fu Sicilia», spiegherà proprio Pompili, «a pregarmi di partecipare a quella riunione senza

spiegarmene preventivamente i motivi. In quella riunione effettivamente Sicilia 'fece capire' ad Alesse che avrebbe dovuto ritirare le sue accuse. Non ci furono minacce specifiche, ma mi sembrò che non fossero necessarie per impaurire Alesse.» (27) La bomba alla stazione di Bologna era scoppiata da cinque mesi e dieci giorni, ottantacinque morti aspettavano giustizia. La magistratura aveva imboccato la pista neofascista, quella che porterà fino alle contraddittorie

sentenze di condanna, assoluzione e poi nuovamente condanna di uno strano e improbabile terzetto, miscuglio di manovalanza criminale e terrorismo nero: Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Sergio Picciafuoco. Ma allora, nei primi mesi di indagini, si procedeva ancora per grandi linee: sotto accusa c'erano i «ragazzini» di Terza Posizione un altro gruppo del giovane terrorismo di destra - e «vecchi maestri» dell'eversione neofascista come Aldo Semerari, il criminologo dei

doppi e tripli giochi, Fabio De Felice, Paolo Signorelli e Massimiliano Fachini: verranno tutti prosciolti o assolti nel corso delle istruttorie e dei processi. Semerari era ancora in carcere con l'accusa di strage ma l'Italia stava seguendo col fiato sospeso un'altra vicenda della stagione terroristica, il destino del giudice Giovanni D'Urso ostaggio delle Brigate Rosse - quando, il 13 gennaio 1981, sul treno Taranto-Milano fermo alla stazione di Bologna, fu trovata una valigia piena di

armi, esplosivo e altre tracce. Sulla reticella di uno scompartimento di seconda classe, durante un controllo, alcuni agenti di Polizia notarono quel bagaglio di stoffa marrone con le cerniere bloccate da due piccoli lucchetti, che non apparteneva a nessuno dei viaggiatori. Aperta la valigia comparvero, fra le altre cose, un mitra Mab 38/42 in dotazione alle truppe naziste d'occupazione, modificato e con il numero di matricola abraso; otto barattoli pieni di «esplosivo gelatinoso e

pulvirento, analogo a quello utilizzato nell'agosto precedente per l'attentato alla stazione di Bologna»; giornali francesi e tedeschi; due biglietti aerei intestati a fantomatici cittadini di Francia e Germania; due passamontagna e alcune paia di guanti in gomma trasparente. Il ritrovamento fu dovuto a una segnalazione del Sismi, il Servizio segreto militare guidato dal generale Giuseppe Santovito, che di lì a qualche mese si scoprirà essere iscritto alla Loggia massonica P2 di

Licio Gelli, e confermava la pista internazionale che gli 007 con le stellette accreditavano da tempo. La stessa indicata da Gelli per la strage di Bologna, prima di passare all'idea dell'eccidio casuale provocato da un mozzicone di sigaretta gettato inavvertitamente vicino all'esplosivo. Un'informativa del Sismi successiva di qualche settimana ribadiva l'ipotesi della matrice straniera, collocando l'operazione «terrore sui treni» nell'ambito di un'alleanza tra neofascisti italiani (quelli più giovani però)

e gruppi eversivi francesi e tedeschi. Era un depistaggio, si scoprirà pochi anni dopo, di cui sono stati indicati come responsabili il colonnello Musumeci e il tenente colonnello Belmonte, due ufficiali del Sismi condannati per i reati di porto di esplosivo e di armi da guerra e simulazione di reato, coautori, secondo i giudici di primo grado di una «scellerata macchinazione ordita in ampio ambito» per provocare «l'allarme sociale e

l'intossicazione delle indagini di polizia giudiziaria e della magistratura». (28) Ma ci sono voluti altri anni prima che, seduto davanti al giudice istruttore, Maurizio Abbatino, il «crispino» della Magliana, svelasse anche una parte di questo mistero. Nel dicembre del '92, il boss di un tempo parla dell'arsenale del ministero della Sanità. Lì dentro, spiega al magistrato, c'erano anche due mitra Mab, che facevano parte del «borsone» che Massimo Carminati, Pancrazio Scorza e

Bruno Mariani avevano consegnato ai «bravi ragazzi» in cambio della liberazione di Paolo Aleandri, il giovane «allievo» del professor Semerari sequestrato dalla banda perché aveva fatto sparire un intero stock di pistole e fucili lasciatogli in consegna. Ma quando la polizia scoprì il deposito del ministero, di mitra Mab ce n'era uno solo. «Se lo vedessi», dice Abbatino, «sarei in grado di riconoscere il secondo Mab che consegnai, un paio di mesi dopo la morte di Franco Giuseppucci,

a Massimo Carminati, e che questi non restituì». (29) Carminati poteva farlo: la banda di lui si fidava, e se l'arma era stata «sporcata», cioè utilizzata in qualche omicidio, era normale che non rientrasse al deposito. Ma adesso il problema era un altro: tra le armi trovate nella valigia sul treno TarantoMilano, quella del depistaggio targato Sismi, c'era proprio un mitra Mab 38/42, e il 9 gennaio 1993 viene mostrata ad Abbatino la foto di quell'arma. Il «collaboratore di giustizia» fa

mettere a verbale: «Riconosco con certezza il mitra prelevato da Carminati e mai più restituito, nelle circostanze sopra indicate». Poco prima Abbatino aveva detto: «Preciso che Carminati prese non una ma due volte il mitra Mab che non è stato rinvenuto al ministero della Sanità. Si trattava, tra i due, del mitra meglio modificato. Confermo che Carminati prese per la seconda volta il mitra circa due mesi dopo la morte di Giuseppucci, e colloco la prima in epoca immediatamente

precedente alla morte del Giuseppucci stesso. Ero presente quando il Carminati prese il mitra per la seconda volta e nell'occasione, come d'abitudine, prese due caricatori, uno più lungo e uno più corto. Come accadeva normalmente non chiesi a Carminati la ragione per la quale prelevava l'arma, né gli chiesi mai di restituirla, né perché non l'avesse fatto». (30) Due mesi dopo ad Abbatino viene messo in mano il mitra del depistaggio, «crispino» lo

guarda attentamente e dice che si tratta proprio di quello che stava nella «santabarbara» della Magliana. Il modo in cui il calcio appare modificato, leggermente diverso da quello con cui era stato trasformato l'altro Mab trovato alla Sanità, non lascia spazio a dubbi: sul treno Taranto-Milano c'era il mitra consegnato dal gruppo di Semerari ai «bravi ragazzi», a sua volta proveniente, secondo altri «pentiti» del terrorismo nero, da Massimiliano Fachini, ritirato poi da Carminati e collocato in quella valigia da chi

voleva depistare le indagini sulla strage del 2 agosto 1980. E i magistrati di Bologna hanno potuto scrivere: «Il percorso di questo mitra è dunque ormai chiaro in ogni momento... Emergono con certezza l'inserimento del Carminati nell'area della banda della Magliana e i rapporti collaborativi di questa agenzia del crimine con i nostri Servizi segreti militari, rapporti che peraltro si svolgono nel medesimo periodo di tempo in cui si predispone e si realizza la nota operazione 'terrore sui

treni', all'indomani della cattura del professor Aldo Semerari e di Massimiliano Fachini». (31) Quanto al movente dei depistatori, i magistrati lo attribuiscono alla necessità di bloccare eventuali rivelazioni di Semerari, uomo legato non solo al mondo della malavita e dell'eversione neofascista ma anche ai Servizi segreti, che sarebbe stato sul punto di «crollare». Il criminologo Franco Ferracuti, anche lui iscritto alla P2 di Gelli, amico e collega del «professore nero», andò a trovarlo mentre era

detenuto e piantonato in ospedale, e su quella visita riferì al pubblico ministero di Bologna: «Lo trovai in gravissimo stato di nevrosi fobico-ossessiva... Mi prospettò la possibilità di 'farla finita', ritenni che Semerari volesse, attraverso me, riferire ad altri e cioè ai Servizi, che egli stava per crollare». Un elemento in più per far sostenere ai magistrati che «l'intero depistaggio ordito dal Sismi viene realizzato con la collaborazione dell'avanguardista Carminati in

direzione del salvataggio processuale di Aldo Semerari, uomo chiave dell'eversione nazionale, nel momento in cui questi minacciava di parlare e aveva perfino iniziato a farlo rendendo in carcere delicate dichiarazioni confidenziali ad agenti della Digos di Bologna.» (32) I giornali scrissero diffusamente della valigia trovata sul Taranto-Milano, ed evidentemente Semerari capì il messaggio che passava attraverso quel mitra Mab. Non disse più nulla; poche

settimane dopo il ritrovamento delle armi e dell'esplosivo sul treno, il criminologo fu scarcerato e un anno più tardi ucciso, inghiottito dalle trame della camorra e dei Servizi segreti. Trame che, a causa del mitra in dotazione alle truppe d'occupazione naziste uscito dall'arsenale della banda, hanno finito per coinvolgere anche i «bravi ragazzi» della Magliana. Suo padre, Otello Abbruciati, classe 1909, era stato campione di pugilato, titolo

italiano dei pesi piuma nel 1928, molti successi in America del Sud, poi di nuovo campione in patria nel '38 e nel '40. Anche lui, Danilo, nato il 4 ottobre 1944, giorno di San Francesco d'Assisi, nella Roma appena liberata dagli americani, aveva provato con le palestre e i guantoni. Ma s'era stancato presto, e in poco tempo, intorno ai vent'anni, aveva abbandonato il ring per passare ai bar, alle bische e agli altri ritrovi dei giovani malavitosi del suo quartiere, Primavalle.

La prima gang di cui fece parte fu un manipolo di topi d'appartamento che rubavano nelle abitazioni lussuose delle zone alte della città: la chiamavano la «banda dei camaleonti», e per Danilo, destinato a oltrepassare in fretta i confini del quartiere d'origine per spingersi verso altri traguardi criminali, significò ritrovarsi addosso il nomignolo di «camaleonte». Presto arrivò il carcere, e poi la conoscenza coi pezzi grossi della delinquenza romana, quelli della «dolce malavita»

che prosperava intorno ai locali di via Veneto, dominata dai Marsigliesi. Erano i tempi delle spider, dei pantaloni a zampa d'elefante e degli stivaletti col tacco; Danilo Abbruciati, grosso e corpulento, girava con un bel paio di baffi e moto di grossa cilindrata. Alla vigilia del Capodanno 1973 «il camaleonte» restò impigliato in un omicidio che accese i riflettori proprio sulla «mala» che sfiorava l'alta società: la morte violenta di Carlo Faiella, playboy e un tempo "lift" di grande albergo,

trovato morto dentro una Citroën D.S. vicino allo stadio Flaminio, ammazzato da alcuni colpi di pistola la sera del 29 dicembre '72. L'auto però era intestata a un certo Ernesto Diotallevi, conosciuto anche lui nel settore dei furti e in quello delle bische clandestine, e la mattina successiva qualche giornale scrisse che l'allora ventottenne Diotallevi era morto «in circostanze ancora misteriose». Ma Diotallevi era vivo e vegeto, e si presentò al commissariato per farlo

presente. Spiegò che aveva prestato la sua Citroën all'amico Carlo Faiella, uno che la polizia sapeva essere legato ai Marsigliesi attraverso Giuseppe Rossi, chiamato anche Jo «le maire», cioè il sindaco, finito in carcere per l'omicidio di un suo ex braccio destro avvenuto due anni prima, un fatto che aveva portato prima in galera e poi al soggiorno obbligato pure Faiella. La sera del 29 dicembre 73, Faiella s'era incontrato in un bar dei Parioli con Diotallevi e

con un'altra persona, descritta semplicemente come «un uomo coi baffi». Era Danilo Abbruciati, che accompagnato dall'avvocato si presentò agli investigatori il 15 gennaio, confermò la storia dell'incontro ma dell'omicidio disse di non sapere proprio nulla. Un mese più tardi il giudice provò a strappargli qualcosa in più con l'arresto, ma «il camaleonte» non scucì una parola e venne rilasciato poco dopo. La moglie Claudia, nel '71, l'aveva denunciato per lesioni, maltrattamenti e sequestro di

persona. Col passare degli anni, per Abbruciati continuarono ad accumularsi accuse, segnalazioni e arresti. E cambiarono i nomi dei coimputati: dagli esponenti del «clan delle 3 B» - Berenguer, Bergamelli e Bellicini - si passò a Giovanni Tigani, «Paperino»; Amleto Fabriani, «er vòto»; Bruno Nieddu, Paolo Frau, Danilo Sbarra e poi ancora altri nomi della nuova criminalità della capitale. Mutarono anche le accuse; dopo le rapine e i sequestri di persona, cominciò a comparire il traffico di droga.

Il pugile fallito, che fino a quel momento la «sniffava» soltanto, prese a commerciare la polvere bianca; ormai era diventato un «duro» rispettato e temuto, pieno di soldi e di agganci. A Milano Danilo entrò in contatto e in affari con Francis Turatello, e a Roma - usciti di scena i Marsigliesi e i vecchi boss come Ettore Tabarrani, rimasti in sospeso conti antichi come quello con Bebo Belardinelli arrivò a incontrare quelli della Magliana, banditi più giovani e

con minor esperienza della sua, avvicinati attraverso la «corrente» dei «testaccini». Al suo fianco, da qualche tempo, c'era Fabiola Moretti che racconterà: «Riallacciati i rapporti con Franco Giuseppucci, nel 1979, fu questi a prospettare a Danilo l'opportunità di dedicarsi al traffico dell'eroina, accanto a quello della cocaina che già ci veniva fornita, mentre Danilo era detenuto, da Manuel Fuentes Cancino. Danilo, inizialmente contrario, si convinse ben presto della bontà

dell'affare, e giustificava spesso questo suo mutato atteggiamento dicendo che non era il caso che con l'eroina si arricchissero soltanto gli 'infami'. A seguito dei nuovi rapporti con Giuseppucci, Danilo Abbruciati prese a frequentare con assiduità il Testaccio, anche perché nel frattempo era stato scarcerato Enrico De Pedis... Il Testaccio peraltro era un punto d'incontro tra vari personaggi della malavita romana, Danilo lo chiamava il suo 'ufficio'». (33)

All'interno della sua nuova banda, comunque, Danilo Abbruciati manteneva sempre un atteggiamento un po' distaccato. «Lui», ha spiegato Abbatino, «non aveva legami con alcun gruppo in particolare: economicamente non aveva problemi di nessun genere, per cui si dedicava, di tanto in tanto, a qualche colpo, magari limitandosi a fornire delle 'dritte'. Una volta che della nostra associazione erano entrati a far parte, grazie a Franco Giuseppucci, i vari De Pedis, Maragnoli e Pernasetti,

venne da costoro cooptato nel gruppo. A causa dei suoi contatti malavitosi, avvalendosi anche delle numerose e importanti conoscenze acquisite in carcere, sia tra i comuni, sia tra i mafiosi, sia tra i 'politici' (non disdegnava di tenere rapporti con estremisti di destra) Danilo, una volta entrato a far parte della banda, strumentalizzò la stessa ai suoi personali interessi, di fatto impedendo l'incondizionata integrazione nel sodalizio dei 'testaccini'.» Il «bandito solitario»

insomma, a sentire Abbatino, pur stringendo alleanze, voleva rimanere tale: «Abbruciati teneva sostanzialmente per sé le proprie conoscenze, e faceva partecipi delle attività finanziarie attraverso le quali riciclava il denaro provento del traffico degli stupefacenti, non già l'intera banda, ma soltanto i 'testaccini', i quali, ben presto, acquisirono un consistente patrimonio mobiliare, societario e immobiliare, che si andava a cumulare ai proventi dell'attività di 'strozzinaggio' da essi sempre praticata. Danilo

infatti aveva un campo di interessi assai diversificati, dall'edilizia al commercio di auto, alla finanza, rispetto ai quali i traffici criminali rappresentavano la principale, se non unica, fonte di finanziamento.» (33) Abbruciati divenne in breve tempo uno degli anelli di collegamento con Cosa Nostra, la criminalità dei «colletti bianchi», i terroristi neri. Frequentava i mafiosi, andava a Palermo per incontrare Stefano Bontate, secondo Claudio Sicilia era diventato

addirittura «uomo d'onore» a tutti gli effetti, un sospetto che anni dopo sarà confermato dal boss pentito Salvatore Cancemi: «Calò non mi disse mai che aveva 'combinato' Danilo Abbruciati, ma io, per come egli ne parlava, capii che Abbruciati era un uomo d'onore di Pippo Calò». (36) I suoi investimenti immobiliari testimoniano dei contatti con costruttori e finanzieri, Domenico Balducci è solo un esempio tra tanti; i giovani neofascisti, soprattutto dopo la morte di Giuseppucci, ne

avevano fatto un punto di riferimento e lo frequentavano appena potevano, abbacinati dalla sua autorevolezza e dalle sue moto. La Digos e l'allora sostituto procuratore di Firenze Pier Luigi Vigna si interessarono a lui nelle indagini per l'omicidio del giudice Vittorio Occorsio, ammazzato a Roma, nel 1976, dal gruppo di Ordine Nuovo, anche se poi l'inchiesta non portò a nulla sul suo conto. Una sera del luglio 1980, a Trastevere, Danilo arrivò a

mettere fine alla lite tra due ragazze, due «terminali» del traffico di droga. Una si chiamava Anna, l'altra Franca, ma data la mole la chiamavano «Francona», ed era amica di Fabiola Moretti, la donna di Abbruciati. Anna e «Francona» s'erano accapigliate dopo un'accesa discussione, arrivò Fabiola a dare man forte all'amica, e poco dopo sopraggiunse Danilo, che intervenne a modo suo: un pugno violento stese Anna a terra, e la questione era chiusa. Ma solo per poco.

Un'ora più tardi Abbruciati era ancora da quelle parti, vicino all'arco di San Callisto, in macchina con un amico. All'improvviso arrivò un motorino con due persone a bordo, uno scese e si avvicinò all'auto di Abbruciati. Era Carlo, il marito di Anna. Danilo si accorse subito del pericolo, impugnò la pistola e sparò un paio di colpi contro quell'uomo, accese il motore della Panda e partì a razzo. Carlo sparò anche lui, ma riuscì solo a mandare in frantumi il lunotto posteriore dell'auto.

La Polizia provò a indagare, e interrogò pure Abbruciati. «Circa i miei spostamenti o contatti con le persone durante quel giorno», rispose lui in Questura, «non ricordo assolutamente nulla... Ufficialmente sono disoccupato e per vivere, siccome ho del denaro mio, solitamente effettuo prestiti a conoscenti o commercianti di mia fiducia i quali, a terminate esigenze, mi ricompensano. In questi ultimi giorni, stante il fatto che ho mia madre ammalata di un male incurabile, mi sto

interessando per farle ottenere tutte le cure necessarie.» Con toni che tentavano di essere rassicuranti e gentili, dunque, Abbruciati confessò di essere uno «strozzino». Ma di quella lite a Trastevere, e poi della sparatoria, negò tutto, secondo le regole del vero malavitoso che davanti agli «sbirri» non ammette nulla: nemmeno l'attentato subito, nemmeno la relazione con Fabiola, ridotta a uno scambio di corpi. «Conosco Fabiola Moretti», si limitò a dire, «con la quale ci incontriamo qualche

volta per questioni fisiologiche. Io non ho legami di sorta con donne in quanto le avvicino solo per necessità fisiche, stante che ho una famiglia e una figlia naturale da me riconosciuta e con me convivente.» Poi si chiuse: «Non sono a conoscenza di una lite tra donne alla quale ha partecipato anche Fabiola, ma posso dire che la stessa, per il suo carattere, non è nuova a imprese del genere... Ho letto sul giornale di una sparatoria a Trastevere, ma non ricordo il giorno. Comunque io non mi

sono interessato minimamente al fatto perché non mi riguarda. Secondo quanto mi dite la mia autovettura Panda è rimasta coinvolta nella detta sparatoria, ma posso assicurare che tutto ciò non è vero». Abbruciati venne congedato dagli agenti, ma la sera fu nuovamente convocato per vedere se s'era «ammorbidito». Niente. Alle ventuno di quel 23 luglio 1980, «negli uffici della Squadra Mobile, avanti a noi sottoscritti ufficiali di Polizia giudiziaria appartenenti al suddetto ufficio», il «nominato

in oggetto Abbruciati Danilo» non faceva altro che ripetere: «In merito ai fatti di cui voi mi parlate io non ho assolutamente nulla da dire». Lo arrestarono con l'accusa di favoreggiamento, Danilo non fece una piega, nominò l'avvocato e varcò un'altra volta la soglia di Regina Coeli. Quella volta però, in carcere, successe qualcosa di nuovo, rivelato quattordici anni dopo da Fabiola Moretti al giudice istruttore. «Io provvedevo», ha raccontato la donna, «attraverso gli agenti di

custodia che incontravo al cinodromo di viale Marconi, a far pervenire a Danilo la cocaina che egli consumava in carcere. Una volta la sostanza che doveva servire per Abbruciati mi fu portata, a San Callisto, da Franco Giuseppucci, il quale, prima che io consegnassi la droga ai soliti agenti di custodia, mi disse che non era più necessario che gliela facessi avere in quel modo, in quanto era stato attivato un altro canale di rifornimento. La sera stessa che Danilo venne dimesso dal

carcere: egli, evidentemente euforico, mi disse che con lui avevano preso contatti uomini dei Servizi segreti, i quali erano entrati in carcere, gli avevano fornito la cocaina, avevano 'pippato' insieme a lui e avevano allacciato delle relazioni. Non so a che cosa fossero finalizzate, ma Danilo era troppo soddisfatto di quell'incontro in carcere di notte, dove aveva ricevuto offerte di protezione e di 'lavoro' particolarmente soddisfacenti per lui. «So per certo che, almeno

inizialmente, Danilo ebbe dei vantaggi da queste nuove relazioni: riottenne la patente e il passaporto, gli fornirono denaro e autovetture, e attribuiva a 'quelli' il merito di essere uscito così presto dal carcere... Successivamente, talvolta, Danilo si lamentava che non fossero state da loro mantenute certe promesse. Debbo aggiungere che anche io ho incontrato, sia a Roma che a Milano, persone che Danilo mi diceva essere uomini dei Servizi». Per Antonio Mancini,

Abbruciati era legato anche alla massoneria «deviata»: «So per certo», dirà a un magistrato, «che aveva rapporti con esponenti della massoneria, che ancora non era conosciuta come P2 ma che aveva come punto di riferimento Licio Gelli». Lunedì 26 aprile 1982, al palazzo di giustizia di Milano, c'erano parecchi giornalisti ad attendere Roberto Calvi. Il presidente del Banco Ambrosiano, accusato di truffa insieme a Michele Sindona, era

stato convocato dai giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone. Ma Calvi aveva ricusato quei due magistrati accampando l'«inimicizia personale», e non si presentò nel loro ufficio. Nel frattempo, nonostante gli scandali che lo stavano travolgendo, il «banchiere di Dio» aveva ricevuto lusinghiere dichiarazioni di stima da monsignor Paul Marcinkus, presidente dello Ior, la banca vaticana. «Calvi è meritevole della nostra fiducia», aveva detto il monsignore, «non ho

nessuna ragione di dubitarne.» Quello stesso lunedì, mentre a Roma moriva il boss mafioso Frank Coppola, «tre dita», a Milano c'era pure Danilo Abbruciati, che adesso aveva una folta barba a incorniciargli il viso sempre un po' corrucciato. La mattina dopo, il 27 aprile, poco prima delle otto, l'ex «camaleonte» camminava avanti e indietro davanti all'agenzia 18 del Banco Ambrosiano, in via Odescalchi. Ma non era interessato, come sarebbe accaduto un tempo, alla banca,

bensì al portone di un palazzo in una strada lì accanto, via Oldofredi numero 2. Danilo e il suo amico rimasto a bordo di una moto controllavano e aspettavano, cercando di non dare nell'occhio; davanti allo stesso portone c'erano la portiera, una guardia giurata e, dentro un'Affetta blindata, un autista. Poco dopo comparve Roberto Rosone, vicepresidente del Banco Ambrosiano, considerato uomo di fiducia del «capo» Roberto Calvi. Aveva cinquantaquattro anni, e da

trentacinque lavorava in banca: un gradino dopo l'altro, da impiegato allo sportello era diventato vicepresidente dell'Ambrosiano. Sul portone Rosone si fermò a fare due chiacchiere con la portiera, poi s'avviò verso la macchina. Ma prima che salisse sull'auto di servizio, un uomo col cappotto beige e una sciarpa gli si parò davanti: era Abbruciati, che estrasse la pistola e sparò il primo colpo. Si sentì soltanto un «click», l'arma s'era inceppata; Danilo riprovò e colpì Rosone alle gambe.

Adesso il banchiere era a terra, davanti a lui, ma anziché sparare il colpo di grazia Abbruciati corse in mezzo alla strada, dove l'aspettava l'amico sulla moto. Verso di lui s'erano lanciati l'autista di Rosone e la guardia giurata Gianni Franco, Abbruciati sparò ancora colpendo l'autista, poi salì sulla moto del complice. Fatti pochi metri, però, fu tirato giù dai proiettili di una 357 Magnum; stavolta era stata la guardia a sparare e a colpire l'attentatore, lasciandolo

sull'asfalto. La moto ormai se n'era andata, a terra c'erano Rosone e il suo autista, feriti, e Danilo Abbruciati, morto, la faccia girata verso destra, braccia ripiegate sopra la testa e piedi incrociati, uno stivaletto slacciato e quasi sfilato. Nelle sue tasche, tra le altre cose, fu trovata una scatola di fiammiferi con un numero scritto a penna: era il telefono di Ernesto Diotallevi che doveva servire, sosterranno investigatori e magistrati durante le inchieste, per avvertire il boss romano che

tutto era stato compiuto. Per l'attentato a Rosone, Ernesto Diotallevi e Flavio Carboni sono stati condannati, nel processo di primo grado, come mandanti. In attesa dell'appello, la stessa accusa pende sulla testa di Pippo Calò. Ma i motivi di quell'agguato, e del perché un malavitoso del calibro di Abbruciati fu spedito a Milano, molti se li chiedono ancora, come se li chiesero allora gli amici di Danilo. Abbatino andò da «Renatino» e «Palletta», De Pedis e Pernasetti, i «bravi ragazzi»

più vicini ad Abbruciati: «Mi riferirono di aver a loro volta saputo da Ernesto Diotallevi che, per suo tramite, Danilo aveva ricevuto cinquanta milioni di lire per eseguire l'attentato. Non mi fornirono ulteriori particolari, dicendo che Abbruciati aveva agito anche a loro insaputa. La spiegazione, ricordo, mi lasciò alquanto perplesso atteso che, sebbene l'Abbruciati fosse non poco avido, tuttavia era strano che avesse agito solo come killer, senza avere anche propri interessi nell'attentato, tanto

più che secondo le regole avrebbe dovuto comunque dividere con i due i cinquanta milioni che ne costituivano, a loro dire, il prezzo». (38) Nonostante i processi celebrati e la morte di Calvi avvenuta a Londra due mesi dopo, sopravvivono ancora due ipotesi alternative tra loro: secondo la prima, l'attentato a Rosone fu commissionato da Roberto Calvi perché «ostacolato nei suoi progetti di autofinanziamento proprio da Roberto Rosone»; la seconda, invece, vuole che i colpi di

pistola sparati da Abbruciati a Rosone fossero diretti «a intimidire sia lui che Calvi, e ascrivibili a chi era interessato a controllare un gruppo del valore di ventimila miliardi di lire.» Comunque fosse andata, a quelli della banda della Magliana non interessava più di tanto. Per loro contava solo l'ennesimo «strappo» di Danilo, che stavolta gli era costato la vita. Per il nucleo originario della banda, guidato da Maurizio Abbatino, la morte di Abbruciati segnò la fine di

un'altra alleanza dopo quella rotta, poco più di un anno prima, con Nicolino Selis: «Considerammo non più affidabili i 'testaccini', in quanto propensi a strumentalizzare per fini personali l'intera organizzazione, senza neppure rendere conto di iniziative che mettevano in pericolo la nostra attività. Conseguentemente adottammo la decisione di eliminarli quando se ne fosse data l'opportunità». ***

9. LA STRAGE.

Fino a quella sera d'inverno, a Roma, non era mai successo che dei banditi «locali» uccidessero per una rapina. Per questo la morte violenta di Silvano e Gabriele Menegazzo, freddati sotto casa la sera del 17 gennaio 1967 da un gruppo di rapinatori che volevano impossessarsi di due valigette piene di gioielli, suscitò tanto

scalpore. Perché tanta ferocia non era ancora diventata un'abitudine, e il giorno dopo i quotidiani invocavano «una Polizia più efficiente e una giustizia più severa»; perché le vittime erano giovani, ventitré e diciannove anni, e avrebbero avuto presto mogli, bambini e utilitarie; perché i due fratelli morirono sotto gli occhi dei genitori e di tanti altri vicini affacciati alle finestre; perché accanto ai cadaveri gli assassini lasciarono un paio di occhiali da miope che permisero in breve

tempo di identificare uno dei banditi, e scatenare una caccia all'uomo seguita da tutto il Paese che si sarebbe conclusa solo cinquanta giorni più tardi. Secondo gli organizzatori del «colpo», più che una rapina doveva essere uno scippo. Pio Menegazzo faceva il gioielliere, e ogni sera rientrava nella sua casa al Nomentano, accompagnato da uno dei due figli, portando con sé le valigette col campionario dei gioielli. Bisognava appostarsi in via Gatteschi, dove abitava, aspettare che arrivasse,

strappargli di mano le borse coi preziosi e scappare via. Un gioco da ragazzi, quali erano i giovani del Tufello che avevano pensato a tutto. Tranne al fatto che il loro capo, Leonardo Cimino detto «lo smilzo», avrebbe portato con sé la pistola. Quel 17 gennaio pioveva, e andò tutto storto. Anziché padre e figlio, in via Gatteschi arrivarono Silvano e Gabriele Menegazzo, i due ragazzi. I banditi erano lì, nascosti nel buio, uno a bordo della Giulia col motore acceso, pronto a

raccogliere i complici. Decisero di agire ugualmente, ma accadde l'imprevisto: i due giovani, a differenza di quanto forse avrebbe fatto il padre, reagirono e non si lasciarono strappare di mano le valigette coi preziosi e i soldi in contanti. Ci fu una colluttazione, uno dei banditi perse gli occhiali, un altro, Cimino, pensò bene di farla finita tirando fuori la pistola e lasciando per terra i cadaveri dei due fratelli. Poi prese le valigette quarantaquattro milioni di lire fu valutato il bottino ottenuto

per due vite stroncate - e scappò con gli altri. Partendo da quelle lenti trovate sull'asfalto bagnato, dopo quasi due mesi, la Polizia arrivò a circondare una casa al quartiere Monte Mario: dentro c'erano Cimino e due suoi complici, Franco Torreggiani «il miope», quello che aveva perso gli occhiali - e Mario Loria, ventisette anni, «il vivandiere» della banda. Cimino tentò di farla franca alla maniera di Butch Cassidy, uscendo e sparando: fu ferito al collo, rimase paralizzato e morì

nove mesi più tardi in ospedale; Torreggiani e Loria si arresero; il quarto bandito, Francesco Mangiavillano, venne arrestato successivamente in Grecia. Dopo la cattura arrivarono i processi, e finalmente, nel 1975, la Corte di Cassazione stabilì le condanne definitive per la rapina di via Gatteschi: ergastolo per Mangiavillano, ventisei anni per Torreggiani «il miope», dodici per Loria «il vivandiere». Il primo a uscire di galera in semilibertà, alla fine del 1982, fu proprio Loria, un

«bullo» di quartiere, piccolo e con gli occhi scavati, che nelle aule giudiziarie si presentava in giacca e cravatta. Lasciata la cella, a quarantadue anni compiuti, trovò lavoro da un fioraio, ma nel frattempo riprese a frequentare gli amici di sempre, malavitosi che dalle rapine degli anni Sessanta erano passati alla droga degli Ottanta. Guadagnavano tanti soldi, e così anche Loria decise di infilarsi nel commercio dell'eroina. Prese a frequentare con assiduità le zone di Acilia e

Ostia, spacciava droga e intascava denaro, sempre di più, una cosa che mai gli era capitata prima. In breve tempo cominciò a spendere destando sorpresa e sospetti: comprò un anello di brillanti, un'auto nuova - una Simca 1100 - e una moto giapponese fiammante, una Suzuki 750. In altrettanto breve tempo, però, finì rinchiuso nel bagagliaio di una macchina, a faccia in giù, le gambe piegate all'indietro e un foro nella testa provocato da un proiettile sparato a bruciapelo, coperto malamente

da un tappeto gettato sopra il cadavere. A trovare il corpo di Mario Loria era stato un passante, che il 18 settembre 1983 in una strada di Vitinia, un paese tra Roma e Ostia, verso le cinque e mezza del pomeriggio aveva visto quella A 112 con delle macchie rossastre sulla fiancata sinistra e sul paraurti posteriore; su una ruota, poi, continuava a scorrere un rivolo che arrivava fino a terra, e che sembrava proprio sangue. Il passante chiamò il barista, il quale avvisò i carabinieri.

Che l'ex «vivandiere» della banda Cimino s'era riciclato nel traffico di droga, i carabinieri lo sapevano già; indagando sulla sua morte, da fonti confidenziali, vennero a sapere anche perché era stato ammazzato: Loria era entrato in un giro di spacciatori che serviva i quartieri di Acilia e Ostia, secondo i confidenti Mario non aveva versato ai suoi fornitori i guadagni di una partita di droga, e aveva pagato lo «sgarro» con la vita. Le zone dove «lavorava» il morto erano naturalmente

sotto il rigido controllo della banda della Magliana, e quando decise di dire tutto ai giudici, Claudio Sicilia raccontò anche l'omicidio di Mario Loria. Spiegò di aver saputo che l'ex bandito vendeva «roba» sulla piazza di Ostia «a prezzi molto concorrenziali», e che per questo infastidiva quelli della banda. Tramite due fratelli che lo conoscevano, Loria fu preso in trappola a un appuntamento, trasportato nella villa di Vittorio Carnovale e ucciso a colpi di pistola. Secondo Sicilia, insieme al «coniglio» c'era pure

Gianni Girlando, il «roscio». (1) Avevano eliminato un concorrente e scritto un nuovo capitolo di storia della malavita romana; ma il protagonista, Mario Loria, aveva già avuto il suo spazio nel «romanzo nero» della capitale, con la rapina di via Gatteschi, quando l'Italia intera ebbe un fremito d'orrore. Anche Angelo De Angelis, «er catena», aveva concluso la sua carriera di spacciatore di droga nel bagagliaio di un'auto, la sua Fiat Panda trovata semicarbonizzata vicino al

ristorante Il fico vecchio, dalle parti di Grottaferrata. Era il 24 febbraio 1983, e De Angelis risultava scomparso da due settimane. Da quel che restava di lui, i medici stabilirono che era stato ucciso da due colpi di pistola, calibro 7.65 e 38, sparati al cuore e alla nuca. «Er catena» era stato preso alle dipendenze della banda della Magliana con la funzione di tenere i contatti col fornitore di cocaina Manuel Fuentes Cancino, il cileno. Sapeva di fare un lavoro che comportava dei rischi, e girava sempre

armato, la pistola nascosta in una fondina sistemata alla caviglia, e una volta in macchina, mentre guidava, partì un colpo che lo ferì a un piede. Ma quell'incidente non fu nulla in confronto a quanto gli sarebbe accaduto quando fosse inciampato nei controlli dei suoi datori di lavoro. Si accorsero che De Angelis prendeva la «roba» dal cileno e la «tagliava» trattenendone una parte per sé, dato che era diventato cocainomane. Il peso della polvere alla fine era lo stesso, ma la quantità molto

più bassa. «A fronte di questo comportamento, da cui derivava un danno a tutta l'organizzazione, si decise di sopprimere De Angelis, in quanto non affidabile», ha spiegato Maurizio Abbatino al giudice. «Crispino» era molto legato al «catena», e fino all'ultimo si diede da fare per salvarlo: «Ero amico di De Angelis, la sua famiglia usciva con la mia, e cercai di rinviare l'esecuzione. Tentai di fargli capire che avevamo notato l'alterazione della cocaina dicendogli che da

qualche tempo il Fuentes Cancino non si comportava bene, in modo che la smettesse di appropriarsene. Ero convinto che questo sarebbe bastato per evitare che venisse ucciso, ma Angelo non capì, e la sua eliminazione non poté essere evitata». L'amicizia non impedì ad Abbatino di partecipare all'omicidio, consumato nel 1983 e confessato dieci anni dopo. Di solito De Angelis si incontrava con gli altri della banda di sera, al bar di via

Chiabrera o in casa di qualcuno. Il 10 febbraio, intorno all'ora di cena, bussò a casa di Edoardo Toscano, ma la moglie dell'«operaietto» gli disse che erano tutti a casa di Vittorio Carnovale, e che lo stavano aspettando: così le aveva ordinato di fare il marito. De Angelis non sospettò nulla, e andò alla villa del «coniglio», dove, oltre al padrone di casa, c'erano pure Toscano e Abbatino. Carnovale gli aprì il cancello, facendogli parcheggiare l'auto davanti alla porta di casa. Abbatino s'era

nascosto dietro l'uscio, e appena «er catena» entrò tirò il grilletto della sua 7.65, ma il colpo non partì. Angelo sentì il «clic» e si voltò di scatto, il suo amico «crispino» gli sorrise: «Ti ho fatto paura, eh?» In quel momento nella stanza comparve Toscano, e prima che Angelo riuscisse a dire qualcosa venne fulminato da un proiettile calibro 38. Quando «er catena» era già stramazzato, gli spararono un altro colpo con la pistola di Abbatino. Il cadavere fu caricato nella stessa Panda con

cui De Angelis s'era presentato ai suoi assassini, che venne nascosta dalle parti di Ciampino. «Qualche giorno dopo questi fatti», continua il racconto di Abbatino, «Manuel Fuentes Cancino, che vantava dei crediti nei confronti di De Angelis per pregresse forniture di eroina, venne da me e dal Toscano per chiedere se fosse vero che Angelo era stato ucciso. Disse di averlo saputo da una persona legata a Gianfranco Urbani, 'er pantera'. Non ricordo di aver dato

spiegazioni al Fuentes, ma ci preoccupammo di chiarire col 'pantera' come non fosse il caso che continuasse a parlare. Lo incaricammo di far sparire l'auto col cadavere, coinvolgendolo in modo tale che non potessero più costruire un pericolo per noi le persone a cui lui aveva riferito dell'omicidio... Si procurò un carro attrezzi, facendo rimuovere la macchina. Non ricordo per quale precisa ragione l'abbia poi incendiata.» (3) Morì come uno spacciatore

qualunque macchiatosi di qualche «sgarro», Angelo De Angelis. Ma circolava da qualche tempo negli ambienti della malavita, e faceva anche strani discorsi, dicendo che era massone e che per questo godeva di molte protezioni. Se lo ricordò Antonio Mancini, quando cominciò a pensare agli ambigui personaggi che circolavano intorno alla «Magliana» e che forse avevano interessi diversi dai banditi come lui, venuti su dalle «batterie» di quartiere. «Per chiarire il mio sospetto

di essere stato strumentalizzato e di essere strumentalizzata l'intera banda da organismi estranei alla stessa», rivelerà al magistrato l'«accattone», «parlando di specifici episodi, posso dire che sin dal 1976 Angelo De Angelis mi parlava di massoneria, argomento a me del tutto estraneo. De Angelis mi diceva di far parte di un gruppo massonico a Roma, gruppo per il quale agiva e riceveva protezione a livello poliziesco e processuale. Quando lo raccontava, fermo il fatto che

Angioletto fece assai poco carcere, io gli credevo in quanto era persona di un'ingenuità tale da essere incapace di elaborare un discorso di quel tipo se non fosse stato vero.» (4) Da tempo, ormai, il gruppo di banditi originario della Magliana che morto Giuseppucci s'era aggregato intorno ad Abbatino e Colafigli, ai quali s'erano aggiunti Toscano e Mancini - aveva deciso di arrivare alla resa dei conti coi «testaccini», i quali

avevano perso Abbruciati sull'asfalto di Milano e ora erano guidati da «Renatino» De Pedis. I contrasti risalivano alla fine del 1981, quando fu ammazzato Domenico Balducci senza che Abbatino e gli altri ne sapessero niente, ed erano diventati insanabili dopo la «missione» di Abbruciati a Milano per l'attentato al banchiere Roberto Rosone. «I testaccini», ha spiegato ai giudici Vittorio Carnovale, che veniva dal gruppo di AciliaOstia ma si era legato ai «maglianesi», «intrattenevano

rapporti con altre organizzazioni criminose dei quali tenevano all'oscuro l'altra parte della banda. Non solo; non sempre dividevano i proventi delle attività delinquenziali in modo equo, tale da garantire la piena assistenza ai detenuti.» (5) Colafigli e Mancini, ad esempio, erano in carcere da più di un anno per l'agguato di via Donna Olimpia ai fratelli Proietti, un'azione che rientrava in quel piano di vendetta contro gli assassini di Giuseppucci che aveva

cementato l'unione tra le due anime della banda. Ebbene, secondo i loro amici i «testaccini» non rispettavano l'obbligo di aiutare i due compagni. Ma i propositi di vendetta del gruppo di Abbatino contro De Pedis e gli altri non ostacolavano gli affari in comune, soprattutto nel traffico di droga. «Il fatto che noi avessimo deciso di eliminarli», confesserà «crispino», «non ci impediva di continuare con loro il traffico degli stupefacenti, come se niente fosse.»

Mentre i due gruppi si studiavano a vicenda, aspettando il momento opportuno per risolvere i contrasti a colpi di pistola, sulla banda si abbatté l'ondata di arresti dovuta alle prime confessioni di Fulvio Lucioli, arrestato e deciso a collaborare coi giudici per rifarsi una vita. Quasi tutti i leader finirono in carcere, e si arrivò a un processo che si concluse nel 1986. Nelle gabbie, durante le udienze, gli imputati avevano modo di parlarsi e scontrarsi. Discorsi spesso tesi, a

testimonianza che la rottura era ormai senza ritorno. A «Renatino» De Pedis, proprio durante il processo, Mancini e Toscano rimproverarono di aver preso un avvocato di piccolo calibro, lui che con tutti i soldi che aveva poteva scegliere i migliori. Ma quello rispose che il processo «l'aveva già fatto fuori», «in corridoio», e che l'avvocato in aula non gli serviva; intendeva dire che la sua posizione era già al sicuro, sistemata attraverso la corruzione, e questo convinse

una volta di più i «maglianesi» che dei «testaccini» non ci si poteva fidare. «I processi li fate in corridoio solo per voi, non per tutti», rinfacciò Edoardo a «Renatino». E quando De Pedis, sempre durante il processo, propose un piano di evasione fin troppo facile a Toscano e Mancini una fuga durante il trasferimento dall'aula d'udienza al carcere l'«operaietto» e l'«accattone» rifiutarono. Come loro volevano ammazzare gli altri, così erano certi che gli altri volessero

ammazzare loro, e dietro quella proposta poteva nascondersi una trappola. L'insistenza di «Renatino» aveva convinto Toscano che una volta fuori l'avrebbero eliminato immediatamente, mentre Mancini stava aspettando la concessione di qualche beneficio di legge, e non se la sentì di mandare tutto all'aria con un tentativo di evasione che se fosse andato male gli si poteva ritorcere contro. Chi decise di approfittarne, invece, fu Vittorio Carnovale, che si ritrovò libero quasi senza

accorgersene. Per lui il pubblico ministero aveva appena chiesto il carcere a vita: «Il rischio, comunque minimo, di essere ammazzato veniva ampiamente bilanciato dalla possibilità di riacquistare la libertà prima della condanna all'ergastolo che mi appariva ineludibile.» (7) De Pedis aveva spiegato il piano: a chi doveva evadere non sarebbero stati messi, alla fine dell'udienza, gli schiavettoni, ma le semplici manette, in modo da non essere legato con le catene agli altri detenuti; per evadere

bisognava solo nascondersi nel sottoscala, far passare tutti gli altri, e poi risalire in aula, dove qualcun altro avrebbe pensato al resto. Andò tutto come previsto, cioè come ha raccontato, sette anni più tardi, proprio Vittorio Carnovale: «Alla fine dell'udienza, intorno alle diciassette, io venni ammanettato come d'accordo: ricordo che le manette mi vennero 'appoggiate', erano cioè state lasciate talmente larghe che avrei potuto sfilarmele da solo. Scesi le

scale che dall'aula Occorsio conducono ai sotterranei e scivolai nel sottoscala, mentre gli altri detenuti e la scorta dei carabinieri si avviavano lungo il corridoio. Attesi brevemente che il convoglio si allontanasse e risalii le scale rientrando nell'aula, dove due persone mi attendevano; si trattava di un uomo sui trentacinque anni, un poco più basso di me, moro, di bell'aspetto, atletico, vestito sportivamente, e di una donna piuttosto bassa, rossa di capelli e alquanto bruttina. I due avevano sia le chiavi delle

manette che quelle dei cancelli. Mi tolsero le manette, mi affiancarono e così uscimmo in maniera disinvolta dal tribunale, sotto gli occhi di alcuni poliziotti in borghese i quali ci guardarono con un certo sospetto. Fuori dal tribunale ci attendeva una vettura, se mal non ricordo una Renault 5, condotta da un altro uomo, più anziano degli altri due, calvo». Fuori dal tribunale, però, non aspettavano il «coniglio», ma Edoardo Toscano: «Renatino» non aveva fatto in

tempo ad avvisare del rifiuto dell'«operaietto». «Salito in auto», ha continuato l'evaso, «quando mi chiesero 'Come va, Edoardo?' dissi subito, a scanso di equivoci, di essere Vittorio Carnovale. I tre, appreso che non ero Toscano, cambiarono atteggiamento nei miei confronti, chiedendomi nervosamente dove dovessero scaricarmi: sembravano avessero fretta di sbarazzarsi della mia presenza.» (8) In molti attribuirono quella fuga indisturbata a un intervento dei Servizi segreti,

compresi i «bravi ragazzi». «Parlando tra noi», ammetterà proprio Carnovale, «io, Edoardo e Antonio Mancini avevamo preso in considerazione l'ipotesi che l'evasione potesse essere stata organizzata da qualche Servizio.» (9) Finito in carcere dopo che i poliziotti avevano pedinato la sua giovane amante, Maurizio Abbatino scoprì di non essere più un capo. O meglio, che chi un giorno lo considerava uno dei capi non si fidava più di lui. E che quindi lui non si poteva

più fidare. A Rebibbia c'era pure «Marcellone» Colafigli; con «crispino» aveva il divieto di incontro, ma riuscì a mandargli una lettera attraverso lo «spesino», il detenuto che distribuisce la spesa nelle varie celle. Usava un tono scherzoso, Colafigli, ma in quel pezzo di carta c'era scritto che Abbatino e gli altri non s'erano dati da fare abbastanza per fargli ottenere l'infermità mentale, e questo lui non lo dimenticava. Poi i due riuscirono a incontrarsi nel reparto

ospedaliero del carcere: Marcello rimase freddo con Maurizio, e ogni volta che questo cercava di arrivare a un chiarimento quello si rifiutava. Dopo un po', nello stesso reparto, arrivò anche Edoardo Toscano, l'amico inseparabile di Abbatino, arrestato con «crispino» nello stesso appartamento; i due si parlarono attraverso le finestre dell'infermeria, ed Edoardo ribadì che Colafigli ce l'aveva con loro perché s'era sentito abbandonato. Solo che poco dopo Toscano finì nella cella di

«Marcellone» e riuscì a chiarire ogni cosa, mentre Abbatino continuò a essere considerato un traditore. «Né Edoardo fece nulla per tranquillizzare Colafigli sul mio conto», ricorderà poi Abbatino, «in quanto subentrò da parte sua nei miei confronti un certo livore, essendo io riuscito a farmi ricoverare in clinica. In particolare, sull'atteggiamento del Toscano influì la moglie, la quale riteneva privilegiata la mia famiglia per le maggiori possibilità di incontri con me rispetto a quelli che poteva

avere lei col marito. D'altra parte al Toscano non era piaciuto che io avessi speso circa trenta milioni che appartenevano all'organizzazione per acquistare uno strumento che doveva servire ad applicarmi un pacemaker.» (10) Abbatino si sforzava di far capire agli altri che la cosa migliore era che lui riuscisse non a evadere - che poi si sarebbe trovato con la polizia alle calcagna -, ma a farsi scarcerare regolarmente per motivi di salute, in modo da

poter riprendere in mano le fila dell'organizzazione, gestire in maniera oculata gli affari della banda e occuparsi adeguatamente dei detenuti per farli uscire di galera. Gli amici però non ne vollero sapere, ormai Maurizio aveva rotto, ai loro occhi, i vincoli di solidarietà. Secondo le regole interne, non solo c'era l'obbligo del mutuo soccorso verso i detenuti e i loro familiari - oltre alla «stecca», cioè la percentuale di guadagni sugli affari che andavano avanti, bisognava

garantire la «settimana», una sorta di stipendio che permettesse di conservare lo stesso tenore di vita a chi finiva in galera e alla sua famiglia -; i «bravi ragazzi» che si ritrovavano dietro le sbarre dovevano anche attenersi a un «codice di comportamento». Il primo punto era quello di non «scendere a patti di alcun genere con il personale carcerario»; ufficialmente, si intende, perché poi guardie, infermieri e tutti coloro che era possibile «avvicinare» venivano regolarmente contattati e

retribuiti per ottenere trattamenti di favore. Ma era vietato accettare le regole della legge e del carcere, per cui non si potevano chiedere attestati di buona condotta, permessi e licenze. Inoltre, in ogni momento il detenuto della banda doveva avere in testa l'obiettivo dell'evasione: tutto andava finalizzato alla fuga, e quando Gianni Girlando, «il roscio», non solo ottenne un permesso, ma alla sua scadenza ritornò disciplinatamente in cella anziché darsi alla latitanza, fu

guardato con sospetto dagli amici. La stessa cosa stava accadendo, ora, con Abbatino. «Si determinò una mia progressiva emarginazione dalla banda», ha spiegato «crispino», «dovuta anche al fatto che probabilmente chi aveva in mano la gestione delle lucrose attività 'sociali', aveva tutto l'interesse ad aggravare la mia posizione agli occhi dei detenuti, in quanto riteneva ingombrante una mia presenza all'esterno del carcere. In pratica, se io fossi uscito regolarmente dal carcere, la

direzione delle attività sarebbe tornata saldamente in mano alla 'vecchia guardia'.» (11) Tra quelli che, fuori, avevano approfittato della momentanea decapitazione della banda, c'era pure Claudio Sicilia, il quale dal suo «ufficio» di via Chiabrera e poi dalla nuova casa di via Balzac, all'Eur, aveva preso a dirigere i traffici di droga: «Lui vedeva assai male la possibilità di tornare a svolgere il ruolo, importante ma pur sempre di gregario, che gli era proprio prima della cattura mia e di

Edoardo Toscano». In fondo i voltafaccia non erano una novità, e il «vesuviano» pensò bene di presentarsi ai «testaccini» e denunciare loro i propositi di guerra di Abbatino e compagni. A De Pedis Sicilia raccontò che quelli della Magliana avevano deciso di farli fuori uno a uno: «In un primo tempo li consigliavo genericamente di stare attenti, di circolare con le macchine blindate, di non stare in mezzo alla piazza di Testaccio e di guardarsi bene le spalle. Poi, nel 1984, appena

uscito dagli arresti domiciliari, ebbi un incontro a casa di mia suocera con De Pedis, latitante, e con Carminati; in questa occasione fui più esplicito sulle intenzioni di quelli della Magliana, e De Pedis mi disse di averlo già capito a suo tempo dagli avvertimenti che gli avevo dato». Per i suoi «consigli», Sicilia fu ampiamente ricompensato da «Renatino» e gli altri del Testaccio: orologi, bracciali e catene d'oro, anfore antiche, dollari in contanti, biciclette per i bambini, abiti in pelle, e la

garanzia di rifornire di frutta il ristorante di Trastevere gestito da De Pedis. Ma anche quelli della Magliana pensarono di ricompensare il «vesuviano»: il 23 marzo del 1986 mandarono un sicario a sparargli, in mezzo alla strada, in pieno giorno. Sicilia non morì, rimase in coma per alcune settimane con una pallottola in testa, ma alla fine riuscì a cavarsela. Ormai, fra quei tanti rivoli in cui si stava sciogliendo la banda della Magliana, la resa dei conti non era più rinviabile.

A dar retta ai referti medici, Maurizio Abbatino, detenuto agli arresti domiciliari in una clinica privata dell'Eur, aveva un tumore addirittura in fase terminale. Ma nella sua stanza, piantonata dai poliziotti senza troppo impegno, il bandito della Magliana pensava al suo futuro. Lui sapeva di non essere malato, e che anzi, prima usciva da lì e maggiori possibilità avrebbe avuto di salvarsi la vita. Perché fuori gli amici di un tempo lo stavano abbandonando; perché il suo carisma all'interno della banda

si stava consumando velocemente, mentre aumentavano i contrasti; perché in clinica non erano disposti a tenerlo ancora a lungo. I suoi complici non gli passavano più né «stecche» né «settimane», e per pagarsi la degenza «crispino» fu costretto a consumare i risparmi e a vendere ciò che aveva: le automobili, la Saab e il Blazer 5700, le moto, il gommone. Le perizie e i certificati compiacenti costavano, così come il silenzio dei medici che

coprivano le sue false malattie, entro breve tempo non ce l'avrebbe fatta più a sostenere le spese. Ai processi le cose non si stavano mettendo bene, e anche l'idea di una scarcerazione «regolare», cioè per ordine del giudice, si allontanava giorno dopo giorno. Fu così che Maurizio Abbatino decise di evadere; ma con un piano solitario, senza avvisare nessuno della banda. L'unico che forse l'avrebbe capito era Edoardo Toscano, ma stava in galera e aveva i suoi problemi. Degli altri, Abbatino

non volle sapere niente. Progettò tutto insieme al fratello, Roberto, un ragazzo di ventinove anni che fino a quel momento era rimasto fuori dal «giro» di Maurizio e che l'avrebbe aiutato facendo ricorso a persone di tutt'altro ambiente. L'idea del posto dove andare, invece, era venuta da uno dei medici che inventava le sue malattie: «Vattene in Sud America», gli aveva detto. Arrivarono a pochi giorni prima del Natale del 1986, poi il piano scattò. Non ci fu bisogno di corrompere gli

agenti che piantonavano la stanza: quelli erano convinti che Abbatino fosse davvero affetto da un tumore e paralizzato alle gambe come diceva, e si limitavano a stazionare fuori dalla porta chiusa dopo aver dato un'occhiata per controllare che il detenuto fosse a letto. La sera del 20 dicembre, Maurizio diede la buonanotte a infermieri e poliziotti, poi come sempre - si coricò. Ma alle quattro era di nuovo in piedi. Si vestì in fretta, sistemò il cestino dei rifiuti e un cuscino

sotto alle coperte, in modo che a un controllo distratto potesse sembrare ancora a letto. La sua stanza era al primo piano, a pochi metri da terra: il più classico dei sistemi d'evasione funzionò come in un film, e con un lenzuolo legato alla finestra si calò nel cortile della clinica. Scavalcò l'inferriata di recinzione, che era bassa e non era certo stata costruita per bloccare prigionieri con progetti di fuga; ormai era in strada, e velocemente, anche se un po' a fatica a causa dei mesi in cui era stato immobile per simulare

la paralisi, arrivò all'auto sulla quale l'aspettava il fratello. Roberto l'accompagnò da un amico, che aveva accettato di prendere in casa Maurizio per qualche tempo senza sapere che fosse un fuggiasco. «Si trattava di un uomo diviso dalla moglie», ha ricordato Abbatino davanti al magistrato, «il quale viveva solo e non si pose problemi a ospitarmi. Restai suo ospite per un mese: l'uomo usciva tutte le mattine presto e rientrava la sera, per cui non si accorse mai che durante il giorno io non uscivo. Mio

fratello veniva tutti i giorni a trovarmi, e in occasione di una visita mi fece delle foto Polaroid uso tessera, in modo da procurarmi un passaporto. Egli non era coinvolto in vicende criminali e il giro delle sue amicizie era di incensurati, pertanto fu a uno di loro che sottrasse il passaporto e la carta d'identità, che falsificò grossolanamente apponendovi la mia foto, addirittura con gli occhiali, e ricalcando i timbri a secco.» (14) Ma «crispino» non si fidava di usare quei documenti per

uscire dall'Italia. A Roma era fin troppo conosciuto da Polizia e Carabinieri, e decise che avrebbe raggiunto l'America del Sud dalla Svizzera. Un giorno di fine gennaio, quando tutto fu pronto e poté finalmente abbandonare il suo rifugio, Maurizio si fece accompagnare al di là delle Alpi da un altro amico di Roberto. Andarono in macchina, e al posto di frontiera Abbatino si presentò bardato in abiti da sci, con lo «zuccotto» di lana calato sulla fronte e gli occhiali da sole a coprire il viso. Non lo riconobbe

nessuno, e arrivato a Ginevra si imbarcò senza problemi per Rio de Janeiro, da dove avrebbe poi raggiunto il Venezuela. Il piano d'evasione aveva funzionato alla perfezione, Maurizio Abbatino era riuscito a fuggire: dalla giustizia italiana e dai suoi amici della banda della Magliana. Nell'aria di guerra interna che si respirava, Fabiola Moretti e Antonio Mancini, l'«accattone», che aveva preso il posto di Abbruciati nel cuore

della ragazza dopo la morte di Danilo, cercarono di barcamenarsi a causa dei legami che continuavano ad avere sia con gli uni che con gli altri. Colafigli e Toscano accusavano De Pedis di non aiutarli adeguatamente, e pretendevano le loro parti di guadagno sugli affari di «Renatino»; «Marcellone», dal carcere, inviò un suo amico di Primavalle da un altro «testaccino» che gestiva le sale giochi di quel quartiere, minacciandolo se non avesse

accettato di «steccare» con lui i suoi guadagni. In carcere Antonio Mancini venne a sapere dei piani di morte dei suoi amici, e tentò di intervenire: «Colafigli e Toscano avevano deciso di far fuori 'Renatino'. Io, siccome De Pedis, attraverso Fabiola Moretti, provvedeva alle mie esigenze e a quelle della stessa Moretti, mi ero intromesso tra gli uni e l'altro, per evitare che a De Pedis potesse accadere qualcosa». (15) Da quando era diventata la sua donna, l'«accattone» aveva

voluto che Fabiola non vendesse più la droga, e per questo De Pedis cominciò a passare la «settimana» per lei e per Mancini. Il fatto suscitò gelosie e rimostranze nelle altre donne, che invece riscuotevano i soldi da Claudio Sicilia, giudicato troppo parsimonioso rispetto a De Pedis. Arrestato «Renatino», anche la Moretti si rivolse a Sicilia, ma De Pedis continuò a farle arrivare altro denaro attraverso i suoi «luogotenenti». Era stata Fabiola a chiedere

a Mancini di intervenire in favore di De Pedis; a «Renatino» scrisse anche una lettera in carcere, avvisandolo dei rischi che correva. La ragazza portò cinque milioni di De Pedis alla moglie di Toscano, per provare a tacitare le richieste di quelli che stavano dietro le sbarre, e cercò fino all'ultimo di ricucire lo strappo tra gli amici di un tempo. Ma non ci fu niente da fare. Una sua temporanea rottura con Mancini fu addirittura utilizzata da «Marcellone» e l'«operaietto» per mettere

l'«accattone» contro De Pedis: «Gli attribuivano la colpa del fatto che io avessi lasciato Antonio», ricorderà Fabiola Moretti, «ma si trattava di un pretesto. 'Renatino' e Antonio avevano infatti avuto modo di chiarirsi, e il primo aveva spiegato al secondo le ragioni per cui io non volevo più stare con lui. In realtà quello a cui miravano i due erano i soldi di 'Renatino'». (16) Il capo dei 'testaccini' non voleva saperne di continuare a versare denaro a quei due carcerati e mettersi a

«steccare» con loro. Non doveva nulla a nessuno, diceva, perché fino a quel momento i guadagni della banda erano sempre stati divisi alla pari, e se lui aveva fatto fruttare i soldi mentre gli altri se li erano mangiati non poteva farci nulla. «E poi», disse una volta a Fabiola, «se gliela do vinta adesso, finisce che quelli pretenderanno che io gli allacci pure le scarpe.» Ma «quelli», dall'altra parte, insistevano, e la situazione era giunta a un punto che ormai potevano parlare solo le pistole.

Edoardo Toscano, classe 1953, detto l'«operaietto» perché si industriava sempre e dimostrava di sapersela cavare in ogni circostanza, prima segnalazione per furto a diciotto anni non ancora compiuti, primo arresto per rapina e tentato omicidio a ventidue, considerato dagli amici uno «studioso di criminalità» perché si informava su tutti i delitti che avvenivano non solo in Italia e sui modi per sottrarsi alla giustizia; piccolo di statura, naso ingombrante e occhi un

po' in fuori, uscì di galera, in libertà provvisoria, la mattina del 13 febbraio 1989. Aveva trentacinque anni e mezzo, e una gran voglia di ammazzare il suo ex amico De Pedis prima di fuggire all'estero. «'Renatino'», continua il racconto della Moretti, «venne a sapere che Edoardo lo cercava e ritenne di doverlo uccidere, in quanto altrimenti sarebbe stato ucciso lui. Sapendo che Bruno Tosoni 'reggeva' i soldi di Toscano, circa cinquanta milioni di lire, offrì a costui una somma di altri

cinquanta milioni perché attirasse Toscano in un'imboscata. L'incarico di uccidere Toscano venne dato da 'Renatino' a 'Cileno' e a 'Ruffetto'... Anche in altre occasioni 'Rufetto' era stato usato come killer dai testaccini.» (17) Si stava riproducendo, inesorabile, il meccanismo di qualche anno prima con Nicolino Selis e i suoi amici, quando i complici di un tempo si cercavano per ammazzarsi. La mattina del 16 marzo, quando era libero e stava sulle

tracce di De Pedis già da un mese, Edoardo Toscano andò a Ostia. Lì, poco prima di mezzogiorno, aveva appuntamento con il suo «cassiere»: quel Bruno Tosoni, occupazione panettiere, che a cinquantadue anni aveva sì la qualifica di «sorvegliato speciale», ma era riuscito a contenere le noie con la giustizia. Bruno, baffoni alla Stalin e capelli imbiancati sulle tempie, gestiva due panifici, uno dei quali nella centralissima via della Marina, tra una pizzeria e un negozio di

lingerie e costumi da bagno. Edoardo arrivò al panificio, Bruno uscì e i due si misero a parlare sul marciapiede, sotto un sole pallido: Tosoni con le spalle alle vetrine, Toscano di fronte a lui, spalle alla strada. Stavano discutendo da qualche minuto quando dietro a Edoardo comparve il suo assassino: tre colpi di pistola, altrettanti lampi, un proiettile nel cranio e uno nel torace; il boss della Magliana cadde sui vasi di oleandri che era già morto, si dovette aspettare l'arrivo dei poliziotti perché

qualcuno gli chiudesse gli occhi e lo coprisse con un lenzuolo. A esecuzione avvenuta il killer era scomparso a bordo della solita moto rombante con complice protetto dal casco integrale. Bruno Tosoni rimase ferito di striscio a un piede, lo portarono in ospedale, guarì in trenta giorni. Dovette sostenere gli interrogatori dei poliziotti e del giudice, ma anche degli amici dell'«operaietto» che s'erano già messi a caccia di chi l'aveva ammazzato. Andò il «coniglio», Vittorio

Carnovale: «Dopo l'omicidio di Edoardo, quando Tosoni uscì dall'ospedale, io e Mancone ci recammo da lui per chiedergli come e chi avesse fatto 'la carica'. Tosoni ci descrisse la persona che aveva sparato: un uomo robusto, con capelli lunghi che secondo lui erano una parrucca, che zoppicava. Secondo quanto ci disse Tosoni questa persona attraversò la strada proveniente dalla banca, Edoardo l'aveva di spalle mentre lui se l'era trovato di fronte, sicché l'aveva notata... Ci disse che dopo che l'uomo

aveva sparato era fuggito a bordo di una moto sopraggiunta nel frattempo. A dire del Tosoni, il quale fu molto evasivo, il conducente della moto aveva il casco ed egli non aveva mai visto prima la persona che aveva sparato». Due giorni prima di morire, nell'aula della Corte d'Assise d'appello dove era stato assolto come gli altri imputati della banda, Edoardo aveva incontrato il suo amico Colafigli. Gli disse che avrebbe chiarito tutto con le persone che avevano degli obblighi nei

suoi confronti: non fece in tempo, oppure il chiarimento non fu sufficiente. Undici mesi più tardi, all'ora di pranzo di venerdì 2 febbraio 1990, la morte arrivò nel cuore di Roma. In via del Pellegrino, a poche decine di metri da piazza Campo de' Fiori, ancora piena dei rumori e dei colori del mercato rionale. Accadde all'improvviso. «Ho sentito un gran botto», raccontò l'inquilina del primo piano di un vecchio palazzo di via del Pellegrino al cronista di un quotidiano romano, «mi

sono affacciata e ho visto quell'uomo per terra con il sangue che gli usciva dalla bocca. Il motorino era con le ruote per aria. Il botto era stato preceduto da un paio di spari.» (19) L'uomo col sangue che usciva dalla bocca era Enrico De Pedis, trentasei anni da compiere il 15 maggio, come era scritto sulla carta d'identità, accanto a una foto in cui appariva elegante e pettinato con cura, capelli con la scriminatura a sinistra, giacca, cravatta e colletto inamidato.

L'avevano abbattuto mentre se ne stava andando col suo motorino, un Honda bianco che dopo i due colpi di pistola aveva proseguito a zig zag per cinquanta metri, come fosse guidato da un ubriaco, prima di schiantarsi contro un'auto parcheggiata. I killer erano scappati in moto, di fronte al luogo dell'agguato c'era un bar, ma come sempre nessuno aveva visto niente. «C'è stato un fuggi fuggi generale», raccontò il barista. Il capo dei «testaccini» era

morto così, fulminato dopo un appuntamento e un incontro nel quale tutto sembrava essere andato come previsto, anche se forse era volata qualche parola di troppo. Era arrivato in via del Pellegrino per trattare con un commerciante l'acquisto di alcuni preziosi. Conclusa la discussione, salì sul motorino per andarsene, e a quel punto entrarono in scena i killer che con due colpi secchi vendicarono Edoardo Toscano e tutti gli «sgarri» che venivano imputati a «Renatino».

Quando fu assassinato, Enrico De Pedis aveva assunto un «ruolo centrale all'interno dell''anima finanziaria' dell'associazione: rappresentava il fondamentale elemento di collegamento e punto di riferimento tra i vari De Tomasi, Serafini, Nicoletti, Vitale» e una lunga sequela di altri nomi. (20) Cinque mesi prima della sua morte, la Squadra Mobile di Roma aveva presentato un rapporto nel quale si parlava della «mafia dei colletti bianchi» nella capitale, che -

aveva scritto il dirigente «cura interessi macroscopici, concentrandosi soprattutto sul riciclaggio del denaro sporco con il sistema ormai collaudato delle società di comodo.» E al centro del rapporto c'era proprio lui, Enrico De Pedis: «Pur risultando nullatenente», accusava la Squadra Mobile, «gestisce indirettamente esercizi commerciali della capitale nei quali ha investito i proventi delle sue illecite attività. La rilevanza della sua posizione in seno a organizzazioni criminose e la

sua riconosciuta abilità fa sì che lo stesso venga contattato dalla mafia siciliana, che lo ritiene all'altezza di rappresentarla nel traffico di droga dalla Sicilia a Roma... Il 'cinese pentito' Koh Bak Kin lo indica come intermediario di un traffico dall'Estremo Oriente alla Sicilia». (21) Ristoranti a Trastevere e nel centro di Roma, negozi e imprese edili risultavano intestate ai parenti di De Pedis, compresa la madre Edda, amministratore unico della Edda Prima, sede nella sua casa

della Magliana, una società dedita «all'acquisto e vendita di beni immobili, rustici e urbani, loro rifacimento e nuove costruzioni». «Venivano altresì acquisite notizie», continuava il rapporto, «che l'Enrico De Pedis e il Giuseppe Sergio De Tomasi avevano rilevato il noto locale notturno Jackie 'O sito in via Boncompagni nonché, in esclusiva, la boutique Coveri di questa città.» In molti lo conoscevano come il nuovo «re» dell'usura e del gioco d'azzardo, ma anche come uno sospettato di avere

stretti legami coi Servizi segreti: a parte l'evasione organizzata dal tribunale, s'era adoperato per far trasferire poliziotti e carabinieri troppo tenaci nelle indagini. Antonio Mancini aveva cominciato a frequentarlo quasi quotidianamente, e la domenica mattina «Renatino» passava a prenderlo a casa per portarlo a colazione in una pasticceria di Testaccio. «Vi era anche una ragione precisa», spiegherà «l'accattone» a un magistrato, «che mi induceva a stare con

De Pedis: si diceva che egli avesse preso il posto di Giuseppucci nei contatti di un certo livello. Intendo dire non i contatti con persone della malavita, che erano piuttosto normali, ma contatti con organi dello Stato, con funzionari di questa o quella Polizia. Quando mi riferisco a questi contatti, non intendo affatto dire che De Pedis fornisse informazioni alla Polizia, bensì esattamente il contrario, e cioè che De Pedis riusciva a ottenere notizie da organi e funzionari dello Stato circa operazioni o

provvedimenti che si dovevano adottare. In particolare si diceva che De Pedis fosse in contatto con uno della Digos di Roma, dal quale riceveva importanti o utili informazioni. Veniva così a sapere con congruo anticipo se eravamo seguiti, e che intenzioni avessero gli organi di Polizia nei nostri confronti.» Con gli amici era lo stesso «Renatino» a vantarsi delle conoscenze che aveva «in alto», ma quel venerdì mattina, a Campo de' Fiori, non poté fare nulla contro chi aveva

l'ordine di toglierlo dal mondo. Cinque giorni prima, il 28 gennaio, erano arrivati a Roma due malavitosi toscani, Dante Del Santo - chiamato «il cinghiale», di Massa Carrara, con lunghi trascorsi nei manicomi criminali - e il suo amico Alessio Gozzani. A Fiumicino vennero controllati da una pattuglia della «Polaria» insieme a Libero Mancone, ma risultarono «puliti» e furono rilasciati. Nella capitale dovevano semplicemente rifornirsi di cocaina da quelli della Magliana, ma due killer

«esterni» potevano tornare utili, e finirono per essere coinvolti nell'omicidio di De Pedis. Al giudice istruttore, nel 1993, l'ha svelato, dopo alcune titubanze, Vittorio Carnovale raccontando che da Enrico Nicoletti, uno degli imprenditori legati a De Pedis, lui e gli altri amici vennero a sapere che «Renatino» stava trattando un affare con Angelo Angelotti: «Io e Marcello Colafigli, il quale era già amico di vecchia data di Angelotti, contattammo quest'ultimo che ci confermò la

trattativa in corso e che, soprattutto, ci informò la mattina dell'omicidio che proprio quel giorno aveva un appuntamento con De Pedis. Quando giunsero a Roma Del Santo e Gozzani, eravamo in attesa di sapere quando dovesse avvenire l'incontro tra De Pedis e Angelotti, per cui informammo del lavoro che stavamo facendo i predetti Gozzani e Del Santo, i quali si offrirono di partecipare anche loro... Chi sparò fu Del Santo». (24) Per gli investigatori fu fin

troppo logico collegare l'assassinio di De Pedis con quello di Toscano e inserirlo nella faida tra i compari di un tempo, «testaccini» e «maglianesi». Per questo, quando a luglio fu riacciuffato l'evaso Colafigli, il pubblico ministero gli chiese conto di quel delitto. «Vorrei che lei capisse», rispose «Marcellone», «che chi vorrebbero ammazzare è il sottoscritto. Sono certo di ciò dal momento che mi pedinavano e mi si appostavano sotto casa... Il giorno che fu ammazzato De

Pedis ero da un mio parente qui a Roma, anzi vicino Rieti.» Il magistrato gli ricordò la sua amicizia con Edoardo Toscano, probabile vittima di «Renatino», ma Colafigli replicò: «Ma io sono anche amico di Renatino. L'ho conosciuto tramite Franco Giuseppucci che era amico di entrambi, poi Franco è morto, io ho ammazzato 'il pescetto' per vendicarlo, e da allora sono rimasto legato a De Pedis, con cui ho avuto degli incontri in carcere... Quando sono uscito da Reggio Emilia non ho avuto

modo di incontrarlo». A «Renatino» era rimasto legato Raffaele Pernasetti, chiamato «er palletta», che aveva dei buoni motivi per temere anche lui una vendetta. Sul suo conto Colafigli disse: «Ho avuto modo di incontrare Raffaele Pernasetti in questi ultimi giorni proprio per dirgli che non avevo nulla contro di lui. L'ho incontrato a Testaccio, da Augustarello, un ristorante. Non avrei mangiato con Raffaele né con nessun altro, l'ho incontrato davanti al locale. E' stata una persona

cara di cui non voglio fare il nome e di cui mi fido che mi ha detto che l'avremmo potuto incontrare in questo posto, e così è stato. Raffaele non è male, l'ho visto sincero nel dirmi che non c'era niente, lui si è informato se mi serviva qualcosa e io gli ho detto di no». Roberto Abbatino era uscito dalla sua casa di Acilia verso mezzogiorno di domenica 18 marzo, un mese e mezzo dopo l'omicidio De Pedis. «Torno a pranzo», aveva detto alla

moglie. Poi era salito sulla sua Peugeot 205 e se n'era andato, senza dire dove. Passò l'ora di pranzo, la domenica, il lunedì, e quasi l'intera settimana finché, nella notte tra venerdì e sabato, la signora Cinzia, moglie di Roberto, impiegata di un'azienda elettrica, si decise a presentarsi ai carabinieri per denunciare la scomparsa del marito. Negli archivi dell'Arma, su Roberto Abbatino - capelli ricci, occhi scuri e sguardo sfrontato c'erano poche annotazioni: un po' di cocaina

trovata in casa quattro anni prima, ma era la «modica quantità» consentita dalla legge; una denuncia per tentata estorsione. In realtà Roberto era noto soprattutto per il cognome e per essere fratello di quel Maurizio Abbatino, lui sì con un lungo elenco di precedenti penali, evaso e ricercato da oltre tre anni. Ufficialmente Roberto faceva il venditore di souvenir per turisti davanti alla basilica di San Paolo, ma alla bancarella non lo vedevano da mesi.

Lo cercarono per due giorni, e a trovarlo - lunedì 26 marzo fu un pescatore che si trovava sul Tevere, all'altezza di Vitinia: dal fiume vide affiorare un cadavere, avvertì i Carabinieri che, accorsi sul posto, identificarono Roberto Abbatino, il corpo pieno di ferite e il petto squarciato dalla coltellata finale. Erano almeno trenta i tagli che avevano devastato il corpo del fratello del boss, tagli superficiali fatti apposta per farlo parlare, una tortura in piena regola: il cadavere aveva i pugni chiusi,

come se il giovane Abbatino li avesse stretti nel tentativo di resistere, e soprattutto mancavano le ferite alle mani e agli avambracci, tipiche di chi tenta di difendersi da un aggressore col coltello. L'avevano torturato per chissà quanto tempo e poi ucciso e gettato nel Tevere, senza darsi il pensiero di «zavorrare» il cadavere per evitare che ricomparisse in poco tempo. Per punirlo di uno «sgarro», probabilmente, ma anche altrettanto probabilmente - per strappargli

notizie sul luogo in cui si nascondeva suo fratello. Perché Roberto Abbatino era l'unica persona a sapere dove si trovava Maurizio. Era andato a fargli visita in Venezuela, e per confondere le tracce aveva preso un aereo dall'Olanda, anziché dall'Italia. «Venne a trovarmi alcuni mesi prima di essere ucciso», ha rivelato il boss pentito, «ero stato io a farlo venire. Da mia madre avevo saputo che negli ultimi tempi mio fratello era particolarmente nervoso e si scaricava in famiglia, senza che

nessuno riuscisse a capire quali problemi avesse. In occasione del nostro incontro appresi da lui stesso che aveva allacciato contatti con Libero Mancone e Roberto Frabetti, dai quali aveva avuto una partita di eroina che però non era riuscito a smerciare perché, oltre a non essere pratico dell'ambiente, si trattava di merce di pessima qualità. Mio fratello mi aveva anche fatto notare che quelli della banda non erano più miei amici, e che avevano fatto pressioni su di lui sia per ottenere il pagamento

della partita di droga fasulla, sia per sapere dove mi trovassi.» (26) Di Roberto, Maurizio si fidava. Aveva voluto il suo aiuto, l'unico, per organizzare la fuga, e soltanto a lui aveva rivelato il falso nome che usava in Venezuela e l'indirizzo al quale poteva trovarlo; gli altri familiari avevano solo dei numeri di telefono. Che pure lui, sulle orme del fratello, avesse cominciato a fare qualche affare con la droga, l'avevano capito in tanti; dalle abitudini di vita,

improvvisamente mutate: macchine, moto giapponese, frequentazione di locali notturni alla moda, escluso quel Jackie 'O dove troppo spesso si facevano vedere i «testaccini» che cercavano Maurizio. Forse lo sequestrarono, forse gli tesero la trappola con un appuntamento. Fatto sta che Roberto Abbatino, a trentatré anni, era caduto nella guerra tra banditi che un tempo erano stati complici e amici per la pelle, vittima diretta e trasversale insieme

dei loro traffici e delle loro vendette. I cronisti che tentavano di capire ragioni e cadenze della strage che si stava consumando andarono a bussare, come sempre, a casa del morto. Ma si trovarono di fronte alla solita reazione, porte sbarrate e bocche cucite. Parlò solo il padre di Maurizio e Roberto Abbatino, per dire che non voleva parlare: «Ne avrei tante di cose da dire, ma le tengo per me». (27) Dal suo rifugio in Venezuela, Maurizio Abbatino tentò

inutilmente di avere qualche notizia in più sulla morte del fratello. Telefonò in Italia a qualcuno che pensava fosse rimasto suo amico, ma ottenne solo risposte evasive e generiche. Era come se dall'altra parte del filo si materializzassero paura e diffidenza, nessuno voleva più avere a che fare con «crispino», e tantomeno aiutarlo. A Giovanni Girlando, «Gianni il roscio», spararono un colpo alla nuca nella pineta

di Castelporziano, una sera di maggio di quel 1990, l'anno dei Mondiali di calcio in Italia e dei regolamenti di conti tra «bravi ragazzi». Il «roscio» era il trafficante di droga amico di Fulvio Lucidi, veniva dal gruppo di Acilia-Ostia, poi era passato con quelli della Magliana. Continuava a trafficare eroina, e per fare affari, quando per le dichiarazioni dei «pentiti» e la guerra interna l'aria s'era fatta pesante, era andato in Olanda, dove fu arrestato, estradato in Italia e poi scarcerato. Nel Paese dei tulipani erano

transitati diversi dei banditi cresciuti nelle borgate intorno al Tevere, che lì avevano aperto un canale per commerciare la droga; la cocaina adesso arrivava dalla Spagna e dal Marocco, l'eroina invece dalla Turchia, via Olanda. Non solo Girlando era arrivato nei Paesi Bassi, ma anche Colafigli, Vittorio Carnovale, Libero Mancone e Antonio D'Inzillo, un altro giovane neofascista riciclatosi nelle bande criminali comuni; nell'aprile del '91, in una località non lontana da

Amsterdam, comparirà il cadavere di un trafficante turco, Ercan Mahmut Inanguray: sulla sua agendina c'erano i numeri di telefono di Colafigli, Carnovale e D'Inzillo. A quarantaquattro anni Gianni Girlando voleva ancora dire la sua nel mondo della malavita. Da cinque mesi s'era stabilito a Ostia, insieme a una nuova donna: quella precedente, Patrizia, l'aveva lasciata col figlio di nove anni. La mattina di lunedì 21 maggio, Gianni uscì di casa proprio per andare a trovare il

bambino nella sua casa di Acilia. Non ci arrivò mai. Tre giorni dopo, la sera del giovedì, ricomparve tra i cespugli della pineta: il cadavere con la maglietta alzata fino al petto e la faccia sfigurata dal sangue rappreso, scoperto da due ragazzi, era del «roscio». Documenti addosso non ne aveva, solo il Rolex d'oro, una catenina e il tatuaggio di una farfalla. In casa, nemmeno i parenti poterono parlar bene ai giornalisti di Gianni Girlando: «Litigava spesso, non abbiamo

certo un buon ricordo. Non lavorava, aveva pochi soldi. Patrizia ha tirato su il piccolo solo grazie a un minimo sussidio. Si bucava, ma non ci raccontava niente di quanto facesse. Ci diceva di essere 'internazionale'». (28) Le indagini sulla morte del «roscio» non portarono a nulla. Ci fu solo la solita «fonte confidenziale» che spifferò in Questura di una lite recente tra Girlando e Marcello Colafigli, a quell'epoca ancora uccel di bosco, il quale «aveva aspramente rimproverato» a

Gianni «il mancato aiuto fornito ai componenti del sodalizio detenuti.» (29) Passò ancora un anno, e la sera del 26 marzo 1991 toccò a Pietro Sante Corsello, che di Gianni Girlando era stato uno dei gregari nella distribuzione della droga lungo il litorale laziale. Ma aveva lavorato anche con gli altri della Magliana, Colafigli e Carnovale. I carichi di eroina che «Marcellone» fece arrivare via mare tra l'89 e il '90 dalla Sicilia tramite i mafiosi di Totò Riina, venivano ritirati al porto

di Napoli proprio da Corsello, il quale poi trasportava la «roba» a Roma, in macchina. Era sempre lui, successivamente, a curarne il taglio in casa sua, quando la moglie usciva per andare al lavoro, e a consegnarla agli spacciatori. Lo ammazzarono a colpi di pistola in una via di Acilia, mentre si trovava in compagnia di alcuni amici. Ci fu una sparatoria tra bande, e Corsello - quarant'anni e una barba ben curata, orologio e bracciale d'oro - rimase ferito. Gli amici in fuga tentarono di salvarlo

portandolo con loro, ma dopo poche centinaia di metri lo scaricarono dall'auto su un marciapiede: ormai era morto. ***

10. PENTIMENTI.

«Pronto Carla? So' Antonio.» «Ciao. L'hai visto?» No, non l'aveva visto. Antonio Abbatino era andato fino a Caracas, in Venezuela, per incontrare il figlio Maurizio, arrestato in Sud America dopo una fuga durata cinque anni, ma non gli avevano ancora dato il permesso. Dicevano che in carcere stava scoppiando

una rivolta, e che per adesso non poteva entrare nessuno. In Italia erano le undici e mezza di sera; a Caracas, le sei e mezza del pomeriggio di giovedì 6 febbraio 1992. Antonio Abbatino stava telefonando a Carla, la moglie di Maurizio, per chiedere come andavano le cose a Roma. Sui giornali s'era scritto dell'arresto del boss della Magliana, uno che se avesse voluto avrebbe potuto raccontare molte cose a poliziotti e giudici. E c'era chi confidava che si sarebbe pentito in aereo, sopra

l'Atlantico, nel viaggio dal Venezuela a Roma. Come Buscetta. Di questo si preoccupavano Antonio e Carla, anche perché preoccupati erano «gli amici», gli ex complici di Maurizio, timorosi di quanto il boss avrebbe potuto spifferare. Contro di loro, nel frattempo, era partita una nuova raffica di mandati di cattura, e stavolta, oltre agli omicidi e al traffico di droga, c'era un'accusa nuova: associazione per delinquere di stampo mafioso. «Com'è la situazione, per

questi ragazzi?» chiese Antonio. «Niente... Stanno aspettando», rispose la nuora. «Ancora stanno dentro?» «Stanno aspettando che torna lui, perché pensano che lui...» «Ha parlato?» «No, che lui...» «Tranquilla, perché io ti dico subito che questi hanno giocato per venderselo. Capisci? L'hanno fatto apposta a tenerlo qui, sennò a questo punto già se lo sarebbero portato. E tu... sii più furba di loro... Vaglielo a

dire a tutti gli amici che lui...» «Ma guarda che qui lo sanno...» «Che sono un mucchio di stronzate... Mi capisci?» «Fammi parlare un attimo a me...» «Chiama l'avvocato e prepara tutta 'sta roba qui... E agli amici digli che queste sono tutte stronzate e che l'hanno fatto apposta.» «Ma guarda che loro lo sanno, lo sanno che lui non ha parlato, non ha detto niente... Solo che il gioco...» «Se lo vogliono vendere...

Hai capito come?» «Loro sperano che quando lui viene, durante il viaggio... Che lui parla... Hai capito qual è il discorso?» disse Carla riferendosi alla Polizia. «Ma non ha niente da dire, hai capito?... Non c'è niente da dire», si spazientì Antonio. «Eh, lo so, ma loro stanno co' 'sta speranza.» «E tu agli amici gli devi dire che tutte 'ste cose... Anche perché non lo vedete Maurizio? Lo tengono da una parte proprio apposta, per far capire che quello chissà che cosa gli

sta a dire, quando invece magari Maurizio non gli sta a dire un cazzo, perché non ha un cazzo da dirgli... Hai capito?» «Va bene, va bene, ma tanto...» «Dì all'avvocato tutte 'ste cose qui, e agli amici, in modo che quando che viene giù, che se lo portano giù, le sanno tutti 'ste cose...» «Ma guarda che loro già le sanno, n'hai capito? Degli amici, non ci crede nessuno. Lo sanno che è un gioco della Mobile, m'hai capito? Gli amici

lo sanno, però la Mobile sta co' la speranza che quando lui arriva, nel viaggio gli possa dire qualche cosa...» A Roma s'era saputo anche che un magistrato stava per partire, e Carla lo disse al suocero, raccomandandogli di avvertire Abbatino: «Quando che vai da lui, digli che stesse tranquillo, che qui gli amici lo sanno che lui non ha parlato, e che non parlerà mai. L'importante è questo... Perché quelli lo sanno che lui...» (1) Maurizio Abbatino l'avevano

arrestato a Caracas, il 25 gennaio di quel '92 che sarebbe stato l'anno delle stragi di mafia, ma anche l'anno dei nuovi, grandi «pentimenti» tra gli uomini delle cosche, non solo siciliane. Gli uomini della Squadra Mobile romana e della Criminalpol l'avevano individuato da tempo in terra sudamericana, ma la telefonata decisiva la intercettarono la sera di Capodanno; meno di un mese dopo gli saltarono addosso, all'uscita di un locale notturno. Lui, magro e smunto come sempre, s'era mostrato

stupito, ma non troppo. Anzi, appena capì che aveva a che fare con dei poliziotti italiani si tranquillizzò. In Venezuela stava cercando di rifarsi una vita, ma sempre alla sua maniera: contatti con la piccola criminalità locale e spaccio di droga, anche se in dimensioni contenute. Aveva una nuova donna, non navigava certo nell'oro, la prima cosa che chiese fu una stecca di sigarette. Le manette per Maurizio Abbatino significavano il carcere, ma probabilmente anche la fine di

un incubo, quello del fuggiasco che deve guardarsi dalla polizia e dai banditi che vogliono farlo fuori. E sul fatto che «gli amici» volevano fargli la pelle, dopo la morte di suo fratello Roberto, c'erano pochi dubbi. Adesso però, finito nelle mani dei due ispettori che erano andati ad arrestarlo, Abbatino aveva di nuovo il coltello dalla parte del manico, e per questo i complici di un tempo - timorosi di qualsiasi parola avesse detto alla polizia, come avevano fatto capire anche alla moglie e al padre -

si mostrarono, improvvisamente, prodighi di aiuti, premure e assistenza nei confronti di «crispino» e della sua famiglia. Qualcuno era riuscito a darsi alla fuga, ma molti dei vecchi amici di Abbatino erano nuovamente in carcere, e ora correvano il rischio, se lui avesse parlato, di restarci per un bel po'. Raccolsero fondi per pagare le spese legali e aiutare la famiglia: la banda s'era di nuovo mobilitata per il boss degli anni passati. Anche Vittorio Carnovale,

dalla galera, fu chiamato a fare la sua parte: «Diedi dieci milioni di lire... L'iniziativa di soccorrere Maurizio, nonostante che con lui si fossero ormai definitivamente rotti tutti i rapporti, venne accolta favorevolmente perché sempre più insistente circolava la voce di un suo proposito di collaborazione con la magistratura italiana». (2) Nel carcere di Caracas, a trovare il detenuto Abbatino Maurizio, arrivò dall'Italia un avvocato che conosceva il Venezuela e parlava lo

spagnolo, ritenuto il più adatto a seguire la pratica del boss. Il legale, riferirà «crispino», aveva portato con sé i due ordini di carcerazione per le condanne a cinque e diciotto anni di pena, ma lo rassicurò: «Guardi che problemi non ce ne sono, lei non è messo poi così male». E se non si fidava, se non voleva tornare in Italia, ugualmente non ci sarebbero stati problemi: «Può restare qui in Venezuela, oppure essere estradato ma in un Paese diverso dall'Italia. Il Messico, per esempio». (3)

Intanto le pratiche per il trasferimento del boss in Italia o quanto meno per l'espulsione dal Venezuela, dopo di che sarebbe stato preso in consegna dalla Polizia italiana - stavano andando avanti, bisognava fare in fretta. Anche un avvocato venezuelano, Hugo Albarran, uno dei legali più noti di Caracas, andò a trovare Abbatino e gli spiegò che la soluzione migliore poteva essere quella di essere giudicato e condannato in quel Paese.

Aveva scoperto che in carcere l'italiano aveva picchiato un detenuto locale: si poteva fare il processo per quel fatto, arrivando a una piccola condanna e alla scarcerazione, evitando così l'estradizione. Per le spese non c'era da preoccuparsi, perché dall'Italia erano già arrivati cinquanta milioni di lire, e Albarran aveva ridotto le sue pretese. Proprio l'avvocato di Caracas si ripresentò dopo qualche tempo, assicurando a «crispino» che tutto stava andando per il meglio; in sua presenza parlò

con il direttore del carcere per far avere al suo assistito una cella singola: se c'erano delle spese da sostenere ci avrebbe pensato lui. A Roma arrivavano notizie che le cose, con Abbatino, si stavano mettendo bene. Nel corso dei colloqui, venne avvisato anche Carnovale: «Alcuni giorni prima che Maurizio rientrasse in Italia, avevamo avuto l'assicurazione che la situazione sarebbe stata definita entro breve tempo e nel migliore dei modi». (4) Non andò così. Il 4 ottobre

1992 Maurizio Abbatino fu espulso dal Venezuela, preso in consegna dagli uomini della Squadra Mobile e portato in Italia. Con un bagaglio di segreti che presto avrebbe svelato. Era sempre in ottobre, ma di nove anni prima, il giorno in cui senza attraversare l'oceano, ma solo qualche corridoio del vecchio carcere di Regina Coeli - uno dei «bravi ragazzi» aveva fatto, per primo, il passo che l'avrebbe portato a essere bollato come

«infame». Prima l'avevano chiamato «sorcio», poi gli avevano detto «cornuto» e avevano deciso di ammazzarlo; adesso, 15 ottobre 1983, in una saletta del penitenziario, davanti al sostituto procuratore della Repubblica Nitto Francesco Palma e al dottor Alessandro Pansa, della Squadra Narcotici della Questura, Fulvio Lucioli nato a Roma nel 1954 e residente ad Acilia, detenuto, imputato di associazione per delinquere - stava per cambiare bandiera, abbandonare gli

amici e i nemici con cui aveva fatto affari fino a quel momento, diventare un «pentito». L'aveva scritto il giorno precedente in una lettera consegnata al direttore del carcere, e adesso lo ribadiva al magistrato: «Confermo di aver spedito la lettera che mi viene mostrata, e confermo altresì che ho intenzione di rendere dichiarazioni in merito a fatti criminali, anche di rilevante gravità, in alcuni dei quali sono coinvolto». Il pubblico ministero

interruppe subito l'interrogatorio, considerate le dichiarazioni dell'inquisito bisognava chiamare il giudice istruttore. Nel frattempo metteva a verbale: «Il Lucioli dichiara di revocare i suoi difensori di fiducia, e richiede che presenzi, in sua assistenza, un difensore d'ufficio». Il cambio di avvocato è il primo segnale verso l'esterno del «pentimento» di un imputato di criminalità organizzata: fu così che i «bravi ragazzi» seppero che uno di loro aveva tradito. Un'ora più tardi

l'interrogatorio riprese, alla presenza del giudice istruttore. Fulvio Lucioli cominciò dall'inizio, e come sempre c'era di mezzo un bar: «All'incirca verso il 15 settembre 1975, pochi giorni dopo la sua uscita dal carcere, conobbi ad Acilia Gianni Girlando, in un bar ove mi trovavo con alcuni amici; quando al bar giunse il Girlando, poiché le persone che lo accompagnavano conoscevano i miei amici, ci mettemmo a parlare. Poiché era senza macchina, mi chiese di accompagnarlo a casa. Lo

feci, e il Girlando mi chiese se potevo andarlo a prendere a casa la mattina successiva. Da lì è nata la mia amicizia con Girlando. Aveva circa sette anni più di me, e lo consideravo degno di rispetto e stima per i suoi trascorsi giudiziari; effettivamente, avendo io appena cominciato la mia attività illecita, ero suggestionato dal Girlando, ed ero disposto a fare qualunque cosa mi chiedesse nella speranza di potermi associare allo stesso nella sua attività». Fulvio Lucioli era entrato

così nel «giro» che di lì a qualche anno avrebbe dato vita alla banda della Magliana. Adesso la sua storia stava diventando un libro aperto per poliziotti e magistrati che fino a quel momento avevano assistito quasi impotenti alle imprese criminali di quei giovani rapinatori di quartiere che s'erano organizzati e avevano «conquistato» Roma. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso dei segreti custoditi da Lucioli - scriverà nel 1984 un pubblico ministero - era stata «la comprensione

che i suoi compagni sono pronti a uccidere e a uccidersi anche vicendevolmente per appagare rancori, ripicche e paure, e per guadagnare sempre più dal traffico degli stupefacenti. Il travaglio interiore che ne consegue», continua il magistrato, «anche se lento, è di sicuro esito: il Lucioli capisce a un certo punto che deve far piazza pulita della sua vita passata e che se deve ricominciarne una nuova deve pagare per quello che ha fatto e collaborare in modo completo con la giustizia. Queste sono le

ragioni che lo spingono a parlare.» (6) Il «sorcio» parlò per settimane intere, raccontando di rapine, traffici di droga, racket dei videogiochi, truffe varie, omicidi, contrasti interni alla banda, contatti con la criminalità organizzata di altre città e regioni. Tutti fatti che conosceva per avervi assistito direttamente, o perché gli erano stati raccontati da complici. «Nella malavita organizzata», spiegò al giudice dopo un mese di interrogatori, «e in particolare tra coloro che

si dedicano allo spaccio e al traffico di stupefacenti, vi è una scala gerarchica che tutti conoscono e rispettano. In questa scala io occupavo una posizione di preminenza in quanto ero considerato uno dei più grossi spacciatori di eroina della capitale, ed era normale sapere i fatti che riguardavano spacciatori che occupavano una posizione inferiore alla mia... Molte delle persone che mi hanno fatto delle confidenze (Carnovale Giuseppe, Mancini, Urbani, Abbatino, Girlando, Colafigli, Toscano, Selis,

eccetera), le hanno fatte nel convincimento che io fossi fedele al gruppo.» Fedele al gruppo Lucioli lo era stato davvero, anche quando meditava di cambiare vita, finché non comprese che i suoi compagni non avrebbero accettato che lui si fosse tirato da parte. Cominciarono a minacciarlo, a fargli capire che avrebbe fatto una brutta fine. Ciò che accadde nella mente di quel trafficante di droga che era stato il «sorcio», lo scrisse lui stesso in un memoriale consegnato al giudice: «Io

avevo già espresso più volte il desiderio di smetterla e farla finita con questa vita, e forse per questo cominciarono a farsi sentire pressanti le minacce nei confronti miei e della mia famiglia, perché forse loro avevano già intuito quali erano le mie intenzioni di ravvedimento... Fu così che mentre maturava in me il rinnegamento dei miei trascorsi, loro probabilmente stavano preparando un complotto per eliminarmi, sapendo quale sarebbe stata la portata delle mie rivelazioni.»

(8) «Loro» erano gli altri componenti della banda, da Girlando in giù. Con alcuni Lucioli si ritrovò nella stessa cella a Regina Coeli, e lì capì che la sua sorte era segnata. Successe una sera che avevano sniffato cocaina, Lucioli e altri tre, e uno prese a insultarlo. «Infame, faccia da stronzo, guardia», gli diceva dandogli da bere qualcosa che sosteneva essere la solita acqua e zucchero: Fulvio la prendeva sempre dopo che aveva «pippato». All'improvviso

Lucioli si sentì male, cominciò ad avere giramenti di testa e nausea; fece per alzarsi e prendere la Novalgina, ma uno dei compagni lo fermò: «Te la prendo io». Andò in bagno e tornò poco dopo col bicchiere. «Hai messo venticinque gocce?», chiese Lucioli, e quello, ironico: «No, sono ventisette, va bene lo stesso?» Lucioli bevve, ma dal sapore capì che in quel bicchiere c'era qualcosa di strano. Sentì parlare gli altri: «Adesso gliel'abbiamo data proprio tutta», dicevano, e gli offrivano

altra cocaina. «La mattina dopo», ha scritto ancora il «pentito», «mi sono fatto riportare al Reparto Separazione, e dopo una serissima riflessione ho finito di maturare in me il proposito di collaborare con la giustizia.» (9) Mentre il loro ex amico parlava coi giudici, quelli della banda non stavano con le mani in mano. Avevano saputo che il «sorcio» era diventato «un infame» a tempo di record: un paio di giorni dopo il primo interrogatorio di Lucioli, Gianni

Girlando era già a casa della madre e della moglie, per dire alle due donne che Fulvio stava parlando, che aveva fatto oltre cento nomi. E lui, Lucioli, dal carcere implorava: «Nutro grande timore per i miei familiari, e insisto affinché sia loro assicurata una qualche protezione... Chiedo con insistenza di essere trasferito in altro carcere, per motivi di tutela della mia incolumità personale». (10) Proprio il rischio a cui il «sorcio» si era sottoposto con

le sue confessioni, agli occhi dei magistrati era uno degli elementi che gli davano credibilità. Inoltre, in un periodo in cui per i «pentiti» che non fossero di terrorismo non erano previsti benefici, l'imputato aveva ben poco da guadagnare: prima di svelare fatti e misfatti della banda della Magliana, infatti, Lucioli aveva sulle spalle solo una condanna per traffico di droga, per la quale avrebbe potuto presto ottenere la concessione della semilibertà, e una generica imputazione di associazione per

delinquere; ora, invece, aveva accusato anche se stesso di delitti ben più gravi. «Non vi è dubbio», noterà il pubblico ministero, «che Lucioli Fulvio ha attirato su di sé molti più anni di carcere da scontare di quelli che avrebbe fatto se non avesse collaborato con la giustizia... E chiama in causa persone dal grilletto e dal coltello molto facili, che hanno dimostrato più di una volta di saper raggiungere con le loro sentenze di morte i loro nemici anche nelle carceri più protette, e di non badare a

criteri di umanità quando si tratta di fare opera di intimidazione. Lucioli è ben conscio dei pericoli che corre, ma nonostante ciò prosegue nel suo racconto.» (11) Da quel racconto, alla fine dell'83, scaturirono decine di mandati di cattura per i fatti e le persone elencate da Lucioli. Poi arrivarono il rinvio a giudizio e il processo, quello durante il quale, poco prima della conclusione, Vittorio Carnovale evase tranquillamente dal palazzo di

giustizia sotto gli occhi dei poliziotti. La sentenza della sesta Corte d'Assise arrivò il 23 giugno dell'86, a quasi tre anni dalla prima deposizione di Lucioli. Un verdetto nemmeno troppo pesante per i «bravi ragazzi»: dei sessanta imputati ne furono condannati trentasette; quattordici se la cavarono con l'insufficienza di prove, sei vennero assolti con la formula piena, per tre i reati furono dichiarati prescritti. Ma il dato centrale era un altro: la Corte aveva sancito l'esistenza

dell'associazione criminale, colpendo i traffici di droga e alcuni reati minori, mentre aveva lasciato impuniti i sei omicidi (da Nicolini e Magliolo passando per Nicolino Selis e altri) che doveva giudicare: i presunti colpevoli erano stati tutti assolti, tranne uno. Proprio per gli omicidi il pubblico ministero Leonardo Agueci aveva chiesto le condanne più pesanti. Ma a parte Edoardo Toscano - per il quale era stato proposto l'ergastolo e aveva avuto vent'anni, grazie alla

concessione del «vizio parziale di mente», per aver ucciso Selis - gli altri se l'erano cavata con poco. Il carcere a vita era stato sollecitato per Vittorio Carnovale e Antonio Mancini, condannati rispettivamente a cinque anni e un anno e mezzo; a Colafigli, anziché trent'anni, ne furono inflitti otto di cui uno condonato «per vizio parziale di mente»; Libero Mancone ebbe la metà dei ventiquattro anni richiesti dall'accusa, Gianfranco Urbani, «er pantera», undici e mezzo al posto di ventitré.

Per l'omicidio Loria non bastò nemmeno la perizia chimico-biologica eseguita sul tappeto che ricopriva il cadavere. Le analisi rilevarono una «strettissima analogia delle formazioni pilifere di specie canina» trovate sul tappeto con quelle prelevate nella casa di Vittorio Carnovale dove, secondo il racconto di Lucioli, era avvenuto il delitto e nella quale vivevano anche due pastori tedeschi. E non solo i peli di cane erano gli stessi; i periti parlarono pure di «marcata somiglianza nelle

formazioni pilifere umane», cioè dei capelli trovati sul tappeto e in casa di Carnovale. «Più che di 'processo alla banda della Magliana'», scrissero i giudici della Corte d'Assise nella loro sentenza, «come impropriamente è stato definito dalle cronache giudiziarie, deve parlarsi di 'processo Lucioli', dato che le imputazioni sono state formulate per la massima parte proprio in aderenza a quanto da lui riferito, e tenuto altresì conto che, nel bene e nel male, il Lucioli è stato sempre al

centro dell'attenzione di tutti quelli che si sono occupati di questo processo: gli inquirenti hanno esaltato la sua figura e posto in evidenza la spontaneità, l'univocità e la costanza delle sue accuse, mentre i difensori e gli stessi imputati hanno cercato in tutti i modi di porlo in cattiva luce e di demolire il castello delle sue affermazioni accusatorie. L'impressione di questa Corte è che vi siano state delle esagerazioni sia nella valutazione positiva che in quella negativa.» (12)

Sulle reali ragioni del «pentimento» di Lucioli, che alla fine del processo fu condannato a sette anni e quattro mesi (il pubblico ministero ne aveva chiesti undici e mezzo), la Corte osservò: «Deve convenirsi che la mancanza di interesse è un'ipotesi puramente teorica, perché pentiti completamente disinteressati, almeno nel campo della delinquenza comune, non sono mai esistiti. Con ciò non si vuole escludere che tra le motivazioni della decisione di collaborare vi

possa essere stata, per il Lucioli, anche una forte componente morale e una volontà di revisione critica della propria esistenza; si deve peraltro evitare di dare troppo rilievo a queste considerazioni di carattere etico, sembrando preferibile una visione più realistica e consapevole delle umane debolezze». (13) Un anno dopo il «processo Lucioli» passò l'esame della Corte d'Appello, dove le condanne di primo grado furono sostanzialmente confermate, ma nel giugno del

1988 arrivò il verdetto della Cassazione, prima sezione penale, presidente quel Corrado Carnevale intorno al quale cominciava a crescere la fama di «giudice ammazzasentenze». L'impianto dell'accusa fu demolito, e i giudici che avevano condannato in base alla «supina accettazione delle dichiarazioni del Lucioli» rimproverati aspramente dalla Corte Suprema. «E' mancata», si legge nella sentenza della Cassazione, «un'indagine seria sulle motivazioni psicologiche

che possono aver spinto il Lucioli ad assumere la posizione, certo scomoda, non esaltante, e neppure immune da rischiosità, del delatore e, secondo il gergo carcerario, dell'infame... La motivazione della sentenza finisce con il risolversi in un mero atto di fede nei confronti del chiamante in correità.» (14) Per i giudici di legittimità, mancava la prova che esistesse un'organizzazione criminale come quella descritta dal «pentito»: «Gli stessi versamenti periodici a favore

delle famiglie dei detenuti hanno più apparenza di manifestazione di solidarietà (assai comune nel mondo della malavita), che di prova dell'esistenza di una vera e propria "societas sceleris"... I dati raccolti possono essere indicativi dell'esistenza di rapporti di solidarietà e comunanza di interessi malavitosi, più che di esistenza di una stabile organizzazione criminale.» (15) Basandosi forse sul modello dei gruppi terroristici, supersegreti e con

un'attenzione quasi maniacale alla riservatezza, i giudici della Cassazione non vollero credere alla banda che agiva per lo più alla luce del sole: «Le 'basi operative' non erano altro che due bar... Ora, la circostanza che la banda non disponesse neppure di una sede stabile ove discutere, al riparo di orecchie e occhi indiscreti, i problemi organizzativi e operativi, disegnare i programmi, adottare le decisioni, è elemento che di per sé induce a perplessità». Insomma, le condanne

furono annullate e le assoluzioni per insufficienza di prove trasformate in assoluzioni con formula piena. I «bravi ragazzi» avevano di che essere soddisfatti, per stavolta l'avevano fatta franca. Anche la storia del «pentimento» di Claudio Sicilia comincia con un verbale d'interrogatorio redatto in un giorno d'ottobre. Del 1986, quando era già arrivata la prima sentenza del «processo Lucioli» e sei mesi dopo l'agguato dei «maglianesi» al

quale il futuro «collaboratore» era scampato per miracolo. Il «vesuviano» era stato arrestato per l'ennesima volta perché a casa di un suo amico, dalle parti della Garbatella, saltarono fuori armi e droga che appartenevano a lui. Alle nove di sera, negli uffici della Questura, il detenuto si sedette davanti al sostituto procuratore Andrea De Gasperis: «Sono Sicilia Claudio, nato il 5 febbraio 1949 a Giugliano (Napoli), residente a Roma in via Balzac numero 15, licenza media inferiore, non ho

militato, già condannato. Intendo rispondere: ammetto gli addebiti, e manifesto altresì l'intenzione di riferire in ordine ad altri fatti delittuosi dei quali sono venuto a diretta conoscenza, per un'esigenza di carattere personale e di coscienza». (17) Non era la prima volta che gli investigatori ascoltavano dei racconti di malavita dalla viva voce di Sicilia. Già qualche anno prima, infatti, aveva vestito i panni del confidente, mentre era piantonato in carcere, agli arresti domiciliari.

Raccontò qualcosa di quello che aveva sentito in carcere, sui progetti di attentato a un magistrato romano. Dopo poco si bloccò, disse che voleva la garanzia di tornare libero. Sembrava che stesse male, i medici avevano diagnosticato una grave forma di anoressia, nessuno sapeva ancora che il «vesuviano» digiunava volontariamente, mettendo davvero a rischio la propria salute, per simulare la malattia. Trattò qualcosa con poliziotti e magistrati, uscì e fece la

«soffiata» che portò in carcere Gianni Girlando. Le sue confidenze proseguirono tra alti e bassi, anche perché si imbottiva di cocaina e a volte sragionava. I suoi «amici» impiegarono poco tempo a capire il gioco di Sicilia: «Si stava pentendo, sicché era necessario chiudergli la bocca», dirà Vittorio Carnovale, all'epoca latitante in Olanda ma «richiamato» in patria da Edoardo Toscano proprio per ammazzare il «vesuviano». Il «coniglio» rientrò e si mise in contatto con l'uomo incaricato

da Toscano di portare a termine con lui l'operazione. «Era d'inverno», ha raccontato Carnovale, «e le giornate erano piovose: lo ricordo perché per alcune sere consecutive ci appostammo nei pressi dell'abitazione di Claudio Sicilia, con l'unico risultato di prendere un sacco d'acqua, in quanto il Sicilia, in quelle occasioni, non aveva fatto rientro a casa... Poiché Sicilia non si vedeva e io, essendo ricercato, avevo il problema di non farmi notare troppo, decidemmo, dopo alcuni

infruttuosi appostamenti, di soprassedere e rinviare la cosa. Dopo qualche giorno, tuttavia, venni tratto in arresto...» (18) Successivamente, come spesso capita agli informatori quando non possono più dare notizie alla polizia senza confessare i propri reati, Sicilia finì nuovamente in carcere, e a quel punto decise di fare il salto definitivo, diventando il secondo «pentito» della banda della Magliana. Ma si capiva che non diceva tutto, che taceva su alcuni episodi, oppure minimizzava su altri per

non far apparire le responsabilità sue e degli «amici» che voleva salvare. E anche da «pentito», alcune cose che diceva non le voleva verbalizzare, tornando al ruolo di confidente. Le sue fluviali dichiarazioni in cui gli affari della malavita romana si intrecciavano con quelli della camorra e con alcuni dei misteri d'Italia tuttora irrisolti, dall'omicidio Calvi al sequestro Cirillo furono raccolte in modo disordinato e in tutta fretta dai magistrati, così come uscivano

dalla bocca del «vesuviano», col risultato che su molti fatti non si andò a fondo come si sarebbe potuto. Anche per lui, raccontò nelle sue confessioni, l'incontro con la banda della Magliana era avvenuto in un bar: «Sono giunto a Roma da Giugliano nel 1978-79. Nel 1979 sono andato ad abitare in via Chiabrera numero 122. A quei tempi lavoravo nella ditta familiare che si occupa di commercio di frutta. Ho iniziato a frequentare il bar di via Chiabrera. Qui, fra le altre

persone, ho conosciuto tale Mauretto frequentando il quale, fra l'altro, ho iniziato a praticare l'ippodromo di Tor di Valle. Il Mauretto mi presentò varie persone fra le quali Alvaro Pompili... Nel bar di via Chiabrera avevo conosciuto anche Marcello Colafigli, sempre tramite Mauro. Il Colafigli aveva saputo che io ero parente dei Maisto, a lui noti come esponenti della malavita campana. In una delle nostre visite all'ippodromo di Tor di Valle, presenti il Mauretto e il Pompili, notammo

in un gruppo di persone Marcello Colafigli. Fra le persone accanto al Colafigli mi venne indicato un personaggio denominato 'il negro', e cioè Giuseppucci Franco... Successivamente cominciai a frequentare più assiduamente Marcello Colafigli, e tra noi nacque una vera e propria amicizia». (19) Dopo quattro mesi di interrogatori quasi quotidiani, la Procura di Roma, nel febbraio del 1987, spiccò novantuno ordini di cattura contro le persone chiamate in

causa da Sicilia. Ma servì a poco. Nonostante i pubblici ministeri avessero assicurato che le dichiarazioni del collaboratore erano accompagnate da «riscontri intrinseci ed estrinseci», il 28 marzo - dopo solo tre giorni di lavoro - il tribunale della libertà scarcerò circa la metà degli arrestati. Una decisione clamorosa, dovuta al fatto che per il tribunale, il «pentito» «altro non era che una persona soggettivamente poco attendibile per i suoi precedenti, la sua posizione

giudiziaria, la sua personalità e i suoi presunti moventi.» (20) Fu un brutto colpo per i giudici e investigatori, ma qualche responsabilità l'aveva anche il «vesuviano», che in molte occasioni era apparso confuso, a volte addirittura contraddittorio, uno che secondo alcuni magistrati era più utile come confidente che come «collaboratore di giustizia». Lui stesso se ne era reso conto, e in un memoriale consegnato al giudice istruttore nell'aprile del 1987, dopo le scarcerazioni, scrisse: «Io a

volte mi sono chiesto perché facevo quella vita schifosa, mi prendevano i rimorsi e telefonavo, davo informazioni, in modo particolare quando vedevo i miei figli. E' vero che ero pressato, non dico altro, sta a voi giudicare, non più a me... Ora solo vi sto dando quello che era giusto darvi fin dall'inizio per la fiducia che avevate in me. Tenete queste carte ben strette e combattete, poiché mai nessuno è giunto dove sono arrivato io... Ricordatevi che ciò che vi ho detto è sempre stata la verità,

anche se ho minimizzato il mio ruolo mi capirete. Sono stanco e deluso di tutto ciò che ha fatto il tribunale della "libbertà", e questo però è dovuto anche per colpa mia...» (21) Anche nelle aule di giustizia le dichiarazioni di Claudio Sicilia furono considerate inattendibili, e lo stesso «pentito» abbandonò la galera, nel dicembre del 1990, per passare agli arresti domiciliari. Infine, durante l'estate successiva, tornò libero. S'era trasferito con la moglie nella

zona di Tor Marancia, sempre nella parte sud di Roma, girava con una Croma sulla quale aveva montato il radiotelefono. Stava cercando di ricominciare a vivere, quando il nuovo appuntamento coi killer, il terzo in pochi anni, si rivelò fatale. La sera di lunedì 18 novembre 1991, intorno alle otto e mezza, Sicilia era andato a trovare alcuni amici in un negozio di scarpe di via Andrea Mantegna, vicino a casa. Accadde secondo la solita dinamica, fin troppo

consumata: una moto, un uomo che scende e spara quattro colpi a ripetizione alla persona sulla soglia del negozio, la vittima che si affloscia sul marciapiede, l'assassino che risale in tutta fretta sulla moto, l'accelerata del complice, il rombo della fuga e poi il silenzio. Poco dopo le sirene delle auto della Polizia, i rilievi, la raccolta delle inutili testimonianze. Gli assassini di Sicilia, come quelli di tanti altri caduti nella strage che s'è consumata dopo lo sfaldamento della banda,

sono rimasti senza nome e senza volto. Ma in molti hanno accostato la figura del «vesuviano» a quella di Leonardo Vitale, il primo «pentito» di mafia che già nel 1973 aveva rivelato ai giudici molti segreti di Cosa Nostra, senza essere giudicato attendibile. Lo fecero passare per matto, ma i mafiosi sapevano che non era vero, e non l'abbandonarono al suo destino come aveva fatto lo Stato. Undici anni dopo gli fecero pagare il tradimento: gli spararono da una moto in

corsa, un giorno di dicembre del 1984. L'aereo atterrò a Fiumicino la mattina del 4 ottobre '92. Sulla pista, ad attendere il boss della Magliana, giornalisti, fotografi e telecamere. Quando si aprì il portellone sembrò di rivedere la scena, di otto anni prima, dell'arrivo di Tommaso Buscetta dal Brasile: un nugolo di poliziotti e in mezzo lui, quello che sarebbe stato il più audace pentito di Cosa Nostra. Anche Maurizio Abbatino scese la scaletta quasi portato a

braccia dagli «angeli custodi» della Polizia: senza occhiali da sole, mostrava un volto stanco e segnato dalla barba di un paio di giorni, la camicia rosa aperta sul collo, i capelli spettinati. Fatto qualche passo, quando si accorse dei fotografi e delle telecamere, provò a nascondere il viso col braccio destro, piegandosi in avanti, ma con scarsi risultati. Toccata terra, lo spinsero nell'Alfa Romeo bianca e celeste, e anche lì si ritrovò stretto tra due agenti. L'auto partì a sirene spiegate, ormai

era fatta, «crispino» era nelle mani della giustizia italiana, avrebbe collaborato e parlato, l'aveva annunciato già in Venezuela e ribadito nel viaggio in aereo. Lo portarono in un carcere lontano da Roma, a Belluno; per qualche giorno rimase segregato, poi revocò gli avvocati di fiducia e cominciò a riempire i primi verbali d'interrogatorio. Maurizio Abbatino, il boss freddo e determinato, uno dei «capi storici» della banda, quel «crispino» che aveva una serie impressionante di reati e di

morti sulla coscienza, era diventato davvero il «Buscetta della Magliana». Sulla base delle sue confessioni, che in gran parte confermano quelle di Lucioli e Sicilia, verrà imbastito un nuovo maxiprocesso ai «bravi ragazzi» degli anni Settanta e Ottanta, e lui finirà per sfilare davanti alle Corti d'Assise di tutta Italia, ovunque ci siano da giudicare fatti di mafia, di eversione nera, di cospirazione politica e di malaffare economico, intrecci dove puntualmente compaiono

tracce della banda della Magliana. Proprio a una di queste Corti, nel dicembre del 1993, Maurizio Abbatino ha spiegato i motivi del suo «pentimento». «Quando ha deciso di collaborare, confessare i suoi reati e chiamare in correità anche altri?» chiese il pubblico ministero." «Quando sono ritornato a Roma», rispose Abbatino. «Rispetto al suo arresto, quanto tempo dopo?» «Dopo nove mesi di reclusione.»

«Ci può spiegare, ci può far capire cos'è che le ha fatto decidere di adottare questo atteggiamento?» «Perché appunto, io ho vissuto cinque anni in Sud America, e noi eravamo legati da un'amicizia abbastanza... abbastanza forte, che implicava dei doveri, gli aiuti e le altre cose. Io invece non sono stato aiutato. Non rimprovero niente ai miei compagni, però logicamente non mi interessa più niente di loro, e quindi non ho difficoltà a fare dichiarazioni che prima...»

«Quindi lei», lo interruppe il pubblico ministero, «se ho capito bene, si è sentito abbandonato durante la sua latitanza, quando stava in Sud America?» «Sì, però non è per questo che io... Non è per un senso di vendetta nei confronti dei miei compagni... Semplicemente sono caduti dei sentimenti che prima avevo.» «Cioè vuol dire che lei non si è più sentito obbligato alla lealtà nei loro confronti?» «Esatto.» «Non ho altre domande.»

(22) Quando lesse il mandato di cattura che l'aveva riportato in carcere, nel quale erano riprodotte le confessioni di Maurizio Abbatino che andavano a sovrapporsi quasi perfettamente con quelle da cui lui e suoi amici erano riusciti a scampare in passato - di Fulvio Lucioli, Claudio Sicilia e altri «pentiti», soprattutto del terrorismo nero - Antonio Mancini capì che stavolta era davvero finita. Il 14 aprile del '93 il giudice istruttore Otello

Lupacchini aveva firmato decine di nuovi ordini d'arresto per capi e gregari della gang che aveva insanguinato Roma per oltre un decennio. Ormai l'associazione mafiosa denominata «banda della Magliana» stava venendo alla luce in tutti i suoi contorni, e il vecchio «accattone», l'amico fedele di tanti banditi morti ammazzati, il killer affidabile che non si tirava mai indietro, il galeotto che si era sempre attenuto scrupolosamente alle regole della malavita, a quarantasei anni decise anche

lui di saltare il fosso. Poco prima l'aveva fatto pure Vittorio Carnovale, il «coniglio», che a trentasette anni aveva scelto un'esistenza nuova rispetto al passato e al carcere. «Per i miei trascorsi», dirà Mancini al giudice istruttore, «per le lunghe carcerazioni subite, per la dignità sempre dimostrata e per il rispetto del codice di omertà al quale mi sono sempre attenuto, nell'ambiente carcerario sono sempre stato considerato una sorta di mito.» (23)

Improvvisamente, nella primavera del '94, quel mito s'era incrinato. L'«accattone» era stato messo in isolamento nel carcere dell'Aquila, e la voce di un suo «pentimento» s'era diffusa in un baleno tra gli «amici». Provò lui stesso a convincerli del contrario, presentandosi in tribunale, il 6 aprile, e dichiarando pubblicamente di non essere un infame, che invece gli infami erano quelli che mettevano in giro certe voci. Antonio Mancini in quell'aula di giustizia appariva

invecchiato, la barba incolta che ormai andava verso il «sale e pepe», con gli occhiali da miope e infilato in una tuta da ginnastica, la classica «divisa» dei carcerati di lungo corso. E quando si trattò di difendersi dall'accusa di aver spacciato trecento grammi di eroina, con aria di sfida, disse ai giudici: «Guardate che io so' un delinquente serio, un appartenente alla banda della Magliana, so' la storia della malavita. Ci so' le mezze calzette, ma io sono Mancini Antonio, uno che non chiede

trecento grammi di droga a chicchessia». Rivendicava il suo passato e il suo onore di malavitoso, l'«accattone», ma il dado era già tratto, e di lì a qualche giorno, nel segreto di un carcere di massima sicurezza, avrebbe dichiarato al giudice istruttore: «Immediatamente dopo la mia cattura, a seguito del provvedimento emesso da codesto Ufficio il 14 aprile dello scorso anno, avuta contezza delle dichiarazioni di Maurizio Abbatino e del livello elevato delle conoscenze al quale erano

giunti gli organismi investigativi, ho trovato la necessaria determinazione per rompere in maniera definitiva con l'ambiente criminale nel quale sono vissuto fin dai primi anni Settanta. «Verso questo ambiente, a seguito di mie vicissitudini personali legate da un lato alla mia lunga carcerazione e dall'altro dall'aver constatato che, progressivamente, erano state ammazzate in circostanze che oggi reputo 'strane', persone come Franco Giuseppucci, Danilo Abbruciati,

Nicolino Selis, Angelo De Angelis, Edoardo Toscano, Gianni Girlando e lo stesso 'Renatino' De Pedis, con le quali avevo intrattenuto fraterni rapporti, avevo maturato un profondo senso di delusione che non esito a definire 'di schifo'». In un altro interrogatorio, il primo, Mancini aveva motivato la scelta del «pentimento» con una sorta di «rivolta morale» di cui voleva mostrare di essere capace anche un bandito accanito come lui: «Ha contribuito a far maturare il mio proposito il senso di

disgusto, e vorrei dire di nausea, che ha suscitato in me il rendermi conto che io, come altri partecipanti della banda della Magliana, siamo stati usati, strumentalizzati per fini di bassa politica che nulla avevano a che fare né con i nostri interessi né con i nostri obiettivi. Non voglio sostenere di essere stato un santo, ma vi è un limite a tutto, anche alla delinquenza. «Ho pagato per le mie colpe», proseguiva «l'accattone», «e sono pronto anche a pagare ancora se è

necessario, ma intendo scindere la mia responsabilità morale da quella di altre persone che, pur se non hanno mai materialmente azionato un grilletto, ritengo che siano moralmente peggiori di me e dei miei amici». (25) In quell'udienza davanti alla quarta sezione del tribunale di Roma, sul banco degli imputati, accanto a Mancini c'era pure la sua donna, Fabiola Moretti, incinta di pochi mesi. Più giovane di otto anni rispetto ad Antonio, piccola e vispa, senza

orecchini né anelli ma coi capelli nerissimi e impomatati, increspati in cima secondo lo stile punk, occhioni neri e tailleur-pantalone color crema, salutava sorridente parenti e amici confusi tra il pubblico. Come Mancini, pure Fabiola si rivolgeva al tribunale con un atteggiamento sicuro e un po' provocatorio. «Non so di che devo rispondere, visto che non ho fatto niente», disse quando il presidente le chiese se aveva qualcosa da dichiarare, e tornò a sorridere verso il pubblico. Anche lei stava decidendo di

collaborare con la giustizia; non lo dava a vedere, ma dentro di sé era preoccupata per quello che poteva accadere. Il giorno prima, l'«accattone» aveva verbalizzato le ansie della donna: «In occasione del colloquio telefonico avuto con Fabiola Moretti il 26 marzo u.s., la stessa mi ha informato che appena avuti gli arresti domiciliari è stata contattata da Lamberto Canino, di Ostia, detto 'pantera', il quale le ha detto che Renzo Danesi lo aveva incaricato di avvertire

l'ambiente che io mi stavo 'pentendo'. La Moretti, nel corso della telefonata, era particolarmente preoccupata, perché mentre eravamo entrambi detenuti avevamo subito un furto in casa, il che è sintomatico di una perdita di prestigio nell'ambiente malavitoso. Inoltre la Moretti era preoccupata per il fatto che riceveva visite di persone le quali andavano a verificare la notizia della mia collaborazione. Non è stata in grado di dirmi chi fossero i visitatori: la telefonata è stata

interrotta per essere trascorsi i minuti regolamentari». (26) Con le confessioni di Mancini e della Moretti, ancor più che con quelle di Abbatino, si stava aprendo agli inquirenti la possibilità di andare a fondo nei rapporti di personaggi come Abbruciati e De Pedis non solo con la «mala» milanese, la mafia dei kalashnikov e dei «colletti bianchi», l'eversione nera, ma anche con «ambienti istituzionali e personaggi insospettabili»; il che avvertirà il giudice istruttore nell'ordinanza di rinvio a

giudizio - può «creare qualche 'imbarazzo', tradottosi in pressioni indebite su coloro che ne sono, o almeno potrebbero esserne, a conoscenza.» (27) Una delle pressioni la raccontò proprio Mancini, il quale riferì al giudice quanto gli aveva detto la Moretti, qualche giorno prima. All'una di notte qualcuno aveva bussato alla porta di casa, spacciandosi per colui che doveva controllare se la donna agli arresti domiciliari - era effettivamente in casa. Fabiola aprì, ma anziché il solito carabiniere si

ritrovò davanti una faccia vista più di dieci anni prima. «Mi riconosci?» chiese l'uomo entrando in casa. Dopo qualche titubanza la donna disse di sì, era uno che si faceva chiamare Angelo. Lui andò subito al sodo: «Che sta a fa' Nino, si sta pentendo?» Lei negò e quello promise che entro dieci giorni lo avrebbero fatto uscire dal carcere. Fabiola, che dall'inizio sentiva puzza di bruciato, sbottò: «Perché lo volete far uscire? Per fargli ammazzare qualcuno o per ammazzare lui?» L'uomo

se ne andò senza rispondere. Fabiola Moretti confermò tutto il racconto del marito: «Confermo in particolare di aver subito pressioni e intimidazioni, e di aver ricevuto a questi fini la visita di 'Angelo', che già conoscevo come uomo in stretti rapporti con Danilo Abbruciati. Con quest'ultimo, 'Angelo' condivideva molte attività illegali; Danilo mi aveva detto che si trattava di una conoscenza importante, appartenente a un Servizio segreto o comunque all'ambiente dei Servizi.

Sapevo che 'Angelo' e altri dello stesso ambiente risolvevano a Danilo numerose grane; tramite loro, per quel che mi risulta, Danilo ottenne patente, passaporto e macchine blindate. In più di un'occasione, sapendo che stavo per essere arrestata, ottenevo di evitare ogni intervento nei miei confronti». (28) Al fianco di Abbruciati Fabiola aveva vissuto quasi dieci anni, testimone spesso oculare delle sue «relazioni pericolose». Dopo la morte di Danilo si legò a Mancini e

collaborò a lungo con «Renatino» De Pedis, rimanendo al centro di intrecci e affari sporchi. Adesso avrebbe detto tutto, ma prima di andare avanti la «donna dei boss» volle spiegare perché s'era decisa a collaborare con la giustizia: «Sono consapevole della gravità di quanto posso raccontare, ma non intendo proseguire una vita nella quale debba quotidianamente temere che qualcuno voglia eliminare me o fare del male ai miei figli per il timore che io possa parlare. Spero che raccontando

ciò che è a mia conoscenza, possa superare questo stato di continua soggezione». Il giorno dopo volle precisare: «Desidero che si capisca quanto per me questo passo sia importante e in un certo senso traumatico; infatti segna un totale sconvolgimento dei princìpi ai quali fino a oggi mi sono ispirata e che mi rendo conto di dover mutare... Erano altri tempi, che mi rendo conto essere irrimediabilmente passati, e oggi devo pensare alla salute dei miei figli e a dar loro la possibilità di crescere in

un ambiente migliore di quello nel quale sono cresciuta io». Poi ricominciò a rispondere alle domande del giudice. ***

I PROTAGONISTI.

[L'elenco comprende solo i nomi dei personaggi principali. Le divisioni per gruppo originario di appartenenza e quartiere di provenienza, nonché i ruoli (con le relative attribuzioni di fatti criminosi) e i collegamenti con altri personaggi, sono quelli indicati negli atti giudiziari.]

Gruppo originario di base, quartiere della Magliana: Franco Giuseppucci, «er negro», punto di contatto e tramite con i neofascisti: Aldo Semerari e Fabio De Felice; Alessandro Alibrandi, Massimo Carminati, Cristiano e Valerio Fioravanti, ucciso il 13 settembre 1980; dell'omicidio vengono accusati gli esponenti del clan Proietti. Maurizio Abbatino, «crispino». Edoardo Toscano, «operaietto», ucciso il 16

marzo 1989. Marcello Colafigli, «Marcellone». Antonio Mancini, «l'accattone». Claudio Sicilia, «il vesuviano», punto di contatto e tramite con la camorra di Corrado Iacolare, Michele Zaza e Lorenzo Nuvoletta, ucciso il 18 novembre 1991 dopo essersi pentito e aver testimoniato contro i suoi ex amici. Gruppo della zona TestaccioTrastevere:

Danilo Abbruciati, punto di contatto e tramite con la mafia di Pippo Calò, attraverso Domenico Balducci ed Ernesto Diotallevi, ucciso il 27 aprile 1982 a Milano, nel corso dell'attentato al vicepresidente del Banco Ambrosiano Roberto Rosone, al quale Abbruciati aveva appena sparato. Enrico De Pedis, «Renatino», ucciso il 2 febbraio 1990. Raffaele Pernasetti, «er palletta». Gruppo di Acilia-Ostia:

Nicolino Selis, punto di contatto e tramite con la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, ucciso il 3 febbraio 1981 dagli ex amici della Magliana; il cadavere non è mai stato ritrovato. Antonio Leccese, cognato di Selis, ucciso il 3 febbraio 1981 poco dopo l'esecuzione di Selis. Giuseppe Magliolo, «il killer», amico di Selis, trovato morto il 24 novembre 1981; stava tentando di organizzare la vendetta contro gli assassini di Nicolino.

Giuseppe Carnovale, «il tronco». Vittorio Carnovale, «il coniglio». Giovanni Girlando, «Gianni il roscio», ucciso di 25 maggio 1990. Fulvio Lucioli, «il sorcio». Libero Mancone. Gruppo della Tufello-Alberone:

zona

del

Gianfranco Urbani, «er pantera», punto di contatto e tramite con la 'ndrangheta calabrese di Paolo De Stefano.

Roberto Fittirillo. Angelo De Angelis, «er catena», ucciso il 10 febbraio 1983 perché sospettato dai suoi amici di «tagliare» la cocaina che doveva vendere per conto della banda. Clan Proietti: Maurizio Proietti, «il pescetto», ucciso il 16 marzo 1981. Fernando Proietti, «il pugile», fratello di Maurizio e Mario, ucciso il 30 giugno 1982.

Mario Proietti, «palle d'oro», fratello di Maurizio e Fernando, ferito in due diversi agguati, il 12 dicembre 1980 e il 16 marzo 1981. Enrico Proietti, «er cane», cugino di Maurizio, Fernando e Mario, ferito in un agguato il 27 ottobre 1980. Orazio Proietti, figlio di Enrico, ferito il 31 ottobre 1980 e poi trovato morto per un'overdose di eroina. Mariano Proietti, figlio di Enrico, ucciso il 14 dicembre 1982 da elementi e per motivi estranei alla banda della

Magliana. Altri personaggi: Orazio Benedetti, «Orazietto», amico e collaboratore dei Proietti, ucciso il 23 gennaio 1981. Daniele Raffaello Caruso, ucciso il 22 gennaio 1983 dai killer della Magliana perché ritenuto responsabile dell'omicidio di Mariano Proietti. Franco Nicolini, «er criminale», ucciso all'ippodromo di Tor di Valle il 26 luglio 1978

per questioni legate al controllo delle scommesse clandestine. Antonio Mottola, psichiatra, collega di Aldo Semerari, trovato morto su un'auto bruciata il 25 luglio 1981. Claudio Vannicola, «la scimmia», ucciso per concorrenza nel traffico di droga il 23 febbraio 1982. Amleto Fabiani, «er vòto», ucciso dopo una lite con Colafigli il 15 aprile 1980. Massimo Barbieri, ucciso dopo alcuni contrasti con Sicilia e Abbruciati il 18 gennaio 1982.

Sergio Carrozzi, titolare di una boutique di Ostia e «nemico» di Nicolino Selis, ucciso il 29 agosto 1978. Mario Loria, già implicato nel delitto dei fratelli Menegazzo, ucciso per contrasti legati al traffico di droga e trovato morto nel bagagliaio di un'auto il 18 settembre 1983. Pietro Sante Corsello, ucciso per contrasti legati al traffico di droga il 26 marzo 1991. Roberto Abbatino, fratello di Maurizio, trovato morto sul greto del Tevere, otto giorni dopo la scomparsa, il 26 marzo

1990. Claudiana Bernacchia, «casco d'oro», compagna di Claudio Sicilia. Fabiola Moretti, compagna prima di Danilo Abbruciati e poi di Antonio Mancini. ***

NOTE.

CAPITOLO 1.

1. Mandato di cattura Giudice Istruttore Lupacchini 14-3-93, p. 141. 2. Ibidem. 3. Idem, p. 144. 4. Gangster milanese, «re»

delle case chiuse e delle bische, Francesco «Francis» Turatello ottenne appoggi e protezione dalla mafia siciliana con la quale faceva affari. Quando provò a mettersi in proprio nel commercio della droga, Cosa Nostra decise di eliminarlo. Finì ammazzato nel carcere nuorese di Bad 'e Carros, il 17 maggio 1981, squartato a coltellate dal camorrista Pasquale Barra, detto «'o animale», e altri cinque detenuti. 5. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p. 143. 6. Idem, pp. 18 e 20.

7. Ibidem. 8 Benedetto Blasi, "Stradario romano", Edizioni Colosseum, Roma 1986, p. 174. 9. A cura del Comitato di quartiere, "La Magliana, vita e lotte di un quartiere proletario", Edizioni Feltrinelli, Milano 1977, p.p. 26, 37-38. 10. Requisitoria del Pubblico Ministero Luigi De Ficchy, 2611-1984, p. 8. 11. Idem, p. 13. 12. Sentenza della sesta Corte d'Assise dì Roma 23-686, p. 79.

13. Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, 13-81994, p. 18. 14. Sentenza della sesta Corte d'Assise di Roma, cit., p. 111.

CAPITOLO 2.

1. Squadra Mobile di Roma, relazione di servizio dell'8-81978. 2. Interrogatorio di Ienni Alberto, 27-7-1978. 3. Legione Carabinieri di Napoli - Stazione dì Casoria, rapporto del 4-8-1978. 4. Squadra Mobile di Roma, rapporto del 3-8-1978. 5. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p. 21. 6. Ordinanza di rinvio a

giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.p. 32-33. 7. Interrogatorio del 15 ottobre 1983. 8. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p. 156. 9. Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, cit., p. 373. 10. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p. 157. 11. Interrogatorio di Claudio Sicilia del 17-11-1986. 12. Interrogatorio del 1811-1986. 13. Da un colloquio con l'Autore.

14. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p. 99. 15. Interrogatorio del 3110-1986. Al processo in Corte d'Assise, le persone accusate da Sicilia sono state assolte.

CAPITOLO 3.

1. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p. 93. 2. Idem, p. 181. 3. Idem, p. 185. 4. Interrogatorio del 24-111986. 5. Interrogatorio di Claudio Sicilia del 29-10-1986. 6. Pier Paolo Pasolini, "Ragazzi di vita", Edizioni Garzanti, Milano 1988, p. 47. 7 Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p. 209.

8. «Il Tempo», 18-3-1981. 9. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p. 212. 10. Idem, p. 216. 11. Ibidem. 12. «Il Messaggero», 29-11983.

CAPITOLO 4.

1. Interrogatorio di Pietro De Riz del 20-10-1983. 2. Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, cit., p. 19. 3. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p. 21. 4. Interrogatorio del 20-101983. 5. Ibidem. 6. Ibidem. 7. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p. 25.

8. Ibidem. 9. Interrogatorio del 25-101986. 10. Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, cit., p. 52. 11. Idem, p. 35. 12. Interrogatorio del 2510-1986.

CAPITOLO 5.

1. Requisitoria del p.m. Luigi De Ficchy, cit., p. 26. 2. Questura di Roma, rapporto terza sezione Squadra Mobile del 19-9-1989. 3. Interrogatorio del 23-101986. 4. Ibidem. 5. Interrogatorio del 3-111986. 6. Ibidem. 7. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p. 178.

8. Idem, p. 176. 9. Interrogatorio dell'1-121986. 10. Interrogatori del 19-101986 e del 22-12-1986. 11. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p.p. 61-62. 12. Squadra Mobile di Roma, rapporto di denuncia a carico di Abbatino Maurizio e Toscano Edoardo, 7-5-1983. 13. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p. 53. 14. Idem, p. 54. 15. Idem, p.p. 66-67. 16. Sentenza della sesta Corte d'Assise di Roma, cit., p.

247. 17. Ibidem. 18. Questura di Roma, Squadra Mobile, esito accertamenti, 6-2-1981. 19. Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, cit., p. 327. 20. Idem, p. 331. 21. Idem, p. 332. 22. Ibidem. 23. Interrogatorio dell'1111-1986. 24. Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, cit., p. 322. 25. Sentenza del tribunale

di Roma, nona sezione, del 166-1989, cit. in Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.p. 300 e segg. 26. Idem, p. 324. 27. Requisitoria del p.m. Luigi De Ficchy, cit., p.p. 72 e 75. 28. Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, cit., p. 229.

CAPITOLO 6.

1. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p. 32. 2. Interrogatorio del 31-101986. 3. Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, cit., p. 442. 4. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p. 197. 5. Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, cit., p. 441. 6. Interrogatorio del 25-10-

1986. 7. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p. 196. 8. Interrogatorio del 18-101983.

CAPITOLO 7.

1. Ufficio istruzione di Palermo, ordinanza-sentenza contro Abbate + 706, 8-111985, p.p. 4640 e 4644. 2. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p. 37. 3. Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, cit., p. 74. 4. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p. 43. 5. Idem, p.p. 43-44. 6. Ordinanza di rinvio a

giudizio g.i. Lupacchini, cit., p. 70. 7. Idem, p. 77. 8. Idem, p. 88. 9. Tribunale penale di Roma, terza sezione, sentenza dell'82-1986, p. 12. 10. Idem, p. 31. 11. Interrogatorio del 3110-1986. 12. Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, cit., p. 88. 13. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p.p. 46-47. 14. Interrogatorio del 1012-1993, prima Corte d'Assise

di Milano. 15. Interrogatorio del 15-71991, negli uffici della Procura del distretto sud di New York. 16. Angelo Cosentino, mafioso trasferitosi a Roma e capo di una decina inserita nella famiglia di Santa Maria di Gesù, diretta da Stefano Bontate. 17. Interrogatorio del 15-71991, cit. 18. Interrogatorio del 4-121984. 19. Senato della Repubblica, Undicesima legislatura, Doc. IV n. 169, Domanda di

autorizzazione a procedere contro il senatore Giulio Andreotti per il reato di cui agli artt. 110, 575 e 577 n. 3 del codice penale, trasmessa il 9-61993, p.p. 14-15. 20. Interrogatorio del 1911-1986. 21. Interrogatorio del 15-71991, cit.. 22. Requisitoria del p.m. Giovanni Salvi del 6-4-1991, p.p. 1-2. 23. Noti come «gli esattori di Salemi», legati a Salvo Lima e al mondo democristiano della Sicilia, furono rinviati a giudizio

nel maxiprocesso di Palermo per il reato di associazione mafiosa. Nino morì a dibattimento in corso, Ignazio fu condannato e assassinato nel settembre del 1992. 24. Senato della Repubblica, Undicesima legislatura, Doc. IV n. 169, cit., p.p. 11-12. 25. Idem, p.p. 68-69. 26. Idem, p. 74. 27. «OP», n. 29 del 31-101978. 28. Pino Arlacchi, "Addio Cosa Nostra - La vita di Tommaso Buscetta", Edizioni Rizzoli, Milano 1994, p. 207.

29. Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, cit., p. 127. 30. Interrogatorio di Fabiola Moretti, contenuto in atti della Procura di Palermo, proc. n. 3538/ 94 nei confronti di Andreotti Giulio. 31. Interrogatorio di Antonio Mancini, contenuto in atti della Procura di Palermo, proc. n. 3538/94 nei confronti di Andreotti Giulio. 32. Interrogatorio del 23-91994. 33. Interrogatorio del 3-111986.

34. Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, cit., p. 358. 35. Idem, p.p. 359-360. 36. Ibidem. 37. Idem, p.p. 362-363.

CAPITOLO 8.

1. Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Imposimato, 8-51984. 2. Ibidem. 3. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p.p. 108-109. 4. Interrogatorio del 7-111986. 5. Seconda Corte d'Assise d'appello di Bologna, udienza del 10-11-1989. 6. Interrogatorio del 15-101982.

7. Interrogatorio del 2-31982. 8. Interrogatorio del 21-61985. 9. Interrogatorio del 15-101982. 10. Ibidem. 11. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p. 107. 12. Ibidem. 13. Corte d'Assise d'appello di Bologna, udienza del 2-31994. 14. Interrogatorio del 5-61985. 15. Ibidem. 16. Mandato di cattura g.i.

Lupacchini, cit., p. 99. 17. Jacques Forcet era uno dei complici di Berenguer, Bellicini e Bergamelli nella banda dei Marsigliesi. 18. Interrogatorio del 21-61985. 19. Interrogatorio del 12-51986. 20. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p. 67. 21. Idem, p.p. 122-123. 22. Interrogatorio del 10-51994. 23. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, p. 111. 24. Ibidem.

25. Idem, p. 112. 26. Idem, p. 123. 27. Idem, p. 117. 28. Sentenza della quinta Corte d'Assise di Roma, 29-71985, p.p. 166-167. 29. Interrogatorio dell'1112-1992. 30. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p. 124. 31. Procura della Repubblica di Bologna, requisitoria nel procedimento «bis» sulle stragi dell'Italicus e alla stazione di Bologna, 5-7-1994 p. 49. 32. Idem, p. 100. 33. Ordinanza di rinvio a

giudizio g.i. Lupacchini, cit., p. 51. 34. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p. 36. 35. Ibidem. 36. Interrogatorio al p.m. di Perugia del 26-7-1994. 37. Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, cit., p. 118. 38. Idem, p. 109. 39. Idem, p.p. 110 e 116. 40. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p. 48.

CAPITOLO 9.

1. Interrogatorio di Claudio Sicilia del 5-11-1986. 2. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p. 223. 3. Idem, p. 224. 4. Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, cit., p. 119. 5. Idem, p. 125. 6. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p. 48. 7. Ordinanza a rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.

126. 8. Ibidem. 9. Ibidem. 10. Mandato di cattura g.i. Lupacchini, cit., p. 49. 11. Ibidem. 12. Ibidem. 13. Interrogatorio del 26-11987. 14. Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, cit., p. 333. 15. Idem, p. 184. 16. Idem, p. 183. 17. Ibidem. 18. Idem, p. 184. 19. «Il Messaggero», 3-2-

1990. 20. Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, p. 230. 21. Questura di Roma, terza sezione Squadra Mobile, rapporto del 19-9-1989. 22. Ibidem. 23. Interrogatorio di Antonio Mancini, contenuto in atti della Procura di Palermo, proc. n. 3538/94 nei confronti di Andreotti Giulio. 24. Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, p. 340. 25. Idem, p. 339. 26. Idem, p. 341-342. 27. «La Repubblica», 27-3-

1990. 28. «Il Tempo», 25-5-1990. 29. Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, cit., p. 346.

CAPITOLO 10.

1. Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.p. 6-7. 2. Idem, p.p. 7-8. 3. Idem, p. 5. 4. Idem, p. 8. 5. Interrogatorio del 15-101983. 6. Requisitoria del p.m. Luigi De Ficchy, cit., p. 8. 7. Interrogatorio del 14-111983. 8. Memoriale Lucioli, p.p. 7-

8. 9. Idem, p. 10. 10. Interrogatorio del 1910-1983. 11. Requisitoria del p.m. Luigi De Ficchy, cit., p. 9-10. 12. Sentenza della sesta Corte d'Assise di Roma, cit., p.p. 61-62. 13. Idem, p.p. 63-64. 14. Corte di Cassazione, prima sezione penale, sentenza del 14-6-1988, p.p. 33-35. 15. Idem, p.p. 46-48. 16. Idem, p.p. 49-50. 17. Interrogatorio del 1910-1986.

18. Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, cit., p. 133, 19. Interrogatorio del 2110-1986. 20. Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, cit., p. 3. 21. Memoriale Sicilia, p. 34. 22. Prima Corte d'Assise di Milano, udienza del 10-121993. 23. Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, p. 227. 24. Ibidem. 25. Interrogatorio dell'11-31994.

26. Ordinanza di rinvio a giudizio g.i. Lupacchini, cit., p. 130. 27. Idem, p. 128. 28. Idem, p. 130. 29. Idem, p. 131. 30. Interrogatorio dell'8-51994.

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